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La sclerosi umanitaria

di Giacomo Gabellini - 27/02/2011


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Le rivolte popolari che tengono banco da un paio di mesi hanno riacceso i riflettori sulla questione nodale dei “diritti umani”. Secondo il parere di numerosi sacerdoti della singolare ma diffusa ideologia che ha assurto l'amore per una non precisata "umanità" a valore supremo e imprescindibile, gerontocrati come Muhammar Gheddafi, Hosni Mubarak e Zin El Abidin Ben Ali sarebbero stati scalzati dalla furia di cittadini asfissiati da drastiche misure coercitive irrispettose dei "fondamentali" diritti dell'individuo.

O quantomeno avrebbero meritato una fine simile proprio in ragione delle misure totalitarie con cui avevano soggiogato per decenni intere popolazioni. Si tratta di una concezione contraddittoria ma molto accattivante dei rapporti umani, che malgrado affondi le proprie radici nel più oltranzista individualismo finisce per assumere una connotazione universalistica, che si vuole valida "in tutti i luoghi e in tutti i tempi". In sostanza, si percepisce il valore supremo dell'individuo e lo si iscrive nel registro di una generica "umanità" fondata sull'uguaglianza non solo formale di tutti gli individui. Da un lato si proclama l'irripetibile "unicità" del singolo individuo e dall'altro si pretende di gettare l'intera somma di tali "unicità" all'interno di un unico calderone equiparante che ne sancirebbe l'eguaglianza. Il paradosso appare in tutta la sua evidenza, poiché predicando l'eguaglianza di tutti gli individui non si fa altro che negare la loro cosiddetta "unicità". La tara evidente di tutta questa impostazione "umanitaria", messa in luce a loro tempo tanto da Karl Marx quanto da Joseph De Maistre, è la sua evidente e sconclusionata astrattezza. A questo proposito, quando Fedor Dostoevskij (ne "L'idiota") scrisse che "Nell'amore astratto per l'umanità sovente si finisce per amare solo se stessi", non fece altro che riassumere, in un'unica affilata espressione, il limite estremo dell'ideologia dei “diritti umani”, che puntano al livellamento di tutti gli individui all'interno dell'"umanità" esimendosi dal prendere in considerazione il fatto che i diritti "concreti", effettivi, scaturiscono dal pieno riconoscimento delle differenze esistenti tra gli uomini. E tali diritti non sono né innati nell'uomo né precedenti ad esso, ma rispecchiano taluni valori e tradizioni maturate nel particolare contesto storico in cui si sviluppano. Il che rimanda in tutta evidenza al loro carattere meramente relativo, che li rende adattabili ad alcuni contesti e non ad altri. Ragionando in corretti termini schmittiani, è bene infatti sottolineare che non esiste un universo, ma un "pluriverso" politico, che impedisce di contenere tutti i popoli della terra in un unico raggruppamento di qualsivoglia natura. Lo stesso Carl Schmitt ebbe a scrivere che "Se i diversi popoli, religioni, classi e altri gruppi umani della terra fossero così uniti da rendere impossibile e impensabile una guerra fra di loro, se la stessa guerra civile, anche all'interno di un impero comprendente tutto il mondo, non venisse più presa in considerazione, per sempre, neppure quanto a semplice possibilità, se cadesse perfino la distinzione di amico e nemico, anche come pura eventualità, allora esisterebbe soltanto una concezione del mondo, una cultura, una civiltà, un'economia, una morale, un diritto, un arte, non contaminate dalla politica ma non vi sarebbe più né politica né Stato". In sintesi, l'instaurazione di un mondo spoliticizzato in cui non esiste nemico e in cui tutti i popoli del mondo cantano pacificamente all'unisono le lodi del "pensiero unico". Ciò non corrisponderà all'estinzione della guerra, ma condurrà ad una sua ulteriore muta di pelle, in cui, proseguendo con Carl Schmitt, "Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell'umanità, la sua non è una guerra dell'umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario, di un concetto universale per potersi identificare con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico". Inoltre il vago concetto di "umanità" si presta - come sottolineato, ancora una volta, da Carl Schmitt - ad essere fortemente strumentalizzato per finalità imperialiastiche, ipocritamente ribattezzate come "ingerenze umanitarie" di cui il Kosovo rappresenta una pietra miliare. Quanti sostengono in buona fede la legittimità di tale prassi, ignari del fatto che, come si suol dire, "le vie che conducono all'inferno sono lastricate di buone intenzioni", sono convinti che abbattendo quelle istituzioni politiche portatrici di scarse "credenziali umanitarie" si dia modo ai popoli di liberarsi rousseauvianamente dalle proprie catene e avviarsi inesorabilmente verso il luminoso cammino che conduce al raggiungimento dei traguardi raggiunti in epoche diverse nei paesi occidentali. I sepolcri imbiancati più furbi si servono invece di questa strampalata ideologia smentita ripetutamente dalla Storia per coprire con un velo etico legittimante la propria ingordigia imperialistica, mediante la quale tutelare i propri interessi particolari e personalissimi. Come si è visto in Kosovo, Afghanistan e Iraq, interventi di questo genere non fanno altro che peggiorare la situazione, e portare all'instaurazione di istituzioni politiche ed economiche ad uso e consumo degli squali che navigano nelle torbide acque dei mercati finanziari. Sul piano prettamente giuridico, legittimazioni simili hanno mandato in frantumi i capisaldi del diritto internazionale fissati nel 1648, in corrispondenza della Pace di Westfalia, che non contemplava affatto la possibilità da parte di uno Stato o di una coalizione di Stati di interferire negli affari di un altra nazione sovrana onde impedire preventivamente o interrompere sedicenti "violazioni dei diritti umani". Nella fattispecie, è accaduto che l'unica superpotenza rimasta dal crollo dell'Unione Sovietica, ovvero gli Stati Uniti, si è erta (con al seguito i servili paesi europei) quale rappresentante suprema di una non meglio specificata "comunità internazionale" per estendere il proprio modello economico, culturale, sociale, e tutelare i propri interessi approfittando di svariate, presunte "violazioni dei diritti umani". Malgrado la volontà di estendere un unico concetto di giustizia oltre i limiti dei singoli stati possa apparire seducente presso alcuni ambienti particolarmente scellerati, va ricordato che la giustizia non può in nessun caso sottomettere la politica, perché è da essa che discende, ed è dall'incontro fecondo di tradizioni e valori più o meno condivisi all'interno di una determinata comunità politica che scaturiscono i vincoli giuridici che rispecchiano le grandi linee di pensiero della comunità stessa. Da ciò si evince che una qualsivoglia giustizia globale è applicabile solo nel momento in cui svariate comunità politiche apparentemente eterogenee tra loro si ritrovino a riconoscere i medesimi principi. Ma ciò non è mai accaduto, ed è una vera e propria impostura (tanto a cuore ai vari Pannella e Bonino) affermare che tutti i popoli del mondo si rispecchino nell'Occidente, o quantomeno vi si rispecchierebbero, se solo i "tiranni" di turno li lasciassero liberi d'esprimersi. Ma non è necessario applicare la retorica dei "diritti umani" al contesto mondiale per evidenziarne le enormi zone d'ombra, poiché numerose aberrazioni si evincono anche dall'analisi della situazione vigente all'interno dell'Occidente stesso, tempio supremo dei "diritti umani". L'impronta irriducibilmente individualista su cui si basa l'ideologia "umanitaria" ha provocato al contempo una colossale ipertrofia di rivendicazioni che si richiamano alla "tutela dei diritti umani" e uno speculare logoramento del sistema sociale, con le parallele ripercussioni giudiziarie che la cosa comporta. In sostanza, spopola oggi una tendenza a sovrapporre la nozione di "diritto" a quella di "bisogno" che si ritrova a sua volta sovrapposta a quella di "interesse". Trasformando interessi in bisogni e bisogni in diritti, si finisce per reclamare sostanzialmente la "sacrosanta" tutela dei propri interessi spacciando questi ultimi per "diritti", e siccome giganti del passato come Thomas Hobbes hanno dimostrato la soverchiante preponderanza della conflittualità ("homo homini lupus") all'interno delle vicende umane, la società occidentale si è trovata "costretta" ad escogitare stratagemmi psicologici ad altissimo livello coercitivo (si pensi agli studi di Michel Foucault e Noam Chomsky al riguardo) onde mantenere sotto controllo la collettività ed arginare parzialmente le potenzialità distruttive che scaturiscono dalla concorrenzialità conflittuale tra gli individui. Ciò si è in parte tradotto con la crescita elefantiaca del potere giudiziario, che rispecchia la dilagante tendenza alla giuridicizzazione totale dei rapporti umani, considerata l'unica forza capace di governare il caos. L'enorme potere conferito ai (o acquisito dai?) giudici ha ridotto la politica allo spazio in cui i singoli individui accettano di delegare ai magistrati il compito di risolvere i loro interessi in contrasto, affidando conciò le mansioni che di norma spetterebbero al "politico" nelle mani dei giudici, rimettendole interamente alla "clemenza della corte". Con gli esiti che si conoscono.