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La via del bosco e l'epifania del bello tra natura e cultura

di Eduardo Zarelli - 03/03/2011

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Elemento fondamentale della questione ecologica è il brutto. La superficialità e l’utilitarismo dominanti vincolano le categorie estetiche all’uso individuale dello spazio, così che l’uniformità anonima segna la mancata soluzione tra condizione urbana ed extra urbana, tra cultura e natura. Le considerazioni politiche e storiche insistono legittimamente sulle contraddizioni socio-economiche e la corruzione che hanno fatto strame negli scorsi decenni della bellezza naturale e artistico-architettonica del nostro Paese, ma la questione della frattura tra la modernità e la natura sul piano simbolico del bello, è problema profondamente filosofico e, quindi, culturale. Lo smarrimento dei luoghi plurali della terra, a confronto con la crescente omologazione della tecnica planetaria, è argomento di riflessione comune a tutto il pensiero moderno della “crisi” che va da Nietzsche a Heidegger e Jünger, merito di Luisa Bonesio - docente di Estetica nell’Università di Pavia - di aver recuperato questi autori e di animare una corrente ermeneutica basata sull’identità filosofica del paesaggio. L’autrice – cui rimandiamo nell’estesa opera saggistica disponibile e al sito di riferimento - invita ad interrogarsi sulla possibilità di aprire, nella deterritorializzazione contemporanea, un discorso geosimbolico che, sintetizzando in una prospettiva inedita l’estetica, la geografia e la filosofia, pensi al paesaggio non come scorcio emotivo per l’individualismo apolide, ma come palcoscenico reale della identità culturale comunitaria, il luogo fisico e spirituale del nostro abitare sulla terra nell’epoca impervia e contraddittoria del nichilismo.
Abitare un luogo significava accordarsi al suo spirito e, questo, caratterizzava la fisiognomica delle comunità e delle civiltà fedeli alla propria originaria interpretazione del genius loci. Contrariamente alla razionalizzazione e alle sue estetiche anodine che hanno consumato la propria distanza dal mondo naturale, la valorizzazione tradizionale dell’elemento spaziale connesso alla terra, era il risultato armonico di gesti sobri, essenziali, in cui la bellezza coglie la vibratile tensione tra cultura e natura, ispiratrice della “forma”.
La modernità, per contro, si è mossa per progressiva deterritorializzazione. L’individuo emancipato dall’appartenenza e dalla sua identità simbolica, ha acquisito i tratti dell’universalità, imponendo la sua misura – all’oggi la ragione tecnoscientifica – su tutto il pianeta. La civiltà cessa come spazio, come topos, e diviene un tempo senza confini spaziali, smisurato, consacrato alle sue categorie: progresso e disincanto. La ricerca spasmodica del villaggio globale nasce dalla dissoluzione dell’idea di spazio, con il conseguente “spaesamento” descritto dai “non-luoghi” di Marc Augé. Da qui anche la capacità di omologazione, di uniformazione come sincronia, in altre parole come necessità di vivere tutti nello stesso tempo: l’innovazione fine a se stessa e il correlativo disprezzo (o sopravvalutazione, che è lo stesso) del passato.
La manifestazione visibile di questa globalizzazione è la devastazione dei paesaggi.
La gravità di questa considerazione è constatabile se intendiamo nel “paesaggio” la compresenza dell’aspetto geografico e quello estetico, la funzione e il senso, l’ecologico e il simbolico. Il paesaggio è il risultato visibile di un’alleanza di uomo e terra, derivante, a sua volta, da una simbolizzazione della collocazione dell’uomo nel cosmo. Questo spiega la diversità dei paesaggi e il motivo per cui un “bel” paesaggio si avvicina culturalmente il più possibile a un effetto di “naturalità”.
Con la civilizzazione tecnomorfa tutto ciò scompare, il “materiale” si disconnette dal “simbolico”, il geografico dall’estetico, la natura dalla cultura e, in ultima analisi, il soggetto dall’oggetto. L’unico metro di giudizio, apparentemente neutrale, rimane la calcolabilità del reale, la “relatività” tecnoscientifica. Ed è questa inesorabile frattura tra ragione e natura che ci trasporta nell’alienazione urbanistica e abitativa della “funzionalità”. Scompare l’armonia ed appare l’organizzazione razionale dello spazio: da un lato i luoghi sono degradati, negati nella loro ragion d’essere e misura, sotto l’azione indifferenziante dell’economicismo; dall’altro, essi sono calpestati del consumo estetico delle mode culturali, che sfogano svago, sport, salutismo, turismo mercificando ogni dove.
La funzionalità è a scapito della forma, la quantità (calcolabile) deprime la qualità (la differenza), che travalica ogni senso del limite e di individuazione.
Dove situare una possibile inversione di tendenza? Se come dice Mircea Eliade, «in qualsiasi posto c’è un Centro del mondo», è proprio dalla terra, dalla sua “limitatezza” che può auspicarsi una nuova consapevolezza. In altri termini, il paradigma della modernità è messo in crisi dalla questione ecologica, se inteso su un piano filosofico e contenutistico, più che scientifico e ambientale.
Dopo la scala degli spazi limitati delle società tradizionali e poi dei grandi spazi delle nazioni moderne tendenti, per sovrapposizione occidentale, alla globalizzazione, è la scala della terra, nella sua realtà geofisica, politica, ecologica e spirituale a emergere come termine di paragone critico alla uniformizzazione, l’”imbiancamento” di Jüngeriana memoria. La finitezza della terra, ossia la presa di coscienza che lo spazio e le risorse non sono illimitati, né sfruttabili indiscriminatamente, richiama alla necessità di orientare il pensiero e l’azione in nome di qualcosa che non sia un ennesimo ideologismo, che suona vuoto all’oggi come astratto moralismo. D’altra parte la terra è costituita da una complessa e differenziata molteplicità di aspetti e di luoghi singolari, in nessun modo riducibili ad un unico modello di interpretazione e gestione standardizzata.
In questa prospettiva, cessa l’opposizione fra le ragioni del paesaggio (la bellezza, la conservazione, la forma) e quelle della “realtà oggettiva”, che presuppongono la conoscenza delle leggi universali della natura e, dal pensiero della terra, si può ricominciare a pensare, in modo nuovo, la propria localizzazione: la comunità, l’identità e le possibilità della “bella forma”.
La terra, proprio perché una e finita, ha bisogno di tutte le sue differenze e complessità: imporre una sola misura vuol dire, letteralmente, cancellare lo spazio. Recuperare l’idea unitaria della terra, avvalora le sue irriducibili individualità in una superiore armonizzazione e profonda ragion d’essere.
Ma quale raffigurazione della natura è possibile nell’era del nichilismo?
L’autrice sollecita alcuni tra i pensatori della “crisi” per agevolare la comprensione dell’immagine contemporanea della natura. Partendo da Spengler e la sua indiscussa capacità di descrivere efficacemente, con l’allegoria faustiana, il sentimento occidentale di vorace smania dell’infinito che ne ha consentito e propiziato la scoperta scientifica e la progressiva sottomissione tecnica.  Quel destino prometeico che spinge l’uomo contemporaneo a diventare cosmopolita in una vera ansia di varcare continuamente nuovi confini, ottenendo quell’illusione ottica che sposa l’emancipazione individuale all’estrema solitudine e spaesamento nel dispiegarsi dell’assoggettamento tecnico della natura.
Ma è la stessa estensione all’intero pianeta della civilizzazione occidentale a rendere possibile la percezione dell’abisso dove sprofonda la natura. Quest’ultima, con la lettura di Jünger, perde una caratteristica distinta diventando tutt’uno con la terra, ossia quell’ indistinguibile insieme di “naturale” e “tecnico” che forma il paesaggio contemporaneo del pianeta, lo omologa in una stessa sostanziale uniformità, ne cancella le peculiarità, le singolarità, ogni differenza qualitativa. Ancora più in profondità, lo scenario tecnomorfo rimanda alla fossilizzazione del vivente e a quella condizione di pericolo assoluto che consiste nell’alterazione prebiologica degli equilibri naturali, tali da poter provocare ripercussioni addirittura nell’ordine cosmico, analogamente a quel che potrebbe accadere a causa della manipolazione sempre più pervasiva degli strati elementari.
In questo contesto, ripetutamente Heidegger richiamerà alla necessità di ri-tornare allo “stupore” di fronte alla terra e alla natura, prima di smarrire definitivamente un orientamento del nostro dimorare in loro, analogamente all’appello nietzschiano per un «sentire cosmico», di contro allo smisurato, al quantitativo dell’infinità del progresso. È il richiamo ad una consapevolezza della natura su di un piano cosmocentrico, quel «pensare come una montagna» usato da Aldo Leopold, padre – insieme ad Arne Naess - dell’ecologia profonda, che sintetizza efficacemente la traduzione di questo pensiero in chiave ecologista. Per ritrovare la natura è necessario che essa riassuma la sua oggettività simbolica: un’operazione opposta all’assimilazione emotiva antropocentrica che i più attuano, eredi inconsapevoli dell’estetizzazione moderna. L’uomo, riconsegnato ontologicamente ad “essere” solo «cosa tra cose», può ri-conoscere il “senso del limite” della terra, la “legge” della natura e, di rimando, quella cosmica.
Ma chi può recepire in profondità il richiamo simbolico della natura?
Bisogna jüngerianamente “tornare al bosco”, darsi alla macchia, cercare la selvaticità, la Wildnis, per riscoprire le proprie radici profonde. L’idea del bosco è quella di una dimensione spirituale altra rispetto al nichilismo, il cui emblema, da Nietzsche in poi, è il deserto. Riferimenti simbolici, in quanto solo interiormente è possibile “vedere”, nella loro specificità, i caratteri reali di un paesaggio geografico. Il “bosco”, la “selva”, sono immagini del primordiale, dell’incontaminato dalla civiltà, fuori e dentro di noi. È il viatico impervio per percepire l’essenza atemporale del cosmo. Sapere dunque non “primitivo” ma primordiale o archetipico.
Il “bosco” è il nome dell’essere in contrapposizione all’apparenza e del movimento effimero, è il luogo delle immagini e dei poteri da cui il mondo trae vita, in contrapposizione con la sterilità crescente del deserto.
È il tentativo di reincantare l’esistente che può spingergi nel “bosco”, spazio interiore che dischiude tutti i luoghi in quanto irripetibili e significativi. Cercare quel «centro del mondo» dove entrare in rapporto con il “tutto” e sganciarsi come parte del meccanismo.