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Orientarsi nell'Intifada araba

di Miguel Martinez - 03/03/2011

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Più notizie arrivano dal Medio Oriente, e più sono contento di non aver detto molto. In particolare sulla Libia, dove pare che siano già arrivati i consulenti militari statunitensi ed europei, pronti ad abbattere il governo che per loro conto ha torturato gli islamisti e tenuto gli affamati d’Africa lontani dalle nostre sponde. Non bastano molte notizie fresche e molte emozioni per capire eventi di questa portata. I fatti storici si capiscono, infatti, solo dopo parecchio tempo, quando diventano accessibili nuovi documenti e nuove testimonianze; e quando possiamo vedere dove hanno portato certi fattori che al momento quasi non si notavano.

Oggi sappiamo che la Prima guerra mondiale ci ha regalati il fascismo, il comunismo e il sionismo, e questo è di gran lunga l’aspetto più interessante.

Nel 1914, i blogger dell’epoca – scusandoci l’anacronismo – si accapigliavano invece per capire se la Serbia avesse davvero armato la mano dell’assassino di Sarajevo, o se l’ultimatum austriaco alla Serbia fosse troppo arrogante. O se fosse arrivato il momento perché l’Italia compisse il destino che un dio geografo aveva scritto sul Brennero per lei.

La storia non offre mai paralleli esatti; ma qualche aiuto, almeno, per orientarci, ci può venire dalla riflessione su due avvenimenti storici – Tangentopoli e la guerra del Vietnam. Sono accenni che avevo già fatto, ma conviene ritornarci.

Parlo di Tangentopoli, non solo perché è stata un’esperienza diretta per la maggior parte di noi; ma perché ci aiuta a ridimensionare un momento le nostre emozioni. Sappiamo tutti che c’è una differenza tra la polizia che in Tunisia sparava e le magagne dei gestori del Pio Albergo Trivulzio; o tra le confuse arringhe di Di Pietro e le folle che sfidano i carri armati. Però credo anche che ci siano significativi paralleli.

Tangentopoli è stato un rivolgimento sacrosanto, intanto. Duilio Poggiolini, per citare solo un nome, era veramente un ladro, e rubava ai malati. Non c’è giustificazione che tenga.

Però il moralismo, accompagnato dal fatto che i tribunali puniscono solo gli individui, può anche accecare: quando c’è un delinquente così evidente, è facile dimenticarsi che si tratta di un sistema intero.

E anche il rivolgimento contro Tangentopoli faceva parte di un nuovo sistema che si stava affermando, in cui gli imprenditori non sopportavano più la costosa mediazione dei politici; anzi, miravano direttamente al potere. Come abbiamo visto con Silvio Berlusconi, ma anche con le sempre più pressanti interferenze della Confindustria: partendo dai politici ladri, sono passati ad abolire del tutto la politica, nonché i sindacati e i diritti dei lavoratori. E l’esaltazione per le monetine (giustamente) lanciate contro Craxi rendeva questo processo del tutto invisibile all’epoca.

Tangentopoli non portò le masse in piazze; ma ci fu ugualmente un momento critico, come nelle grandi rivolte.

C’era un tempo in cui il 70% degli italiani osservavano con ammiccante compiacimento o rassegnazione il marciume generale. Ma nel giro di qualche giorno, quel 70% si è trasformato in una tele-folla indignata, che stracciava tessere di partito o si rifiutava di affittare casa ai quattro gatti di socialisti rimasti. Di Pietro, per un breve periodo, è stato trasformato in un eroe nazionale.

In un periodo brevissimo di tempo, milioni di italiani si sono resi conto che i partitocrati non erano più padroni del futuro. Esattamente ciò che succede in un panico finanziario, in cui la gente corre in banca per cambiare investimento.

Alla grande ondata di entusiasmo, si è contrapposta qualche voce isolata, liquidata come complottista. Le voci di questo tipo hanno in genere un pregio e un difetto. Il pregio è che l’avvocato del diavolo è un mestiere ingrato ma prezioso, che permette di cogliere ciò che le folle non vogliono vedere. Allo stesso tempo, i pochi critici disinteressati di Tangentopoli, nello smascherare i nuovi interessi in ballo, hanno trascurato l’ovvio. Cioè che le presunte vittime di Tangentopoli hanno meritato in pieno ciò che è successo loro.

Credo che i paralleli con l’intifada araba siano evidenti.

Fa molto comodo inveire contro i “ladri” o i “dittatori”. I Duilio Poggiolini e i Ben Ali esistono ovunque, ed esisteranno sempre. Ma ci vuole un certo tipo di sistema per farne ciò che sono stati, un sistema intimamente associato al quadro economico e politico mondiale.

Ci sono innumerevoli motivi concreti per ribellarsi a ingiustizie clamorose, che non hanno molto a che fare con astrazioni come la "diffusione dei valori democratici", di cui i fruttivendoli tunisini o gli spazzini egiziani giustamente se ne sbattono. E la rabbia (certo assai più modesta) di Tangentopoli si è nutrita soprattutto degli appalti persi perché non ci si poteva permettere una lauta mancia al politico di turno, dei posti universitari riservati ai cugini dei baroni e delle infinite altre vessazioni che ben conosciamo.

Ma ci vuole un momento storico perché tutto ciò scoppi; e quindi è fondamentale capire il ruolo delle privatizzazioni, delle strette bancarie, delle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale, che hanno messo in crisi il vecchio sistema.

Il momento critico, nel mondo arabo, è arrivato quando il governo tunisino ha esitato a continuare a sparare, dimostrando che il futuro non era più nelle sue mani. E’ stato questo l’attimo in cui le complicità sociali si sono spezzate, come da noi la prima volta che si è riusciti a portare a giudizio un piccolo politico delinquente, senza che il giudice subisse un incidente.

Tangentopoli ci mostra come un rivolgimento radicale, che ha eliminato in apparenza tutti i vecchi partiti e tutti i vecchi uomini politici, vada giudicato però soprattutto per come è andata a finire. Con il senno di poi, i veri cattivi non erano Mario Chiesa o Cusani, ma Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, Sergio Marchionne e Mario Draghi, per citare qualche nome.

Per ora, l’intifada araba si trova sospesa tra il parallelo comico di Tangentopoli e quello tragico della guerra del Vietnam, escissa dalla memoria storica del mondo dopo aver fatto alcuni milioni di morti.

La guerra del Vietnam ci insegna che anche i popoli più remoti, quando vivono la propria storia, devono fare i conti con le potenze imperiali, che oggi – a parte eccezioni locali – sono una sola: gli Stati Uniti.

James Petras spiega molto bene la natura assolutamente pragmatica del dominio statunitense, che poi è quella di qualunque azienda. Chi lavora nel mondo delle aziende sa infatti che l’imprenditore di successo non conosce né alleati né avversari permanenti, ma li cambia incessantemente, li gioca gli uni contro gli altri e li inganna tutti. Finché tutto va bene, si va fuori a cena insieme con il proprio fornitore, raccontando barzellette sconce; ma appena quello si trova nei guai, lo si impicca al contratto. Prendi sempre a calci chi stramazza a terra, soprattutto se è il tuo migliore amico.

Molti ingenui antimperialisti vorrebbero sempre vedere gli imperi alleati inossidabili di dittatori pazzi e di squadroni della morte. E’ un difetto stalinista duro a morire nella sinistra, disposta a rinunciare a tutto – a partire dall’idea di giustizia sociale – ma non al Nemico Cannibale.

Ma chi ha detto gli imperi siano idealisticamente votati a stare sempre con i più antipatici?

Infatti, un impero che facesse così fallirebbe subito. L’arte del dominio, come quella del commercio, consiste nel sapere approfittare di tutte le situazioni, e allearsi con chiunque. Gli Stati Uniti si sono alleati con Stalin durante la Seconda guerra mondiale e con sterminatori di comunisti subito dopo.

Hanno sostenuto la guerra contro i contadini cattolici in Messico negli anni Trenta – i cristero -, e si sono alleati con il Vaticano in gran parte del resto del mondo. Contro l’Iran, si sono alleati con la setta islamomarxista dei Mojahedin-e Khalq, mentre in Iraq hanno lavorato con gli iraniani contro gli insorti sunniti.

Il Vietnam è stato però il laboratorio di tutte le strategie di dominio, basato su una serie interminabile di sconvolgimenti, compiuti nel tentativo di impedire una rivoluzione.

Da una parte, il terrore aereo puro e semplice, per di più su un paese che non aveva mai lanciato nemmeno un sasso sul suolo statunitense. Uno dei crimini più terribili del ventesimo secolo, che gli Stati Uniti si sono felicemente autoperdonati, lamentandosi pure.

Il generale Curtis E. LeMay spiegava (minuti 2.27 a 3.19 di questo video) la logica dietro l’uso, da parte statunitense, di bombe equivalenti, per potenza esplosiva, a 640 degli ordigni nucleari lanciati su Hiroshima :

“Il sistema energetico che alimenta ogni struttura che fa la guerra, il sistema dei trasporti, le ferrovie, i treni, i depositi – eliminati. Ogni fabbrica e ogni installazione industriale, a cominciare dalla più grande e la migliore, senza smettere mai finché resteranno incollati insieme due mattoni. E se occorre, il sistema di irrigazione, da cui dipende in larga misura la produzione del cibo. Dobbiamo essere disposti a continuare a bombardare finché non avremo distrutto ogni opera dell’uomo nel Vietnam del Nord, se è questo che ci vuole per vincere la guerra”.

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Mentre le Nazioni Unite ordinano a Gheddafi di dimettersi e andare in esilio, Curtis LeMay sarebbe stato onorato con la Medaglia dell’Aeronautica statunitense con tre grappoli di foglie di quercia, la Croce di Distinzione in Volo, la Croce per il Servizio Distinto, la Medaglia al Servizio Distinto (due grappoli di foglie di quercia), la Legione d’Onore francese, la Stella d’Argento e il Primo Ordine al Merito del governo giapponese.

Tutti titoli certamente meritati: il suo infatti è un perfetto ragionamento imprenditoriale. In cui l’elemento importante non è la distruzione, un mezzo come un altro, ma la vittoria. E per ottenere la vittoria, gli Stati Uniti mobilitarono migliaia di giovani esperti di ogni sorta, economisti, agronomi, sociologi, antropologi, storici, dediti a trasformare il Vietnam in un’improbabile società sul modello statunitense.

Secondo i mutevoli orientamenti dei vari think tank che di volta in volta riuscivano a ottenere gli appalti, questo significava potenziare i buddhisti, armare oppure eliminare i cattolici; far appello alle minoranze etniche; basarsi sugli anziani dei villaggi, oppure distruggere i luoghi di culto per spezzare la società tradizionale che sosteneva la resistenza; deportare i contadini in massa dai villaggi; inventare un “ceto medio” mantenuto in vita con potenti iniezioni di dollari; sostenere colonnelli golpisti oppure minarli appoggiando “intellettuali liberali”; sterminare o convertire i comunisti. Anche usando tutti questi mezzi insieme.

Per sette sanguinosi anni, gli Stati Uniti hanno sostenuto il regime di Ngo Dinh Diem, un curioso misto di idealista e di incompetente nepotista, appoggiato dalla Chiesa cattolica statunitense. Gli Stati Uniti accettarono senza problemi i lager che aveva aperto in tutto il paese, i massacri e le esazioni del suo esercito nei villaggi, il suo appoggio ai latifondisti che provocava la guerriglia e il fatto che lui si fosse fatto eleggere con il 98,2% dei voti.

Ma alla fine il suo cattolicesimo aggressivo suscitò l’opposizione del clero buddhista. I media statunitensi passarono a demonizzarlo, cogliendo alcuni clamorosi suicidi pubblici di monaci.

I buddhisti diventarono così l’ennesima incarnazione mediatica di un popolo democratico nell’animo, vittima di malvagi tiranni e dedito all’opposizione non violenta. E ovviamente l’alternativa al totalitarismo comunista.

Con la solita velocità con cui gli Stati Uniti sanno cambiare cavallo in corsa, in un telegramma riservato, l’ambasciatore statunitense a Saigon dichiarò,

Siamo lanciati su una strada dalla quale non possiamo fare ritorno in modo rispettabile: l’abbattimento del governo di Diệm…non c’è modo di tornare indietro, poiché, dal mio punto di vista, è impossibile che la guerra venga vinta sotto un’amministrazione come quella di Diệm.”

Al posto della bandiera del Vaticano, che Ngo Dinh Diem faceva svettare in ogni occasione, gli Stati Uniti si misero a cercare la salvezza dal comunismo nelle comunità buddhiste; e con l’approvazione statunitense, Ngo Dinh Diem fu brutalmente assassinato, mentre i capi dell’esercito si lanciarono in una serie di colpi di stato.

I guai, per il Vietnam, erano appena cominciati.

Sono storie di cui pochi parlano volentieri. Gli Stati Uniti, perché il Vietnam è una tragedia che ha fatto soffrire tante famiglie americane. Le sinistre all’epoca, poi, non potevano provare simpatia per Ngo Dinh Diem, né potevano ammettere che gli americani avessero “abbattuto un tiranno”.

Resta solo qualche avvocato del diavolo, che per fortuna rievoca storie scomode; ma proprio perché si concentra nel suo ruolo, tende a dimenticare che quello di Ngo Dinh Diem fu davvero un pessimo governo, e che gli statunitensi non lo liquidarono mafiosamente per odio verso il cattolicesimo, ma semplicemente perché stavano scommettendo su altri. Gli imperi non fanno la guerra a nessuno, nemmeno ai comunisti o agli islamisti: fanno la guerra per se stessi.

Ce n’è di materiale, per capire…