Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il futuro dell’euro passa per Berlino

Il futuro dell’euro passa per Berlino

di Paolo Guerrieri - 08/03/2011


     
Il futuro dell’euro passa per Berlino


In una serie di vertici di qui a fine marzo verrà ridisegnato l’intero assetto della governance economica dell’Europa. Le decisioni che vi verranno prese serviranno a fronteggiare i problemi di fondo che hanno determinato in quest’ultimo anno la grave crisi dell’euro. Una situazione di crisi che non è affatto finita. Il pacchetto di misure che verrà approvato dovrà servire a rassicurare i mercati che restano in guardinga attesa. I risultati del negoziato saranno comunque fortemente condizionati dalle vicende politiche interne dei maggiori paesi, in primo luogo della Germania.

Patto di convergenza
L’appuntamento chiave per decidere il nuovo assetto del governo dell’economia della zona euro e dell’intera Ue è fissato per la fine di marzo (24 e 25). Ci si arriverà gradualmente con una serie di passaggi successivi che dovranno definire i contenuti dell’accordo Ue.

Un negoziato che ruoterà attorno alle proposte di riforma del patto di stabilità, corredato delle nuove regole del Fondo europeo di stabilizzazione alle quali si è aggiunta più di recente la proposta di un ‘Patto per la competitività elaborato da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy e in via di riformulazione per iniziativa congiunta della Commissione e del Consiglio europeo.

La proposta franco-tedesca contiene un insieme eterogeneo di misure incentrate su salari, pensioni e fisco, tra cui: l’eliminazione di clausole automatiche di indicizzazione dei salari all’inflazione (fieramente avversata dal Belgio e dalla Spagna); l’aumento dell’età di pensionamento (assai poco gradita all’Austria); lo sviluppo di una base fiscale comune per le imprese (che vede l’Irlanda fortemente contraria); emendamenti alle Costituzioni nazionali per trasformare in legge l’azzeramento dei deficit pubblici (come già fatto dalla Germania); il tutto corredato di sanzioni per i paesi che non si adegueranno a questi vincoli.

Sono misure di natura e finalità assai diverse, alcune da tempo al centro del dibattito europeo e che hanno lo scopo, più o meno dichiarato, di imporre una svolta in chiave rigorista alle politiche economiche, finanziarie, sociali e di bilancio dei paesi dell’eurozona e in particolare dei paesi periferici più in difficoltà. In contropartita la Germania ha lasciato intendere di essere pronta ad impegnarsi nel potenziamento del Fondo salva stati: sia del Fondo attuale (Efsf), sia di quello permanente (Esm) che lo sostituirà nel 2013, in termini sia di risorse che di modalità operative.

Metodo intergovernativo
Oltre a imporre una serie di obiettivi e vincoli comuni alle politiche dei paesi membri su materie di stretta competenza nazionale, il patto di convergenza punta sul modello intergovernativo di pressioni reciproche per la sua applicazione. Perché a differenza di quello comunitario sarebbe in grado di garantire – a detta della Merkel e Sarkozy – tempi certi e procedure efficaci. Si tratterebbe dunque di arrivare a una sorta di cooperazione rafforzata estesa innanzi tutto all’eurozona, ma con la possibilità di adesione anche da parte di altri paesi membri dell’Unione.

Si possono nutrire forti dubbi in realtà sull’efficacia del metodo intergovernativo alla luce delle esperienze tutt’altro che brillanti del passato. Prima fra tutte quella della strategia di Lisbona per la crescita, rivelatasi in questi anni del tutto inadeguata a ristrutturare e modificare i modelli economici diversi dei vari paesi europei.

Più interessante a questo riguardo si presenta la proposta di mediazione – con riferimento al patto franco-tedesco – elaborata di recente da Manuel Barroso e Herman Van Rompuy, che mira ad ampliare significativamente il ruolo della Commissione e del metodo comunitario nella gestione e coordinamento delle misure che i singoli paesi membri dovranno adottare per una maggiore convergenza e competitività. Anche questa proposta verrà discussa nelle prossime settimane.

Se non vi sono dubbi sulla grande rilevanza che avrebbe per l’Europa l’approvazione di un pacchetto di misure in grado di stimolare una maggiore coordinazione e un più stretto allineamento tra i paesi membri in settori vitali dell’economia, la domanda da porsi è se tali decisioni potranno servire anche a risolvere la crisi dell’euro tuttora in corso, creando le condizioni per mettere al riparo l’eurozona dal rischio di implosione profilatosi in questi ultimi mesi.

I nodi essenziali da affrontare e sciogliere sono soprattutto tre: far uscire dalla crisi i paesi ‘periferici’; costruire un efficace meccanismo permanente di gestione delle crisi; fronteggiare il dissesto di molti sistemi bancari europei.

Paesi periferici
La crisi dell’euro nasce – com’è noto – da un complesso di fattori che si possono riassumere nell’interazione perversa in un certo numero di paesi tra l’enorme crescita del debito privato e pubblico, da un lato, e l’accumularsi di squilibri competitivi sempre meno sostenibili, dall’altro. Il fatto che questi paesi facessero parte di una unione monetaria ha conferito alla crisi caratteri sistemici, che richiedono risposte in grado di rafforzare l’intero sistema, e non solo le misure di intervento caso per caso varate finora – e sempre con notevole ritardo – dall’Europa.

Tutti i paesi periferici in difficoltà, quali la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna, hanno adottato, sotto la spinta degli ispettori dell’Ue e del Fondo monetario internazionale, politiche e misure di risanamento assai severe. Sia di consolidamento fiscale finalizzate a riportare le finanze pubbliche sotto controllo, sia di riforme strutturali atte a ridare slancio al potenziale di crescita.

Alcuni primi risultati positivi si cominciano a vedere e la nuova disciplina prospettata dal patto di stabilità e da quello per la convergenza servirà certamente a rafforzare tali processi di aggiustamento.

Se i piani di risanamento nazionali, per quanto dolorosi, rappresentano strumenti indispensabili in molti paesi per affrontare le crisi del debito sovrano, è anche vero che va messa a disposizione di questi stessi paesi tutta la liquidità necessaria perché il processo di ripianamento del debito non venga impedito e alla fine soffocato da processi deflazionistici.

Il problema è che i fondi di intervento oggi a disposizione per fornire assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà (Efsf) sono insufficienti in termini di quantità di risorse e troppo costosi. Per aumentare le possibilità di successo delle risposte nazionali tali fondi andrebbero dunque rafforzati significativamente e resi più convenienti, come d’altra parte chiedono da tempo i mercati.

Meccanismo di stabilizzazione
A questo riguardo è comunque importante l’impegno, sottolineato nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo e da Angela Merkel alla presentazione del Patto franco-tedesco, di aumentare le risorse a disposizione dell’Efsf, oggi di fatto molto al di sotto dei 440 miliardi di euro disponibili sulla carta.

Più difficile che il fondo salva stati sia autorizzato ad acquistare – come richiesto da molti – i titoli dei paesi in difficoltà sul mercato secondario. In questo caso una decisione positiva è tutt’altro che scontata, vista la forte resistenza dei paesi più forti, con in testa la Germania, che temono soprattutto ripercussioni negative in termini elettorali e di politica interna. Il che lascia prevedere che la Banca centrale europea continuerà ad acquistare titoli di stato in tutte le situazioni in cui i mercati non siano disposti a fornire le risorse liquide richieste.

Oltre alle modifiche dell’Efsf, l’altro tema chiave del negoziato europeo riguarda la creazione del suo successore nel 2013, il cosiddetto Meccanismo europeo di stabilizzazione (Esm). Circa il suo funzionamento si continua ad insistere – anche in questo caso soprattutto da parte della cancelliera Merkel – sul ruolo centrale da assegnare alla possibilità di default del debito sovrano dei paesi della periferia, prevedendo altresì in questi casi una sorta di ‘tosatura’ dei creditori privati quale deterrente per future incaute esposizioni a favore di paesi debitori inaffidabili.

Se sul piano teorico ipotesi di default di singoli paesi appaiono, in realtà, pienamente gestibili e percorribili, non vanno affatto sottostimate le gravi ripercussioni che il default del debito sovrano avrebbe all’interno della zona euro, a partire dall’impatto devastante sui bilanci delle banche di molti paesi europei.

Molto meglio sarebbe prospettare un Esm che sia una sorta di Fondo monetario europeo, in grado di contemperare l’assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà con una condizionalità adeguata a stimolare le necessarie riforme dei singoli paesi con crisi debitoria. Le risorse per farlo funzionare potrebbero essere reperite attraverso varie strade, e proposte interessanti in merito non mancano.

Ma l’ostacolo maggiore per una decisione in tal senso è eminentemente politico ed è legato ai trasferimenti di risorse – seppur modesti e più che compensati da ritorni complessivi – dai paesi più forti ai paesi in difficoltà che un fondo permanente anticrisi di questo genere potrebbe contemplare. Questi trasferimenti sono giudicati inaccettabili in molti paesi oggi in Europa, in primo luogo in Germania, dove a fine marzo si svolgeranno nel Baden-Wűrttemberg elezioni molto importanti anche per gli equilibri politici nazionali.

Instabilità finanziaria
Il terzo e ultimo tema chiave per una soluzione positiva della crisi europea riguarda la stabilità finanziaria. Misure e meccanismi importanti sono stati varati in questi mesi, ma resta il problema chiave di riuscire a separare la crisi bancaria dalla crisi dei debiti sovrani. Esse sono oggi strettamente intrecciate attraverso i salvataggi bancari operati con denaro dei contribuenti, come nel caso dell’Irlanda. Servirebbe un piano di ricapitalizzazione e ristrutturazione del settore bancario, che sia ampio, complessivo ed esteso all’intera area europea. A questo scopo andrebbero approntati meccanismi di risanamento dei sistemi bancari di alcuni paesi, così da isolare le banche di fatto fallite – e da chiudere – dal resto del sistema che può essere invece ristrutturato e risanato.

Non è facile valutare l’ammontare esatto di risorse che costerebbe un insieme di interventi di questo genere. Le stime sono assai varie, e indicano comunque cifre importanti, oscillanti tra i 100 e i 200 miliardi di euro. A questo riguardo lo “stress test” effettuato lo scorso anno per accertare le condizioni di salute di circa 90 banche medio-grandi europee avrebbe potuto rafforzare la credibilità del sistema finanziario europeo e la sua capacità di sostenere la ripresa in corso. Si è trattato in realtà di un test all’acqua di rose e, comunque, ispirato a criteri troppo blandi. Basti pensare che il fabbisogno di ricapitalizzazione venne stimato pari ad appena 3,5 miliardi di euro.

Si è deciso di riprovarci e condurre tra un po’ un nuovo check-up del sistema bancario europeo avvalendosi questa volta della nuova Autorità bancaria europea (Eba). L’obiettivo è arrivare a fornire nuovo capitale là dove necessario. Ma le anticipazioni che si sono potute cogliere finora sono tutt’altro che rassicuranti circa la ‘severità’ degli esami che verranno condotti. Uno scetticismo dettato in particolare dalla cautela che continua a caratterizzare la Germania nella valutazione delle difficoltà delle sue banche.

Su questo e altri aspetti della governance economica europea i paesi della zona euro e l’intera Ue saranno comunque chiamati a dare risposte chiare per fronteggiare la situazione di crisi che rimane aperta e foriera di rischi per la stabilità dell’euro.

Paolo Guerrieri è professore ordinario alla ‘Sapienza’ Università di Roma e Vice-presidente dello Iai.

Fonte: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1685