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Corpi

di Francesco Lamendola - 24/02/2011




È una bella mattina d’estate e la spiaggia è disseminata di corpi seminudi mollemente abbandonati sulla sabbia arroventata, abbronzatissimi, lucidi di creme solari che spandono nell’aria una fragranza esotica, cosparsi di minutissime gocce di sudore.
Strano: più sono nudi, e più questi corpi si presentano anonimi: si direbbe che proprio la loro nudità, oltre ad essere quanto di meno erotico si possa immaginare, faccia scomparire i loro caratteri individuali e li consegni ad una condizione oggettiva e impersonale, che poi somiglia moltissimo a quella della materia inorganica, della pura oggettualità.
Infatti: c’è in loro qualcosa di inerte, di inorganico, di geometricamente astratto, come se non di corpi viventi si trattasse, ma di un unico corpo, consegnato ad una passività e ad una immobilità che somiglia a quella della morte.
Analogamente, si può dire che in fondo ad ogni lussurioso c’è, a ben guardare, qualcosa del necrofilo: perché il corpo che egli vorrebbe possedere è un corpo sen’anima, intercambiabile, reificato, totalmente arrendevole e passivo e, perciò, somigliante a quello di un cadavere.
Non è così che Achille si sfogò sul corpo dell’amazzone Pentesilea, turbato dalla sua bellezza «post mortem»: quella bellezza che, lei viva, non aveva saputo vedere?
Corpi nudi, dunque, come corpi senz’anima e, pertanto, come corpi senza vita; corpi giovani, per lo più, o che si sforzano disperatamente di apparire giovani, anche se tali hanno cessato di essere da gran tempo.
Ma chi potrebbe tollerare la nudità di un corpo vecchio, dopo che del giovanilismo è stata fatta una religione, oltre che una rigida estetica?
Perciò, a questi poveri corpi non resta altra strada che quella di essere giovani per forza; di voler restare giovani, disperatamente, contro tutto e a dispetto di tutto, in una vera e propria battaglia diuturna per la sopravvivenza.
Chi getta le armi è perduto: il corpo che si arrende alla vecchiaia è un corpo abbandonato alla solitudine, al disprezzo, al totale disamore; un corpo del quale nessuno saprebbe che farsene, un corpo su cui nessuno sarebbe capace di chinarsi con rispetto e compassione.
E un corpo consegnato alla privazione radicale della dolcezza è un corpo condannato alla morte; o, per dir meglio: condannato a morire mentre è ancora in vita: ad assistere, cioè, da vivo, alla propria morte sociale, alla propria cancellazione.
Come si fa, dunque, ad esorcizzare la paura, il terrore, di essere condannati a questa morte anticipata, a questa morte sociale che prelude e accompagna il naturale processo verso la morte biologica?
Non è una domanda retorica, perché una risposta esiste ed è, a certe condizioni, praticabile da moltissime persone, se non da tutte: inseguendo il mito del corpo magro.
Il corpo magro possiede qualcosa di efebico, qualcosa di indeterminato, qualcosa di potenziale, come un’autostrada che si apre verso innumerevoli direzioni e che lascia impregiudicata la decisione circa la meta finale del viaggio.
È come una promessa che si rinnova di giorno in giorno, senza mai concretizzarsi, ma, appunto per questo, lasciando un ampio e felice margine di libertà, quanto meno apparente: cosa fondamentale in un tempo, come il presente, che aborre dalle decisioni nette, dalle scelte definite, da tutto ciò che comporta la irrevocabilità del cammino intrapreso.
Il corpo magro ha una connotazione di tipo adolescenziale.
Chi lo possiede non ha ancora raggiunto pienamente l’età adulta, tanto meno può considerarsi avviato verso l’aborrita vecchiaia: quindi gli è permesso di presentarsi con tutte le seducenti ambiguità, con tutte le allusioni e le promesse che sono proprie dell’adolescenza.
Dall’abbigliamento al tempo libero, chi possiede un corpo magro, preferibilmente da sfoggiare seminudo, può permettersi di indugiare nel prato fiorito di una eterna adolescenza e concedesi tutti quei comportamenti, tutte quelle azioni che si tollerano, appunto, da parte di un adolescente, ma che suscitano riprovazione e biasimo se provengono da un adulto o, addirittura, da una persona in età relativamente avanzata.
Una sessantenne che possieda un corpo magro e, quindi, giovanile, può permettersi di stendersi al sole in topless, senza suscitare critiche, semmai strappando commenti di ammirazione e di invidia; cosa che non è concessa alla sua coetanea il cui corpo è stato appesantito dagli anni, il cui volto e le cui membra recano segnate a chiare lettere le stimmate dell’età.
E questo, che a tutta prima ci sembra talmente logico da sconfinare nella ovvietà, è, invece, una forma nemmeno tanto sottile di razzismo o, per meglio dire, di religione integralista a base fortemente razzista, caratterizzata da un razzismo giovanilistico, di cui il corpo magro, il corpo adolescenziale, è il totem sacro, il feticcio da adorare.
Diceva Roland Barthes, figura eminente dello strutturalismo francese contemporaneo, nel corso di una intervista  apparsa nel 1982 su «Critique» («Il corpo, ancora», in: R. Barthes, scelta tratta dalle «Oeuvres complètes», Paris, Seuil, 1993; traduzione italiana a cura di Gianfranco Marrone, col titolo «Scritti. Società, testo, comunicazione», Torino, Einaudi, 1998, pp. 129-131):

«È difficile cogliere i caratteri tipici del corpo moderno, ma c’è - credo - un carattere costante inscritto  in un’opposizione che è un vero e proprio mito moderno. Si tratta, appunto, dell’opposizione tra il corpo giovane e il corpo vecchio e, per così dire, della rimozione sociale del corpo vecchio.  Sembra che la nostra società tolleri solo corpi giovani. Ogni volta che la tecnica culturale - se così posso dire - s’impadronisce del corpo, si tratti della pubblicità, del cinema o della fotografia, quel che viene messo in scena , ciò che viene promesso è sempre un corpo giovane,  come se si trattasse di vedere l’uomo solo sotto le spoglie di un essere immortale.
Ci sarebbe un mucchio di segni, non li si può contare:la straordinaria estensione del commercio dell’abbigliamento per i giovani, per esempio, e la regressione dei vestiti adatti agli anziani. Tutto questo raggiunge quella specie di cancellazione generalizzata della morte che segna la nostra società in modo abbastanza tragico, e di cui del resto i sociologi si preoccupano. Cancelliamo, censuriamo, rimuoviamo la morte, la priviamo a tal punto della sua simbologia che ci viene sempre più difficile dialettizzarla. Il risultato è che nella società moderna c’è quel che non esiterei a chiamare una sorta di razzismo giovane, nel senso che i giovani, la gioventù, sono elaborati dalla società come una sorta di razza, da cui si è ovviamente esclusi a partire dal momento in cui non si è più giovani.
Tutto ciò è perfettamente leggibile in un mito che ha anche un substrato molto importante, attuale: il mito del corpo magro. Il corpo magro è assimilato a un corpo giovane, la magrezza è un segno garantito di giovinezza, da cui lo straordinario sviluppo delle tecniche di dimagrimento, la straordinaria preoccupazione e ossessione che rappresenta nel mondo attuale il desiderio di dimagrire, come dire di man tenere il proprio corpo nello stato mitico di giovinezza: è in realtà il desiderio di immortalità. Esiste un vero e proprio mito della cura dimagrante che coinvolge veramente tutti, uomini e donne insieme, che comincia molto presto, ben prima della vecchiaia, e che prova che il corpo moderno si vuole massicciamente, miticamente, collettivamente un corpo magro e giovane.»

Queste ultime frasi sono state pronunciate meno di trent’anni fa, ma sembrano già appartenere a un altro mondo.
Oggi, infatti, al desiderio compulsivo di dimagrire, peraltro sostenuto anche coercitivamente dagli apparati statali (vi sono genitori grassi che si sono visti sottrarre la patria potestà sui figli a causa del proprio corpo), ha raggiunto sottigliezze ben più raffinate, come la massiccia diffusione della chirurgia estetica per rimodellare il corpo in senso giovanilistico.
È diventato ormai quasi impossibile, di fronte al corpo di una persona anagraficamente matura, specie nel mondo dello spettacolo - il mondo dell’apparire per eccellenza - sapere se si tratti di un corpo naturale o parzialmente artificiale; e fino a che punto sia divenuto un corpo artificiale, tecnologicamente costruito, pezzo a pezzo, secondo un progetto preciso.
Un corpo che esibisce dei seni, dei glutei, delle labbra, un naso e una pelle del viso che, forse, hanno subito più e più interventi di chirurgia estetica, sino ad assumere delle fattezze radicalmente diverse da quelle originarie: sicché, circostanza paradossale, il corpo di un anziano o di una anziana finisce per apparire più giovanile di quando quella stessa persona aveva venti o venticinque anni.
Barthes, come abbiamo visto, parlava di una forma di razzismo; a noi sembra che si possa parlare di una vera e propria religione, di cui il razzismo non è che una conseguenza, per quanto diretta; ma al centro del nuovo atteggiamento verso il corpo non c’è tanto la supremazia biologica del corpo giovane, quanto il mito soteriologico di esso.
In altre parole, non è il corpo giovane che si vuole prolungare eternamente, quanto la sua idea metafisica, la sua dimensione assoluta.
Un corpo che non è poi così carnale come si vorrebbe far credere, ma che è, al contrario, un corpo idealizzato e sublimato dalla pubblicità, dal cinema, dalla letteratura e che ha perso ogni precisa connotazione fisica, tranne che dal punto di vista puramente visivo ed esteriore.
Un corpo che non soffre mai, che non è mai affaticato, che non è mai malato, che non mostra la più piccola imperfezione; un corpo perfettamente attrezzato per apparire (per apparire, si badi, non per essere) perennemente fresco e seducente.
Un corpo, soprattutto, che non mostra mai segni che ne tradiscano il carattere realistico: diradamento o imbiancamento dei capelli, carie dentarie, lentezza di movimenti; ma che risulti, per così dire, a-temporalizzato, miracolosamente sottratto al fluire del tempo e alle ingiurie delle circostanze concrete della vita.
C’è, in questa nuova religione di salvezza basata sul culto totemico del corpo magro e, quindi, adolescenziale, un elemento, neanche tanto nascosto, di oscenità, per non dire di vera e propria pornografia: come bene aveva visto lo scrittore polacco Witold Gombrowicz, che ne aveva fatto oggetto di riflessione nel suo romanzo intitolato, appunto, «Pornografia».
Ricordiamo, infatti, la definizione che già altra volta abbiamo dato della pornografia: la separazione della parte dal tutto, specialmente nella sfera sessuale, al fine di suscitare la pulsione di desiderio da parte del pubblico.
Ebbene, in una società nevroticamente erotizzata come la nostra, dove non si può uscire di casa (e nemmeno restarci, grazie alla radio, alla televisione e al computer) senza venire investiti e letteralmente aggrediti da dosi massicce di erotismo pubblicitario, tristemente monotono e ripetitivo, ma proprio per questo ancora più claustrofobico e ossessionante, il corpo magro e giovanile è sbandierato più che mai come una bandiera di salvezza, anzi, come l’unica bandiera di salvezza contro l’instabilità del continuo mutamento; mentre noi tutti siamo ridotti, volenti o nolenti, al ruolo di spettatori-guardoni.
Si direbbe che, nella frana generale di tutti i valori, di tutte le certezze, di tutti i punti di riferimento, il sogno compulsivo di trasformare il proprio corpo, fragile e caduco, in un corpo a-temporalizzato ed eternamente giovane (che è altra cosa dal “semplice”, si fa per dire, ringiovanimento) sia l’unica cosa scampata al diluvio, l’unica ancora di salvezza alla quale aggrapparsi.
E tuttavia, come abbiamo visto, non è un corpo giovane e magro, quello che si vorrebbe realmente possedere, bensì la sua idea, la sua ipostasi, la sua proiezione assoluta nell’Iperuranio della nostra immaginazione farneticante: suprema alienazione dell’uomo da se stesso e suprema violenza sul corpo medesimo, che, disgiunto dalla propria concretezza fisica, nonché dalla propria dimensione spirituale, che lo riveste, lo anima e lo ingentilisce, regredisce al livello di pura carne, da esibire sul mercato inesausto - perché artificialmente stimolato - dell’immaginario sessuale.
E questa è null’altro che pornografia.
Ecco perché quei corpi nudi, sulla spiaggia, sono così poco erotici, anzi, per dirla tutta, così tristi e perfino repulsivi: sono corpi senza individualità, senza dignità, senz’anima: pezzi di un meccanismo, più che organismi viventi completi, armoniosi, capaci di suscitare infinita tenerezza anche per i loro limiti e per le loro imperfezioni.