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Cosa insegna la lotta dei Popoli arabi

di Osvaldo Pesce - 28/02/2011

Fonte: pennabiro.it

SUI FATTI DI LIBIA

Compito fondamentale dei mezzi di informazione è fornire notizie attendibili ed esprimere giudizi quando i fatti sono accertati, e questo in particolare nelle rivolte e guerre, quando sono in gioco la vita e i destini di intere popolazioni.
Diffidiamo profondamente di chi grida “al lupo, al lupo” tutto all’improvviso, come sta facendo certa stampa e tv e certa politica, prima con Ben Ali poi con Mubarak e adesso con Gheddafi.
La diversa storia e la diversa composizione sociale dei paesi arabi, la presenza maggiore o minore di risorse petrolifere, i diversi rapporti con altri paesi, possono portare a esiti politici diversi.
L’articolo che pubblichiamo di seguito, scritto quando la crisi in Libia era appena agli inizi, vuole essere un contributo alla chiarezza politica su quanto sta avvenendo in quell’area cruciale.
Riguardo alla Libia occorre guardare i fatti da un’ottica specifica: la struttura sociale è ancora legata alle tribù, lo stesso esercito è su base regionale e quindi dipende dalle tribù più che dal potere centrale e non ha lo stesso ruolo che altrove (in Egitto Nasser, Sadat e Mubarak venivano tutti dall’esercito) e neanche ha rapporti con potenze straniere. Gheddafi, che viene da una tribù minore della Sirte, è visto dalle altre tribù come un sopraffattore, e a sua volta si è costruito un corpo militare “africano”, ha armi e denaro.
In Cirenaica, dove si trovano i pozzi di petrolio libici, è radicata la confraternita religiosa dei Senussiti, il cui capo era Idris (re dal ’51 al ’69) e la cui bandiera sventola ora a Bengasi; nell’Egitto occidentale, presso al confine, ci sono senussiti e si sa di aspirazioni egiziane sulla Cirenaica.
In Libia il costo della vita è basso rispetto al reddito medio della popolazione, non c’è una emigrazione per povertà, le rivendicazioni non sono quindi per il pane o la benzina, ma contro la sopraffazione del potere centrale.
In Occidente si parla già di sanzioni che bloccherebbero il commercio mettendo in difficoltà economiche la Libia e si aspetta a farlo quando saranno evacuati europei e americani: decine di migliaia di lavoratori asiatici presenti là sarebbero persone di seconda categoria? L’evacuazione riguarda anche loro.
Si vuole indebolire la società libica e attuare un “intervento umanitario” per garantirsi il controllo delle risorse del paese. La Libia è un paese alle porte di casa nostra, con cui l’Italia ha importanti rapporti economici e politici da molto tempo e non certo solo da quando c’è l’attuale governo. E’ interesse del popolo italiano e di quello libico che la giusta esigenza di cambiamento che viene da questo e da altri paesi arabi non venga strumentalizzata per altri scopi, e che siano i popoli a decidere in completa autonomia, senza interventi militari ed ingerenze dall’esterno.



Gli eventi del Maghreb e in tutto il mondo arabo dimostrano in particolare che:
1.    i popoli hanno una forza imprevedibile, non va sottovalutata l’ampiezza dei movimenti e la capacità di programmare con largo anticipo le manifestazioni. Ciò è la conferma della loro potenza. Possiamo dire che il genio della piazza araba ha messo in scacco i piani di Washington, di Tel Aviv, di Londra ecc.
2.    la solidarietà tra i popoli ormai si manifesta dall’Egitto al Bahrein, da Gibuti alla Tunisia, Algeria ecc.
Tutto questo fa paura a Washington, perché vedono pericolo per i propri interessi, ma sono anche obbligati a non tradire davanti a tutto il mondo i loro “valori” di democrazia e a farlo senza creare imbarazzo agli altri regimi loro satelliti nella regione, come ad esempio i regnanti sauditi. I governanti di Israele hanno paura, ma non possono andare contro i piani statunitensi. I governanti europei hanno anch’essi paura, ma sono obbligati ad allinearsi ai voleri di Washington, perché non hanno una propria politica estera né una propria diplomazia. Ma le più spaventate sono le società transcontinentali private che manovrano la politica del WTO, del Fondo Monetario Internazionale ecc.
Lo shock degli eventi spaventa anche le opposizioni addomesticate, ad esempio in Egitto i Fratelli musulmani, perché la piazza è veramente democratica e non ricattata da principi che vengono filtrati dall’Occidente, tipo la “stabilità economica”ecc.
Tutti sappiamo che i paesi forti non portano stabilità economica ai paesi deboli. Gli “aiuti” USA all’Egitto ammontano annualmente a un miliardo e 300 milioni di $ per il mantenimento della macchina da guerra egiziana, più 300 milioni di $ per l’acquisto di grano ed altri prodotti alimentari per il mercato del Cairo, il resto (non precisabile) per la corruzione del regime di Mubarak. Questa politica non ha aiutato certo l’economia locale a crescere, vedi il 30% di disoccupazione su una popolazione per due terzi sotto i trent’anni. Semplicemente, l’industria bellica statunitense prospera e gli interessi USA sono protetti.
Per questo i governanti USA hanno tentato di gestire piazza Tahrir da Washington. Prima fase: dichiarazioni generali di evitare la violenza, mandare l’esercito per intimidire, ma se necessario usare la massima durezza e repressione; seconda fase: nominare il loro uomo a vicepresidente che fa opera di pulizia chirurgica, segreti militari, patti pericolosi e segreti bancari tutti salvi; penultima fase: spingere Mubarak nel fosso e prepararsi a infiltrare la protesta per controllarla (con la trattativa tra i vertici militari e la parte più debole dell’opposizione, come i Fratelli musulmani); ultima fase: aprire banche e uffici e creare sembianze di normalità.
Sicuramente siamo in una situazione diversa, con una realtà nuova, ma vale la pena ricordare che la strategia di Washington ricorda quella con il governo Badoglio e poi Bonomi (1944), cui partecipavano elementi dei ricostituiti partiti politici (PCI, PSI, DC, Pd’A) che con la svolta di Salerno accettavano di collaborare con la monarchia, rimandando alla fine del conflitto e alla liberazione le discussioni sull’assetto costituzionale, e ciò nonostante l’orientamento diverso del CLN.
Ma I fatti in Egitto si sono poi svolti diversamente, non in modo lineare ma con uno scontro all’interno di Washington, e con un colpo di coda finale di Mubarak.
Nei primi giorni della sollevazione popolare la Clinton è intervenuta a sostegno di Mubarak, con gli strumenti del Dipartimento di stato e utilizzando l’inviato speciale Frank Wisner, figlio di colui che organizzò il colpo di stato in Iran contro Mossadeq riportando al potere lo scià, che condusse un’azione militare nel 1954 – partendo dall’Honduras – contro il presidente del Guatemala Arbenz, progressista democraticamente eletto, e che nel 1956 voleva l’intervento di truppe USA a sostegno della rivolta ungherese ma fu fermato dal presidente Eisenhower che non voleva mettere in discussione gli accordi di Jalta. W isner figlio ha partecipato a una riunione di strateghi a Monaco il 1° febbraio (conferenza per la sicurezza con la presenza di Onu, Usa, Russia e Ue), in cui ha visto sgretolarsi la sua linea di appoggio a Mubarak fortemente contrastata dai presenti; ciò ha permesso a Obama di spingere per il cambiamento - col sostegno dell’estrema destra repubblicana - e di cercare di non perdere la faccia contraddicendo i bei discorsi fatti nel recente viaggio in Medio Oriente.
Mubarak aveva messo da parte il figlio - che controllava l’economia del paese (per l’influenza liberalista del Fondo Monetario tutto in Egitto è stato privatizzato) e aveva inviato dei picchiatori in piazza contro il popolo (la carica con cavalli e cammelli) - perché si rendeva conto che questo poteva solo peggiorare la situazione, e aveva nominato vicepresidente Omar Suleiman (uomo legato alla CIA), informando con un discorso pubblico che sarebbe rimasto in carica fino alle elezioni di settembre. Questo alla sera; la mattina dopo si è dimesso e se n’è andato a Sharm el Sheik. Cos’è avvenuto nella notte?
Mubarak, mortificato dall’insistenza di Obama a sgomberare, decide a questo punto di non passare - i poteri al vicepresidente ma ai capi delle cinque regioni militari del paese; Suleiman ormai giubilato dichiara che non si candiderà a presidente e quando il premier inglese David Cameron va in Egitto per capire la situazione l’incontro importante è con il capo di stato maggiore dell’esercito.
Nel frattempo i militari egiziani autorizzano il passaggio nel canale di Suez a due navi da guerra iraniane. E’ importante sapere, e nessuno ne parla, che queste navi avevano attraccato nel porto di Gedda, in quella stessa Arabia Saudita che secondo la documentazione di Wikileaks aveva chiesto agli USA di bombardare l’Iran.
La situazione nel Bahrein - isola posta di fronte alla penisola araba a ovest e all’Iran a est, nonché base della Quinta Flotta USA - coinvolge la stessa Arabia Saudita, la cui popolazione nella zona dei pozzi petroliferi è anch’essa di religione sciita. Oggi Washington si pone il problema di dove spostare la flotta perché il Bahrein non è più sicuro. Tutto ciò fa capire che qualcosa è cambiato in Medio Oriente nei rapporti con Washington.
La spinta popolare vuole comunque chiudere coi vecchi regimi, non a caso nella piazza egiziana c’è chi chiede che il vicepresidente se ne vada, e qualche ministro esponente della nomenclatura corrotta è già stato costretto a dimettersi. Anche dopo i primi successi la lotta popolare continua sia in Egitto sia in Tunisia, così come continuano ancor oggi i tentativi di reprimerla.
Guerre, cambiamenti di regime, ascesa al benessere o caduta nella povertà vengono dettati da chi detiene il potere a livello globale, che ora viene messo in scacco dall’iniziativa dei popoli nello scontro sociale, nella difesa delle proprie necessità e del futuro dei propri paesi.
La sollevazione popolare nei paesi arabi, con le parole d’ordine di pane, lavoro, democrazia, mette in risalto la profonda crisi del capitalismo, già stretto nella morsa di una crisi economica persistente. Ciò viene detto senza alcuna ironia, lontano dal pensare a cambiamenti immediati o a rivoluzioni proletarie, ma per comprendere il gigantesco fallimento della globalizzazione: nel mondo si sta sviluppando il multilateralismo, il domani non sarà più uguale a ieri.
La paura dell’Occidente (da Washington a Tel Aviv passando per Bruxelles), alimentata dalla crisi economica e dal fallimento della globalizzazione, può spingerlo ad azioni di forza. Si parla di navi da guerra e aerei pronti a dispiegarsi di fronte alle coste sud del Mediterraneo, ufficialmente per evacuare cittadini europei e bloccare l’esodo.
Le cronache giornalistiche, spesso manovrate, possono trasformarsi in cattiva informazione con la foglia di fico della “notizia non confermata”. Ricordiamoci il colpo di stato in Romania contro Ceausescu, contornato di stragi e morti inesistenti se non quella di Ceausescu stesso, oppure l’invasione dell’Iraq col pretesto dell’esistenza di armi di sterminio di massa, poi dimostratasi una montatura, o ancora il bombardamento di Belgrado, ecc.
Oggi ci risiamo? Obama, l’ONU, la UE - in particolare per i fatti libici - sventolano la parola “libertà”, in realtà interessa il petrolio. Chi agita tanto pervicacemente lo straccetto della “democrazia” potrebbe preparare un intervento diretto. Sgomberiamo subito il campo: ci opponiamo ad ogni avventura militare, ogni popolo deve risolvere da sé i suoi problemi, da parte europea è necessario costruire una politica estera comune per cambiare i rapporti politici ed economici con i paesi del Maghreb, dell’Africa, del Medio Oriente, rivolti finora solo a sfruttamento e prevaricazione.