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Trieste o Trst? La faziosità “soft” della nuova storiografia slovena sulla Venezia Giulia

di Francesco Lamendola - 02/03/2011





Il libro di Jože Pirjevec «Foibe. Una storia d’Italia» (Torino, Euinaudi, 2009), uscito un paio d’anni or sono, è interessante perché offre il punto di vista di uno storico sloveno contemporaneo sul dramma vissuto dalle popolazioni italiane della Venezia Giulia fra il settembre del 1943 e il periodo finale della seconda guerra mondiale - che, in quella regione, si è conclusa nel maggio inoltrato del 1945 (e non attorno al 25 aprile, come nel resto del Nord Italia); nonché nelle settimane e nei mesi successivi alla conclusione “ufficiale” del conflitto.
L’Autore è docente di Storia presso l’Università del Litorale di Koper/Capodistria e membro dell’Accademia Slovena delle Scienze  e delle Arti. Fra i suoi libri precedenti, si segnala in particolare «”Trieste è nostra!” Lotta degli Sloveni per il mare (1848-1954)», pubblicato a Lubiana dalla «Nova Revija» nel 2007. Ed è proprio su questo aspetto della sua impostazione storiografica, ossia la questione della italianità o meno di Trieste, che intendiamo fermare per ora la nostra attenzione, rimandando ad alta occasione di entrare nel merito della sua ricostruzione degli eventi che culminarono, fra il 1943 e il 1945, nell’infoibamento, da parte delle truppe partigiane jugoslave comandate dal maresciallo Tito, di migliaia di cittadini italiani, donne e bambini compresi, di null’altro rei se non della loro appartenenza etnica.
Questione di carattere minore, come si vede, rispetto a quella, ben più tragica e scottante, delle foibe; e, tuttavia, questione altamente significativa per comprendere come la cultura accademica, per non dire del sentimento popolare, nelle Repubbliche della ex Federazione jugoslava, si rapporti tuttora, a quasi sette decenni di distanza (un quarto di secolo!), con la questione delle minoranze che, nel 1945, non trovando posto nel quadro ideologico e nazionale voluto da Tito e dai suoi seguaci, furono votate all’espulsione o allo sterminio.
Pirjevec, dunque, insegna all’Università del Litorale, con sede a Koper; ma sia “Litorale” che “Koper” sono espressioni geografiche tutt’altro che neutre: indicano la geografia del vincitore, non quella della storia millenaria di quelle terre. Certo, la storia conosce ben altre violenze: la tedeschissima Königsberg, ad esempio, la città di Kant, divenuta la russa Kaliningrad, previa espulsione o massacro dei suoi abitanti; per non parlare del destino delle cittadine e dei borghi palestinesi, oltre che, in prospettiva, della stessa Gerusalemme, dopo che sono stati inglobati nello Stato d’Israele.
Questo non significa che si tratti di situazioni normali; di situazioni normali, vogliamo dire, dal punto di vista culturale, dato che nessuno, grazie al Cielo, pensa di poter ripristinare la situazione originaria di quei luoghi mediante impossibili atti di forza unilaterali. Tuttavia, una cosa è prendere atto delle violenze che la geografia ha inferto alla storia e segnalarle adeguatamente, mediante una terminologia rispettosa della verità; e altra cosa è passarle sotto silenzio: come avviene, per esempio, allorché il turista italiano, o anche d’altra nazionalità, si trova fra le mani delle guide turistiche che decantano la bellezza di “Pula” e ne ricostruiscono perfino il passato, senza mai accennare al fatto che questa bella città istriana, fino al 1947, era italianissima e si chiamava Pola; e che i suo abitanti furono costretti ad andarsene, spogliati di tutto, per le inique decisioni del Trattato di pace di Parigi.
Ma torniamo alla questione della italianità di Trieste.
Un capitolo del libro di Pirjevec si intitola, appunto, significativamente (p. 13) , «Trieste o Trst?», con un eloquente punto di domanda.
Lo storico sloveno non perde tempo a considerare le statistiche relative alla percentuale di popolazione italiana e slovena (non lo fa nemmeno per le altre città dell’Istria e della Dalmazia che, nel 1919 e nel 1947, vennero assegnate alla Jugoslavia, pur essendo a maggioranza italiana); si limita a sostenere  che è un mito la convinzione italiana che l’Austria abbia favorito, fra ‘800 e ‘900, l’immigrazione slovena in città per contrastare l’italianità di Trieste.
Oppure prendiamo l’esempio di quel che scrive Pirjevec a proposito della propaganda “nazionalista” italiana, come lui la chiama, volta a influenzare la decisione degli Alleati circa il destino finale della Venezia Giulia, fra il 1945 e il 1946 (strano argomento, visto che alla fine il trattato di Parigi assegnò quasi tutto il territorio alla Jugoslavia), e di come egli riesca a manipolare abilmente il senso delle parole del vescovo di Trieste, Antonio Santin, in una lettera a De Gasperi (p. 138):

«Come dice Paolo G. Parovel, le foibe diventarono prova primaria della validità dell’interpretazione nazionalista della storia e dei rapporti interetnici locali come uno scontro fra “latini” e portatori della civiltà e “barbari” sanguinari slavi. “Questa concezione salda e legittima  senza soluzione di continuità la tradizione irredentistica con il nazionalismo postfascista dei nuovi partiti “democratici”, trasversale a essi dalla destra alla sinistra moderata [e qui cita un lavoro INEDITO del Parovec].» Se ne fece autorevole interprete il vescovo di Trieste, monsignor Santin, che scriveva a De Gasperi:
“L’occupazione jugoslava di tutta la Venezia Giulia per quaranta giorni e lì’occupazione di tanta parte della regione ancor oggi, ha avuto un tale carattere di autentica barbarie, ha instaurato un tale regime di violenza, ha privato le popolazioni così brutalmente dei diritti più elementari, ha dato tali esempi di ferocia e tale prova d’incapacità di amministrare queste terre, che furono ridotte alla situazione di certe zone africane, che nessun uomo di cuore che stimi la civiltà, può aver animo di costringere delle popolazioni che non ne vogliono sapere, sotto tale insopportabile giogo”.»

Ora, qualcuno dovrebbe spiegare al professor Pirjevec che non è cosa seria,  in una pubblicazione storica, citare delle fonti inedite; che le virgolette usate dal Parovec per definire i partiti italiani “democratici” del dopoguerra, accomunati nell’accusa di antislavismo, ad accezione del Partito comunista - il quale, guarda caso, era favorevole alla cessione non solo di Zara, Fiume, Pola, Capodistria, ma anche di Trieste -, la dice lunga sul pregiudizio ideologico di quella fonte; e che nelle parole di monsignor Santin, integerrima figura di uomo di Dio e di uomo di profonda sensibilità civile, scritte, oltretutto, in una lettera privata, non si può rintracciare, pur con tutta la malafede del caso, alcuna traccia di disprezzo etnico verso gli Savi, ma, semmai, di profonda disistima, e da parte di chi ne aveva fatto l’esperienza diretta, del sistema politico allora rappresentato dalla Jugoslavia comunista del maresciallo Tito.
Oltre a ciò, il Pirjevec non esita a lanciarsi in un processo alle intenzioni e, a proposito dell’intervento italiano in guerra nel 1915, sostiene testualmente (p. 14):

«Quando, scoppiata la prima guerra mondiale, il governo di Roma  decise di associarsi nello sforzo bellico alle potenze dell’Intesa, lo fece non tanto per salvare i fratelli “irredenti” dal giogo austriaco, quanto per assicurarsi domini sui territori cui pensava di avere diritto quale erede dell’Impero di Giulio Cesare e su quello marinaro di Venezia».

A parte il fatto che l’esimio professore universitario dovrebbe sapere che i Romani conquistarono l’Istria non al tempo di Giulio Cesare, ma molto prima, nel 178-177 avanti Cristo, all’epoca del re istro Epulo; e, inoltre, che all’epoca di Giulio Cesare non esisteva ancora l’Impero Romano, ma una Repubblica; ci piacerebbe che egli avesse pure aggiunto che, nel 1915, nemmeno i più sfrenati nazionalisti serbi, quelli che portano la responsabilità di aver provocato lo scoppio del primo conflitto mondiale con le trame della “Mano Nera” e il delitto di Sarajevo, avrebbero mai sognato di poter creare un regno degli Slavi del Sud che arrivasse fino al Monte Nevoso e nei pressi di Tarvisio, come poi, invece, accadde nel 1919, grazie alla potente protezione che il presidente americano Wilson accordò, verso la fine del conflitto, ad alcuni fuoriusciti serbi e croati, suggestionato dalla loro abile propaganda (quella sì, abile, visti i risultati stupefacenti che ottenne; non, però, altrettanto fondata sulla realtà, considerata la duplice dissoluzione di quella costruzione artificiale: nel 1941-45 e nel 1991-95: ed, entrambe le volte, con una serie di guerre civili sanguinosissime e caratterizzate da atrocità senza pari).
Se proprio uno storico si sente chiamato a fare il processo alle intenzioni, allora sarebbe giusto che egli sapesse guardare anche la trave che si trova nell’occhio della sua parte politica, e non solo il bruscolo che è nell’occhio degli altri.
Ma la faziosità “soft” di Pirjevec, che simula un atteggiamento di imparzialità e di disponibilità al dialogo, non si limita al solo testo scritto.
L’apparato iconografico, per esempio: a dispetto del titolo dell’opera, «Foibe», delle 13 fotografie che corredano il volume, una sola mostra la riesumazione delle vittime delle foibe, e, per giunta, la parola “foibe” è messa tra virgolette. Tutte le altre fotografie documentano la presenza fascista e nazista nella Venezia Giulia e le atrocità commesse dai nazi-fascisti ai danni della popolazione e dei partigiani slavi; una paio di esse mostrano dei manifestini con i quali gli Italiani della Venezia Giulia chiedevano agli Alleati di non essere abbandonati alla mercé delle truppe di Tito (e la didascalia suggerisce che l’equiparazione delle fosse di Katyn alle foibe del Carso, fatta dagli estensori di quei documenti, non sarebbe legittima).
Certo, si tratta di fatti reali: nessuno storico serio nega, oggi, che non solo l’esercito germanico, ma anche quello italiano, prima dell’8 settembre 1943, si siano macchiati di crimini di guerra nel teatro di operazioni jugoslavo. Il punto non è questo, ma piuttosto: che cosa c’entrano quei fatti, con quelli cui dovrebbe essere dedicata l’opera in questione? Naturalmente, essi servono per chiarire una situazione complessiva; ma è corretto mostrare quelli più di questi, quasi a suggerire che, se anche le atrocità contro gli Italiani vi furono, altro non sono state che la logica reazione a quelle che gli Slavi, a loro volta, avevano subito durante la guerra?
Poi, il linguaggio.
Nel capitolo dedicato alla “corsa per Trieste”, l’Autore riporta (a p. 84) l’ordine operativo di Tito alla Quarta Armata jugoslava: “Bisogna avanzate anzitutto verso l’Istria e contemporaneamente su Trieste. Non curarsi dei fianchi”. Riportato così, senza commento, sembra un semplice documento strategico, oltretutto di sapore quasi napoleonico: puntare dritto al cuore dello schieramento nemico, trascurando gli obiettivi secondari.
Non si dice che quella strategia aveva una matrice politica piuttosto che militare: Tito voleva occupare Trieste perfino prima di Zagabria e di Lubiana, perché sapeva che, nella prospettiva della conferenza di pace, il possesso di un territorio esercita un peso decisivo sul suo destino futuro, anche se quest’ultimo sia ancora teoricamente impregiudicato.
Nessuno, al tavolo della pace, si sarebbe sognato di contestare l’appartenenza di Lubiana o di Zagabria allo Stato jugoslavo, monarchico o repubblicano che fosse; molti, invece, avrebbe trovato discutibile l’attribuzione ad esso di Trieste: ma, se la città giuliana fosse stata già nelle mani dell’esercito jugoslavo, le rivendicazioni di Tito (che arrivavano fino all’Isonzo ed oltre) avrebbero acquistato, automaticamente, molta più forza.
In breve, non si dice che la strategia militare di Tito e del Partito Comunista jugoslavo era ispirata, sotto la vernice di una ideologia marxista e stalinista, da una potentissima componente nazionalista; che nel nazionalismo Tito vedeva il collante per la ricostruzione del nuovo Stato jugoslavo, crollato come un castello di carte nell’aprile del 1941; e che, in una tale prospettiva, le componenti non slave del futuro Stato jugoslavo (italiane, tedesche, ungheresi, ecc.) avrebbero dovuto essere rese innocue, preferibilmente mediante una vera e propria “pulizia etnica”.
Quest’ultima sarebbe passata più facilmente inosservata, nel resto del mondo, se fosse stata avvalorata la versione appositamente predisposta da Tito e dai suoi collaboratori, quella cioè di nascondere la “pulizia etnica” dietro il pretesto della “guerra di liberazione” e della epurazione dei nazifascisti e dei collaborazionisti, in primo luogo gli ustascia croati.
Così, un’Europa ancora coperta di macerie fumanti ed una comunità internazionale moralmente sotto shock per gli immani disastri provocati da sei anni di conflitto e culminati nei funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki, avrebbe chiuso facilmente un occhio davanti ai “regolamenti di conti” che, all’interno della Jugoslavia, vedevano i “buoni”, cioè i vincitori, liquidare senza troppi complimenti i “cattivi”, cioè non solo quanti avevano combattuto per l’Asse, ma anche le inermi popolazioni che avevano la disgrazia di appartenere ad una minoranza etnica non slava.
Del resto, che la “forma mentis” dell’Autore sia naturalmente incline a scusare e giustificare una siffatta versione della storia, che ricorda quella, mostruosa dal punto di vista giuridico e morale, messa in opera dagli Alleati al processo di Norimberga contro i crimini della Germania nazista (ed assolvendo implicitamente i crimini degli Alleati e particolarmente dei Sovietici), lo si evince da tutto il suo modo di esprimersi.
Per lo storico, la scelta delle parole è molto più che una questione tecnica: è una questione di imparzialità ideologica.
Così, quando, per esempio, nello stesso capitolo, si dice (ibidem, p. 86) che il IX Corpus sloveno, alla fine di aprile del 1945, si accingeva a “liberare” Monfalcone e Gorizia, solo un lettore molto distratto o molto ignorante delle cose locali può prendere per buona una simile espressione, senza trasalire: Monfalcone e Gorizia erano città a maggioranza largamente italiana e la cosiddetta “liberazione” da parte dei partigiani sloveni, cioè la loro brutale occupazione, fu vissuta con terrore e disperazione da quegli infelici.
Per loro, dietro la retorica libertaria del linguaggio adoperato dal vincitore (che è, guarda caso, anche quello dello storico sloveno, più di sessant’anni dopo) si nascondevano violenze, imprigionamenti, processi sommari, deportazioni, ruberie d’ogni genere, morte per fucilazione o per infoibamento; o, nel migliore dei casi, una fuga alla disperata, senza poter portare via con sé nulla dei propri beni, senza alcuna speranza di ritorno, senza il conforto di una patria pronta ad accoglierli con umanità e solidarietà, visto che l’Italia del 1945 aveva già tante ferite da medicare e visto il ruolo vergognoso svolto dai militanti comunisti contro i profughi giuliani, presentati immancabilmente come “fascisti” e “nemici del popolo” (ma quale?).
Potremmo continuare per ore, dato che ogni pagina, ogni frase del libro di Pirjevec contiene una continua, sottile - e talvolta anche grossolana - mistificazione dei fatti, già a partire dal linguaggio e, come si è detto, dal (magro) apparato icnografico; ma crediamo che basti.
Chi ne abbia voglia, può andarsi a leggere il libro e verificare quanto andiamo dicendo: purché, si capisce, possieda un minimo di conoscenza di quella terra e di quegli eventi. Conoscenza che non molti, in Italia, hanno, almeno fuori di Trieste, Gorizia e del vicino Friuli, dato il gigantesco processo di rimozione collettiva, nonché di pura e semplice ignoranza e insensibilità, che caratterizza il rapporto della società italiana contemporanea verso la tragedia di quei suoi figli delle terre nord-orientali, vittime della sua colpevole indifferenza, oltre che della violenza della storia. Basti dire che non pochi turisti italiani, mentre si recano regolarmente a trascorrere le vacanze estive sulle spiagge dell’Istria e della Dalmazia, non sanno neppure che quelle località furono italiane per secoli, fino al drammatico esodo del 1945-47…
Non vogliamo, peraltro, sottrarci alla domanda che avevamo posta fin dall’inizio: se, cioè, Trieste debba essere considerata, storicamente, etnicamente, culturalmente, italiana o slovena; domanda estremamente rozza, ma posta dal nazionalismo sloveno e ripresa, come abbiamo visto, da storici accademici, quali il professor Pirjevec.
Ebbene: finché Trieste era parte di un grande organismo multinazionale, quale fu l’Impero austriaco prima, la Duplice monarchia austro-ungarica poi (dal 1867) e, soprattutto, quando essa era il principale porto ed emporio commerciale dell’alto Adriatico, “polmone” della economia di gran parte della Mitteleuropa, la sua natura cosmopolita poté trovare una dignitosa composizione che, pur fra spinte e tensioni etniche e sociali, le assicurò una posizione forse unica al mondo, di vivacissimo crogiolo culturale e di nodo vitale di una vasta area commerciale, quella danubiano-balcanica.
Ma, dopo che l’idea dello Stato dinastico fu definitivamente tramontata nella cultura e nella politica dell’Europa, con l’avvento dell’idea dello Stato nazionale, il destino di Trieste fu segnato, così come lo fu quello della stessa Austria-Ungheria: Trieste doveva entrare a far parte di uno Stato nazionale, anche se ciò avrebbe comportato, inevitabilmente, un ridimensionamento della sua economia e anche un certo restringimento dei suoi orizzonti culturali.
Ma, a quel punto, non vi è il minimo dubbio che l’unico Stato che avesse le carte in regola per rivendicare la sovranità su Trieste era quello italiano, dato che la grande maggioranza dei Triestini erano, e sono, di lingua, di cultura e di sentimenti italiani. Né allora, cioè nel 1919, né dopo, cioè nel 1945, Trieste avrebbe mai potuto venire ragionevolmente e legittimamente assegnata alla Jugoslavia, ovvero alla Slovenia che ne faceva parte. Se ciò fosse avvenuto, si sarebbe trattato di una intollerabile forzatura delle ragioni della storia, oltre che del principio di libera autodeterminazione dei popoli.
E questo è il nocciolo della questione, checché ne dicano gli storici “revisionisti” sloveni i quali, non paghi dell’annessione al loro Paese, e alla vicina Croazia, di terre e città squisitamente italiane, e italiane da secoli e secoli, continuano a rammaricarsi che anche Trieste e Gorizia non siano andate a far parte del bottino di guerra del vincitore: l’esercito partigiano comunista di Tito.
Cosa concludere da tutto ciò?
Che l’antico, aggressivo nazionalismo slavo cambia il pelo, ma non il vizio: basta confrontare le opere di uno storico jugoslavo dell’epoca di Tito, come Vladimir Dedijer, con quelle del Pirjevec, per rendersi conto che, prima sotto un regime nazionalcomunista, poi sotto un sistema democratico, il nazionalismo anti-italiano (e anche anti-tedesco: basti pensare all’assurdo tentativo di annessione della Carinzia, nel 1919) è sempre ugualmente virulento e ha sempre lo stesso scopo: giustificare ciò che è ingiustificabile, vale a dire l’annessione alla Jugoslavia di terre su cui vivevano, da sempre, non meno di 400.000 Italiani, la stragrande maggioranza dei quali dovette letteralmente fuggire dopo la seconda guerra mondiale.
Certo, nessuno li espulse. Se ne andarono da soli, visto quel che era successo a tanti di loro, nelle foibe del Carso e nei campi di concentramento dell’interno.
Se ne andarono in silenzio, dalla mattina alla sera, come a Pola: dove una intera cittadinanza si imbarcò sulle navi e lasciò aperte le porte delle case, come a dire ai nuovi padroni: «Ecco, entrate pure; prendete quel che volete, ormai è tutto vostro…».