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Galilei, un pessimo logico, mosso dal piacere maligno di demolire e deridere il sapere altrui

di Francesco Lamendola - 07/03/2011

 

Gli uomini grandi sono sempre coloro i quali affermano un’idea, si spendono per essa, affrontano qualunque sacrificio per sostenerla e per diffonderla, ma senza lo zelo fanatico e intollerante di chi si ritiene l’unico depositario della verità.
Gli uomini piccoli sono coloro i quali, dietro il paravento di un’idea da difendere e da diffondere (quasi sempre, un’idea che non è nata in loro, ma che hanno trovata già bella e pronta), sfogano il loro rancore, la loro ambizione meschina, la loro volontà iconoclasta, distruggendo le idee altrui, mettendole in ridicolo, esibendosi narcisisticamente negli autodafé intellettuali.
Galileo Galilei non è stato un grande, ma un piccolo: come uomo e come uomo di pensiero.
Su molte cose si è sbagliato, dalla natura delle comete alla descrizione della superficie lunare, senza mai avere l’umiltà di ammettere l’errore o di ammettere anche solo la possibilità di un proprio errore.
Sull’idea centrale per la quale oggi viene presentato, dal Pensiero Unico scientista, come l’apostolo della scienza moderna, vale a dire l’ipotesi eliocentrica, non ha detto assolutamente nulla di nuovo: ha preso le idee di Copernico e le ha portate avanti come un carro armato, senza prove ma anche senza ombra di umiltà, anzi, deridendo l’opinione degli astronomi (ed erano ancora la maggioranza, checché ne dica la vulgata anticattolica) che seguivano ancora il modello tolemaico: il personaggio di Simplicio, a questo proposito (e il nome è tutto un programma), nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo», testimonia in maniera fin troppo eloquente il suo disprezzo per gli oppositori del copernicanesimo.
E non si dimentichi che Galilei, nel delineare la figura di Simplicio e nello scegliere gli argomenti svolti da quest’ultimo, ha fatto una palese caricatura del papa Urbano VIII: non solo venendo meno al solenne impegno di non più insegnare come una verità l’ipotesi eliocentrica (impegno solo formalmente rispettato con l’adozione della forma dialogica, ma nella sostanza interamente disatteso), ma lanciando una sfida aggressiva ai più alti livelli della cultura e delle istituzioni del suo tempo.
Dopo di che, se si vuol continuare a vedere in lui la “povera” vittima innocente di una Chiesa oscurantista e dominata da una bieca ragion di Stato, ignorando, oltretutto, che Galilei non addusse le prove dell’eliocentrismo e che non ebbe il sostegno della maggioranza degli scienziati del suo tempo, a cominciare da astronomi del peso e della autorevolezza del danese Tycho Brahe, si faccia pure; ma chiunque abbia un briciolo di onestà intellettuale vede benissimo che le cose stanno altrimenti.
Galilei non sapeva pensare “per” qualcosa (l’ipotesi eliocentrica non era sua), ma solo “contro” qualcosa o qualcuno: era uno spirito di contraddizione, malignamente bramoso di cogliere in fallo i suoi colleghi scienziati e di mostrare quanto ridicole e puerili fossero le loro certezze.
Oltre a ciò, non possedeva nemmeno la più elementare struttura logica del pensiero, per cui è semplicemente assurdo presentarlo, come tutt’ora si fa e non solo nei testi scolastici di fisica e scienze naturali, ma anche in quelli di filosofia, nelle vesti di “grande pensatore”.
La prova di ciò sta nel suo modo di argomentare a proposito delle fasi di Venere e della “prova” dell’ipotesi eliocentrica: anche uno studente di filosofia alle primissime armi avrebbe evitato di cadere nell’errore clamoroso in cui egli cadde, trascinato, crediamo, non dalla scarsa capacità di discernimento, ma dalla foga maligna di azzannare, lacerare, stritolare l’ipotesi geocentrica e dalla smania incontenibile di apparire come la più grande mente del suo tempo.
In pratica, egli è incorso nel classico errore di logica evidenziato dagli esperimenti con le quattro carte ideati dallo psicologo P. C. Wason e facilmente reperibili su qualunque testo di psicologia della percezione, del linguaggio e del pensiero.
Ma cediamo la parola a Gaetano Kanizsa, Paolo Legrenzi e Maria Sonnino, autori del volume «Percezione, linguaggio, pensiero»; non senza rilevare l’estrema cautela con cui essi formulano l’ipotesi che Galilei (che essi chiamano “Galileo”, mostrando l‘abituale sudditanza culturale verso la vulgata scientista oggi dominante), nella sua astiosa polemica contro il modello tolemaico, abbia commesso un plateale errore di logica (Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 333-36):

«Oggi sappiamo che non si può descrivere il nostro pensiero se non tenendo conto di “cosa”  e di “come” si pensa. L’esempio più clamoroso è proprio costituito alla scoperta delle condizioni per cui un’operazione come la falsificazione [ossia la dimostrazione che una teoria è falsa] - ritenuta difficile e complessa al punto che comunemente si pensa sia un prodotto  più della tradizione scientifica che dell’argomentare quotidiano - può diventare semplicissima. Diviene infatti una strategia  più che naturale qualora si induca, ad esempio, un atteggiamento  da “caccia al trasgressore”.  Tra l’altro oggi alcuni storici della scienza mettono in dubbio che l’unica motivazione della crescita del sapere sia proprio l’asettica ricerca della verità. […]
Sembra che persino rinomati studiosi, celebri proprio per essere riusciti a mettere in dubbio o a far vacillare teorie in precedenza condivise dalla comunità scientifica, abbiano provato non soltanto la soddisfazione derivante dalla consapevolezza che questo passo era necessario per il procedere della scienza, ma anche il meno nobile compiacimento ch deriva dalla confutazione, in parole povere dal dimostrare che un collega ha torto.
Voglio ricordare, questo proposito, un recente lavoro di uno storico della scienza ed astronomo di Harward, Owen Gingerich [“L’affare Galileo, in “Le Scienze”, ottobre 1982], il quale affaccia l’ipotesi che lo stesso Galileo, padre della scienza e della razionalità moderna, travolto dalla polemica “abbia commesso uno svarione elementare di logica, che lo stesso Keplero non mancò di rilevare. Secondo Gingerich il ragionamento di Galileo circa il rapporto tra il sistema dei pianeti e le fasi di Venere aveva questa forma:

A: se il sistema planetario è eliocentrico, Venere presenterà le fasi.
B: Venere presenta le fasi.
C: perciò il sistema planetario è eliocentrico.

È evidente che la conclusine C non deriva necessariamente  da A e da B. Infatti la struttura generale di questa presunta dimostrazione sillogistica è la seguente:

A. Se p (eliocentrismo del sistema), allora q (fasi di Venere).
B. q (fasi di Venere).
C. quindi p (eliocentrismo del sistema).

Non so se il testo di Galileo vada interpretato in modo tale da attribuirgli  una fallacia così grossolana nel ragionamento sillogistico (a questo proposito la questione è aperta: cfr. M. A. Finocchiaro, “Galileo and the Art of Reasoning, ”Dordrecht, Reisel, 1980]). È però interessante rilevare che questo tipo di errore è proprio quello che compiono più spesso i soggetti di Wason quando, posti di fronte alle quattro carte […], devono controllare la regola: “Se una carta ha una vocale su di un lato (p), allora ha un numero pari sull’altro lato (q). Infatti non solo […] non viene fatta la corretta scelta  di non-q (la carta che presenta un numero dispari), ma viene spesso indicata come carta da voltare q (quella con il numero pari). L’errore è analogo alla presunta fallacia di Galileo:  ritenere che - data la regola o l’ipotesi “se p allora q” - dalla presenza di q derivi necessariamente la presenza di p (se, per assurdo, tale deduzione fosse corretta, anche la scelta del numero pari (q) si giustificherebbe: infatti se dietro il numero pari ci fosse stata una vocale  la regola risulterebbe verificata, mentre se dietro ci fosse stata una consonante la regola risulterebbe falsa). Allo stesso modo la presenza delle fasi d venere potrebbe dimostrare l’eliocentrismo  del sistema planetario: se così non fosse sarebbe falsa proprio l’ipotesi A.
Il ragionamento corretto è in realtà quello che constata la presenza di p  (“sistema eliocentrico”: in Galileo; “vocale”: in Wason) e da questa presenza deriva necessariamente q  (“fasi di Venere” oppure “numero pari”): se invece è dispari la regola si rivela  infatti inevitabilmente falsa). Ecco dunque quella che avrebbe dovuto essere la forma corretta della dimostrazione di Galileo:

A.    Se il sistema planetario è eliocentrico, Venere presenterà le fasi.
B.    Il sistema planetario è eliocentrico.
C.    Perciò Venere presenta le fasi.

Questa dimostrazione è logicamente impeccabile, ma sul piano della polemica scientifica ha il difetto di essere molto meno utile a Galileo, almeno nella prospettiva di confutare gli altri. Come rileva [il testo ha “rivela”, ma crediamo si tratti di un refuso] Gingerich in tal caso l’ipotesi eliocentrica  non era l’unica spiegazione possibile per le fasi di Venere: in effetti Anche il sistema di Tycho Brahe le prevedeva: (cfr. O. Gingerich, “The Censorship of Copernicus Re Revolutionibus,”, in “Annali dell’Istituto del Museo di Storia della Scienza”, 1981, 4, n. 2).
Pur sospendendo il giudizio sull’interpretazione logica dei testi galileiani, va detto che questa vicenda p esemplare: un grande scienziato, Galileo, pur di respingere una teoria (il sistema tolemaico), compie lo stesso errore d ragionamento in cui incorre l’uomo della strada  quando deve controllare regole sconosciute. Sembra quasi un paradosso: Galileo, come scienziato, vuole contestare il sistema tolemaico, ma, per raggiungere questo fine, è “costretto”  ad un errore logico che è analogo a quello che Popper imputa ad Adler […] e che compiono i soggetti quando adottano impropriamente  una strategia verificante.»

Ricapitolando.
Galilei voleva affermare la verità dell’ipotesi copernicana, ma non aveva le prove; allora imboccò la “scorciatoia” logica di cui sopra, cadendo in un errore di ragionamento talmente marchiano, che perfino gli epistemologi che l’hanno rilevato esitano a trarne tutte le conclusioni, vale a dire o l’inettitudine di Galilei al pensiero filosofico, o la sua assoluta malafede.
In Galilei si nota lo stesso furore polemico e distruttivo che è presente in tanti illuministi, sul tipo di Voltaire: si ha la netta impressione che costoro siano, in realtà, molto più presi dalla brama di distruggere l’avversario, di ridicolizzarlo, di cancellarne, se possibile, perfino il ricordo, che non dal sincero desiderio di stabilire una nuova verità.
Solo così si può comprendere come Voltaire giunga a manipolare le idee di Leibniz, pur di confutarle; e come Galilei arrivi ad inciampare in un errore di logica che non commetterebbe nemmeno l’ultimo studentello, pur di spazzar via il sistema tolemaico e, con esso, tutti i suoi colleghi che si ostinano a sostenerlo, Tycho Brahe compreso.
Quanta miseria umana e scientifica in tutto questo.
Eppure, si tratta di un caso tutt’altro che isolato; si può anzi dire che tutto il percorso della scienza, e specialmente della scienza moderna, appunto quella post-copernicana e post-galileiana, ne sia letteralmente intessuto.
Non crediamo che ciò si possa attribuire al caso.
Vi è, alle origini della scienza moderna, un immenso peccato di orgoglio e di presunzione, una sconfinata “hybris” del pensiero, che la portano a scagliarsi contro la scienza pre-moderna, caratterizzata dal senso del limite e dal senso del mistero, con la stessa cieca violenza che mostrerebbe un toro infuriato davanti a un drappo rosso che gli venga agitato davanti.
E noi siamo figli di quell’orgoglio, di quella “hybris”; la maggior parte degli scienziati moderni sono galileiani in questo significato più profondo della parola.
La cultura moderna non è una cultura “per” qualcosa, ma “contro” qualcosa: sterile e distruttiva...