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Il male oscuro della famiglia moderna è la mancanza di speranza nel futuro

di Francesco Lamendola - 27/02/2011




È da oltre mezzo secolo che i sociologi parlano con preoccupazione di “crisi”, se non addirittura di “morte”, della famiglia.
Ed è da altrettanto tempo che politici, economisti, pubblici amministratori sostengono di essersi fatti carico del problema, di essersi presi a cuore i destini della famiglia, di voler fare il possibile e, magari, l’impossibile per arrestarne il declino.
Prima ancora, alcuni scrittori e drammaturghi d’avanguardia avevano incominciato a mostrare la famiglia come la sede di tutti i vizi, di tutte le meschinità, di ogni possibile depravazione “borghese” e avevano lasciato dedurre al pubblico, quando non lo proclamavano a chiare lettere, che una simile istituzione meritava di sparire al più presto dalla faccia della Terra, accompagnata dal disprezzo e dalla esecrazione di ogni spirito nobile ed “illuminato”.
Da qualche anno, poi, una cultura “progressista” e “radicale” viene sostenendo che qualunque coppia di amanti, anche se uniti da vincoli assolutamente estemporanei, anche se ben decisi a non fare nemmeno un figlio, anche se entrambi uomini o entrambi donne, costituiscono ad ogni effetto una “famiglia” e che le spettano tutti i riconoscimenti giuridici.
La crisi della famiglia, poi, è apparsa strettamente legata all’andamento sempre più sconfortante del tasso di incremento demografico, ormai in caduta libera, tanto da prefigurare l’Europa del ventunesimo secolo come un continente di anziani, con tutte le conseguenze, anche economiche e sociali, che ciò comporta.
E tutti questi fenomeni, se in Italia sono apparsi più evidenti per una serie di ragioni che hanno la loro origine nelle particolarità e nelle numerose contraddizioni della “via italiana” alla modernità, sono, comunque, tipici della modernità in quanto tale: prova ne sia che anche le società tradizionali, allorché si aprono al modello economico e culturale dell’Occidente (ad esempio, all’interno del gigantesco flusso migratorio che ha per destinazione l’Europa e il Nord America), tendono a condividere la crisi dell’istituto familiare, sia pure in modi e tempi diversi.
Ora, al di là delle (mancate) promesse, da parte dei politici e dei pubblici amministratori, di fare del loro meglio per invertire questa tendenza negativa, offrendo sostegno alle famiglie sotto forma di sgravi fiscali, di migliori servizi sociali, di agevolazioni e prestiti per l’acquisto della casa, eccetera, vale forse la pena di fermarsi a interrogarsi sul contesto culturale in cui si sta consumando, sotto i nostri occhi, dentro le nostre abitazioni, il dramma della famiglia moderna.
La famiglia moderna, innanzitutto, è l’erede diretta del mutamento socioeconomico provocato dalla Rivoluzione industriale: sradicata dalla campagna (il fenomeno, in Italia, si è completato appena due generazioni fa), frettolosamente inurbata, trasformata in famiglia mononucleare, ha vissuto tutti i contraccolpi del boom industriale prima, della recessione e della crisi poi, nel contesto di un modo di produzione che è passato dal primato del settore agricolo a quello del secondario e, da ultimo, del terziario avanzato, con una crescente mobilità delle persone, delle merci, del denaro, delle professioni e una progressiva globalizzazione dell’economia e della finanza.
L’uomo e la donna, i due soggetti fondanti della famiglia (ci scuseranno questa impostazione biecamente reazionaria i sostenitori della piena normalità delle coppie gay), hanno visto il proprio ruolo reciproco, la propria figura lavorativa e persino la propria identità psicologica, passare attraverso continui mutamenti, scossoni e relativi assestamenti, tutti subiti dall’esterno, come effetto delle sempre nuove esigenze del mercato e della tecnica; anche se, qualche volta - vedi femminismo degli anni Sessanta e Settanta del ‘900 - hanno potuto sembrare originati dall’interno, con tutte le loro conseguenze sul terreno sociale e legislativo, come la legalizzazione del divorzio prima, dell’aborto poi, infine delle coppie “di fatto”.
La famiglia moderna, dunque, a differenza di quella rurale, non è nata in maniera organica e spontanea: è stata il prodotto di una radicale trasformazione del modo di produzione capitalistico e, di conseguenza, delle esigenze del mercato del lavoro, totalmente ristrutturato rispetto a quelle dell’economia pre-moderna, largamente basata sul lavoro a domicilio, sull’autoconsumo e su una limitata circolazione delle merci e del denaro.
Anche se c’è stato un momento - variabile da una società all’altra - in cui, magicamente, la famiglia moderna sembrava aver trovato un proprio equilibrio, una propria stabilità materiale e morale, una propria autonomia e relativa autosufficienza, basata sulla larga disponibilità di beni materiali di consumo e alimentata dall’industria dell’immaginario per eccellenza, il cinema, presto imitata dalla televisione, possiamo ora vedere che quel “magico” momento ci era apparso tale solo per un errore di prospettiva e che esso recava già in se stesso, fatalmente, i sintomi di quel male oscuro che, poco dopo, sarebbe esploso, portando ad un aumento esponenziale delle separazioni e dei divorzi; al dilagare del consumo di droghe, anche pesanti, fra i giovani; al crollo della natalità; al venir meno dei più elementari legami di solidarietà e di sostegno reciproco fra i membri della famiglia medesima, travolta dalle logiche conflittuali tra i due genitori, tra i genitori e i figli, tra i figli maggiori e minori, tra i figli maschi e le figlie femmine.
Ma qual è, dunque, il male oscuro della famiglia moderna; qual è il demone nascosto che, scavando come il verme nella polpa della mela, ha finito per corrompere la famiglia nelle sue basi più profonde, per minarne la stessa possibilità di sopravvivenza?
Ebbene, anche se le sue componenti sono molteplici e svariate, un comune denominatore crediamo esista, ed è questo: il venir meno di un orizzonte condiviso di speranza, tanto nel rapporto uomo-donna, quanto nel rapporto genitori-figli.
Col venir meno della speranza, è franato tutto il resto: gli effetti sopra descritti non sono che la naturale conseguenza di quella ferita originaria, di quel trauma che appare, alla fine, in tutta la sua gravità, quanto più si era cercato di occultarlo, di camuffarlo e persino di ignorarlo, ottenendo il solo risultato di aggravarne a dismisura le ricadute negative.
Tutte le malattie agiscono in maniera tanto più devastante, quanto meno vengono diagnosticate per tempo; e così è stato anche per il venir meno di un orizzonte di speranza condivisa fra i membri della famiglia moderna.
Ma speranza in che cosa, verso che cosa?
Speranza, senza determinazioni: speranza e basta, intesa come intima, profonda persuasione che vi sarà un futuro; che le difficoltà potranno essere superate; che i disagi, gli smarrimenti, i mali presenti non dureranno per sempre, ma che alla fine verranno superati e risolti; che la pace e l’armonia trionferanno; che la serenità scenderà negli animi e renderà più leggero il peso della vita, più sopportabili i conflitti, più utili per la crescita di ciascuno, le cadute.
Quando tutto ciò viene meno; quando le giornate diventano una corsa affannosa in mezzo a mille ostacoli, dove le tensioni, le frustrazioni e il conflitto non rafforzano il senso di collaborazione, ma fanno emergere il lato individualistico e la tendenza egoistica insita in ogni essere umano, allora la convivenza all’interno di un nucleo familiare diventa sempre più simile al soggiorno coatto in una prigione, da cui si spera di evadere al più presto, magari lasciando solo macerie alle proprie spalle, tanto forti sono la rabbia e il rancore accumulati.
Certo, potremmo fare come tanti sociologi politicamente corretti e deprecare il cattivo uso dei beni di consumo, specialmente dei mezzi di trasporto privati e dei mass media: perché una famiglia ove ogni membro adulto possiede la propria automobile ed almeno un apparecchio televisivo “personale”,  è una famiglia dove il dialogo e la compagnia reciproca sono ridotti al minimo.
Potremmo anche prendercela con i ritmi di lavoro insostenibili, con la difficoltà materiale di incontrarsi e di parlare, con le troppe ore passate fuori casa dai genitori: tutte cose vere, ma sappiamo benissimo che il tempo veramente prezioso, nei rapporti fra uomo e donna e, ancor più, fra genitori e figli, non è quello quantitativo, oggettivamente sempre più limitato, ma quello qualitativo, che niente e nessuno ci potranno mai sottrarre.
E se noi non sappiamo realizzare relazioni significative all’interno del tempo qualitativo - dieci minuti alla sera coi bambini, a raccontar loro una fiaba; momenti anche veloci, ma intensi, di dialogo e di gesti affettuosi con il partner, che si trovano sempre, se c’è la volontà di trovarli, a dispetto di tutto e persino del turno lavorativo notturno: allora dovremmo avere la capacità di riconoscere che i fattori esterni sono, sì, importanti, ma non decisivi; e che non è onesto attribuir loro la responsabilità principale nella crisi della famiglia.
La crisi della famiglia è, certamente, una crisi di relazioni, indotta da un meccanismo economico e da un modello socioculturale che vanno nella direzione dell’esteriorità, del materialismo e dell’edonismo spicciolo; ma è anche, a monte, una crisi di persone, cioè una crisi di essere: la crisi del modo di essere proprio della modernità.
In questo senso, non si può comprendere nulla della crisi della famiglia, se non la si pone in relazione con la crisi dell’individuo moderno: con la crisi del suo senso complessivo dell’esistenza, del suo rapporto con se stesso e con il mondo, dei valori e delle priorità che rendono bella e desiderabile quella avventura che si chiama “famiglia” e che si costruisce giorno per giorno, vedendo in essa non già il luogo in cui le potenzialità individuali vengono mortificate e sacrificate, ma, al contrario, in cui vengono esaltate, proprio attraverso un rapporto dinamico e sempre rinegoziabile con le sacrosante esigenze dell’altro: della moglie, del marito, dei genitori, dei figli, dei nonni e dei nipoti.
L’orizzonte di speranza, senza il quale la famiglia non può sopravvivere, è quello che si crea attraverso il superamento delle difficoltà mediante l’impegno comune, lo sforzo comune, la maturazione comune; e che si realizza solo a condizione che ciascuno sia disposto a rinunciare a qualcosa del proprio punto di vista, del proprio utile, del proprio ego. E tutto ciò non si verifica se non vi è un esplicito patto di solidarietà, se non vi è una promessa, un impegno di portare avanti un progetto comune, nella buona come nella cattiva sorte.
Ecco perché le libere unioni non possono pretendere di essere equiparate alla famiglia: in esse non vi è la formalizzazione di questo impegno, di questo progetto, di questa volontà di durata. Al contrario, si reggono sull’associazione temporanea di due individualità che non vogliono rinunciare a nulla della propria “libertà”: dimenticando che la vera libertà è quella che si realizza attraverso il riconoscimento del limite, e non già in maniera assoluta.
Certo, questo è un discorso che non piace, oggi: tutti vogliono sentir parlare di diritti, mai di doveri; ciascuno vuole sentirsi “libero” di inseguire il sogno della propria affermazione, non con gli altri, ma indipendentemente dagli altri e, se occorre, anche contro gli altri. Gli altri vanno bene finché servono i nostri progetti; poi diventano un peso opprimente, una limitazione insopportabile, una prigione. «L’inferno sono gli altri», sentenziava il cattivo maestro Sartre. E noi siamo diventati tutti un po’ sartriani, di questi tempi; ci viene sempre più spontaneo vedere nell’altro un impedimento, un impaccio, un ostacolo, non certo una preziosa occasione di crescita, di maturazione, di approfondimento della nostra autentica umanità.
Il progetto da cui nasce la famiglia si basa su una scommessa: una scommessa sul futuro, una scommessa su se stessi, una scommessa sull’altro: sulla sua lealtà, sulla sua trasparenza, sulla sua affidabilità.
Una scommessa, per definizione, comporta la libera assunzione di una percentuale di rischio; e chi ha ancora voglia di rischiare, in un mondo come il nostro, fatto di diritti garantiti, anche se fasulli, e di feroce individualismo proprietario?
Perciò, non ci si venga a dire che la famiglia è in crisi perché il lavoro scarseggia, perché gli affitti delle case sono troppo alti, perché mancano gli asili nido. Tutte queste cose sono importanti ed è giustissimo pretendere che i nostri amministratori e i nostri uomini politici cerchino delle soluzioni; ma se anche il lavoro abbondasse, gli affitti venissero dimezzati e gli asili nido sorgessero come funghi, questo ancora non basterebbe per ridare vitalità alla famiglia.
Mancherebbe la cosa principale: la dimensione della speranza, il coraggio di credere nel domani.