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Il tabù, sbagliato, della violenza

di Alessio Mannino - 24/02/2011


Augurarsi la pace è sacrosanto, sia tra le diverse nazioni che all’interno di ciascuna società. Ma quando le ingiustizie superano certe soglie, e diventano una sopraffazione sistematica, l’unica strada che resta è quella della lotta


Parlando con la gente comune sento una malcelata, ma ipocrita invidia per i ribelli anti-Gheddafi. Appena ne hanno avuto occasione i libici che non ne potevano più, concentrati soprattutto in Cirenaica, hanno osato sfidare il dittatore. E loro rischiano la pelle, abbattuti come mosche dalle milizie mercenarie e dai bombardamenti aerei. Noi italiani, che dobbiamo vedercela con un tiranno da operetta (e occupandoci solo di lui facciamo dormire sonni tranquilli al Potere reale, banche e grandi industrie), al massimo possiamo perdere anni dietro a giudici e avvocati in interminabili processi-farsa come per il G8 di Genova. 

I motivi per cui non scendiamo in piazza per rovesciare questo regime di odiosi privilegiati, paraculati di partito e sanguisughe finanziarie possiamo scoprirli se guardiamo nello specchio libico. Tanto per cominciare, in prima linea là ci sono giovani, di venti, trent’anni al massimo, molti addirittura neppure maggiorenni. E sono armati. Non rifiutano la violenza a priori, con orrore pacifista, come fanno i loro coetanei occidentali. Certo, impugnano le armi fornite da un esercito che in molti casi si è schierato dalla loro parte. Ma ho il fortissimo dubbio che da noi pochi, sparuti superstiti al rammollimento generale sarebbero disposti a imbracciarle, se non altro perché, con la leva ormai abolita, non saprebbero usarle e correrebbero il pericolo di spararsi sui piedi (incluso il sottoscritto, che non ha fatto il militare perché la mia classe, 1980, e quelle successive sono state esonerate d’ufficio). Nelle strade della Libia insorta, invece, agitano i kalashnikov in aria con orgoglio. E se magari neanche lì tutti gli imberbi rivoluzionari sono capaci di maneggiarli, almeno sembrano consapevoli che a volte non basta agitare le bandiere arcobaleno.

Questi ragazzi, pur vivendo in un paese dove le tribù contano ancora, si sentono un popolo, e si considerano parte della più ampia comunità araba. La divisione tribale ha fatto sì che il malcontento divampasse, riunendosi contro il regime del Colonnello, il nemico comune. Hanno nel cuore, tuttavia, un sentimento di appartenenza che va oltre le pur legittime rivendicazioni settoriali legate all’università e alla scuola, come è stato in Italia a dicembre per la sollevazione contro la riforma Gelmini. «Siamo tutto uno stesso popolo. Sta nascendo una nuova unità araba», è un grido registrato ieri in una bella corrispondenza da Tobruk dell’inviato Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera. Sarà pure un’illusione di rivoltosi eccitati dalla vittoria, ma è il fatto stesso di credere di fare la Storia che rende possibile cambiarne il corso. 

Diversamente da tunisini ed egiziani, per i quali la tecnologia informatica ha avuto un non secondario ruolo di innesco e di coagulo dell’insurrezione, in Libia la giovane generazione che ha attaccato ed espugnato i palazzi del potere non ha utilizzato granché Facebook e Twitter. Non ci sono rivoluzionari da tastiera, da queste parti. Seguono molto Al Jazeera, in barba al divieto di installare antenne, un po’ come facevano sotto la guerra gli italiani disillusi sulla propaganda fascista, che ascoltavano in segreto Radio Londra. 

Il sangue scorre a fiumi, si parla di migliaia di morti. Eppure l’intifada non si piange addosso, e se vuole togliere di mezzo l’odiato despota la sua non è una missione metaforica, va presa alla lettera: «Dobbiamo uccidere Gheddafi. Vendetta prima di tutto. Cosa fareste voi al nostro posto?». Già: cosa faremmo? Avremmo le palle per fare lo stesso, con gli spregevoli figuri che si fanno passare per gentiluomini perché si pavoneggiano nel parlamento, nei consigli di amministrazione, negli istituti finanziari, e che, dall’alto e spesso nell’ombra, ci sfruttano, ci affamano e ci pisciano in testa? 

A Berlusconi una Piazzale Loreto gli renderebbe troppo onore: per un personaggio come lui, comico piuttosto che tragico, basta e avanza la sana, vecchia galera. Ma con gli altri, più subdoli, pupari della più inafferrabile di tutte le dittature, quella del mercato, la dura legge del taglione sarebbe una punizione sommamente giusta. E siccome sul loro capo pende la responsabilità di tante e tali vittime sul lavoro, famiglie finite sul lastrico, imprenditori suicidi e di una tale infelicità di massa che ci ha reso imbelli e paurosi, se dovessimo risvegliarci dal torpore la carica di rabbia repressa avrebbe tutte le giustificazioni per andare fino in fondo. Non c’è ancora la pancia abbastanza vuota per armare il braccio, ma anche a noi non resta che la violenza. Popolare, diffusa, politica. Ma violenza. Cerchiamo di familiarizzare con l’idea: prima o poi ci toccherà metterla in pratica. Persino noi.