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Quarta sponda e quinta colonna

di A. Musto - 10/03/2011



L’insieme delle rivolte che scuotono una parte del complesso e frastagliato mondo arabo rappresentano un indice interessante della condotta politica della nostra classe dirigente e della tenuta strategica del Paese. A queste si aggiungono le posizioni della sempre decantata opinione pubblica impegnata, militante o vagamente attenta che sia.

L’unica base possibile per rapportarsi alla questione è quella realista, su cui poi innestare le proprie posizioni politiche. Qualsivoglia scelta politica non può che esser tale se non al vaglio della presa di consapevolezza della concreta situazione in atto. Ciò presuppone un necessario balzo oltre semplicistiche simpatie precostituite e letture predefinite, e presuppone che si debba avere un approccio che non sia in balìa delle mutevoli vicende, ma ben saldo su alcune linee di interpretazione.

In primis,va sgombrato il campo da reminiscenze romantiche o smanie di appartenenza, che solitamente riemergono quando sulla scena fanno la comparsa forze e movimenti reclamanti poteri o diritti. In queste occasioni, spuntano subito fuori i paladini a distanza di questo o quel soggetto, lesti ad improvvisare analogie con situazioni socio-politiche interne-esterne, per le quali rispolverare alla bisogna mirabolanti vocazioni universalistiche con annessi schiamazzi di libertà e diritti.

Eventi come quelli in Tunisia, Egitto e Libia ci portano una volta di più ad una prima non nuova constatazione di fondo: la saldatura tra forme di pensiero apparentemente distanti in nome di un “interventismo universalistico”, intellettuale o politico, che non ha in alcun conto quanto lo spazio geografico sia sede di differenze sociali, culturali e politiche non assimilabili ad univoche teorizzazioni astratte. Pertanto, non si capisce, se non inquadrandolo come presupposto ideologico, come si possano leggere le rivolte in corso come manifestazioni di libertà, democrazia ecc.

Una lettura di questo tipo rimane alla superficie del fenomeno e per di più è viziata da una palese forzatura, quella di voler collegare implosioni e squilibri territoriali a concetti indebitamente ritenuti a-spaziali ed a-temporali, quali appunto quelli solitamente ascrivibili alle categorizzazioni occidentali.

La predisposizione, da parte di ampie schiere di sedicenti antimperialisti o anche solo sedicenti democratici, a sposare ogni causa o quasi che abbia un che di ribollente contro un dato ordine di cose è una manifestazione di infantilismo politico o almeno di folclore idealistico. Pertanto, sarebbe opportuno vagliare in maniera attenta lo scenario delle forze in campo e soprattutto cogliere  gli aspetti collocati sul piano sovrastante l’incalzare degli eventi, vale a dire la situazione strategicamente intesa. Se non vi si trovano personaggi o movimenti verso cui indirizzare un afflato idealistico o (peggio ancora, purtroppo) a cui riconoscere una convergenza almeno tattica rispetto alle proprie aspirazioni, bisogna farsene una ragione. Sarà un segno dei tempi.

Dalla complicità intellettual-ideologica a quella politica tra “interventisti universali” il passo è breve e spesso inconsapevolmente compiuto. Soltanto che la comprensione per tale inconsapevolezza finirebbe per essere a sua volta un’insopportabile idiozia, se reiterata. Quindi, se ancora ci sono – da parte di qualcuno -  dei canali di corresponsione con i “militanti dell’ogni rivolta e in ogni luogo”, questi vanno troncati per imboccare la strada del realismo.

La complicità politica degli interventisti universali avrà il suo suggello se si dovesse materializzare la paventata ipotesi di un’azione anglo-americana in Libia. Che abbia o meno le effige dell’Onu o della Nato, sappiamo bene che anglo-americana rimane innanzitutto. L’origine strategica è atlantica. Chi ha voglia di seguire, credendoci ed entusiasmandosi, l’incedere delle raffazzonate notizie all’insegna del “dicono…testimoni riportano che…pare che…” che giungono da quella che dovrebbe essere l’ormai nota macchina della propaganda, è già tranquillamente sul lettino della lobotomizzazione mediatica. I buoni e i cattivi già sono stati indicati e con cotanto di bandiere. Invocare e schierarsi al fianco di un intervento “umanitario” o appoggiare tout court i rivoltosi ma ritenendo di mantenersi in contrapposizione agli USA, sono due facce della stessa medaglia. Gli americani, in modo ovattato o per procura, sono già di fatto attivi nello scalzare Gheddafi e non per il semplice fatto di liberarsi del personaggio, ma in ossequio a mire strategiche. Un carpe diem a stelle e strisce.

Ma sorvolando ora su un tentativo di disamina della situazione libico-maghrebina, dovremmo tutti porci un criterio – ripetiamo realistico – che è quello proprio del nostro angolo visuale, cioè quello nazionale. Non per ristrettezza di vedute, parzialità  o egoismo, ma perché la vicinanza geografica e l’emergenza dei fatti ci impongono una maggiore presa di coscienza.

Certo, non possiamo attenderci altro, se non la solita solfa liberal-perbenista, dalla classe intelletual-giornalistica dominante. Tra puritanesimo e giustizialismo, sarebbe anzi un danno tirarla giù dalla fallo-sfera fino alle sponde del Mediterraneo. La baratteremmo volentieri con una tribù libica.

La crisi libica riporta la nostra politica estera sul terreno della partecipazione attiva e ricolloca al centro dell’attenzione quanto qui ritenuto sempre fondamentale, cioè lo scenario internazionale.

Predisposte o no, prevedibili o sottovalutate, deflagrazioni di questo tipo sono concatenate con altrettante deflagrazioni di segno economico-finanziario e politico e tutte attengono al costante mutamento dell’epoca. Solitamente questi sommovimenti a carattere regionale, al di là dei risvolti autoctoni, sono terreno di ri/posizionamento delle potenze, misurandone le loro mosse strategiche.

L’Italia non ha ancora definito un insieme di interessi nazionali da perseguire e sulla base del quale elaborare una strategia di medio-lungo periodo. Si naviga a vista e si cavalcano le contingenze alla buona, che di solito significa decidere di seguire le decisioni già prese dagli altri.

Tuttavia, l’asse italo-libico ed il triangolo Roma-Tripoli-Mosca sono un mirabile tentativo di autonomia. Il problema, dati gli assetti attuali e una classe dirigente comunque non all’altezza di radicali cambi di rotta, è di come coniugare questo tentativo autonomista con la subordinazione atlantica. Le quinte colonne interne, trasversali agli schieramenti ma primariamente incarnate dalle schiere moderato-progressiste (con annessa funzione attiva-passiva degli “antagonisti”), lavorano assiduamente per far saltare quel minimo di schema autonomista sin qui tracciato. Ne consegue che un dopo-Gheddafi, posto che ci sia, azzopperebbe la nostra proiezione mediterranea in generale.

E’ difficile immaginare un’evoluzione della crisi libica che arrechi effetti benefici all’Italia. Parteciperemo sì ad una spartizione dei compiti, ma uno stravolgimento del quadro comporterebbe un assorbimento della Libia in una sfera di influenza che limiterà la sua valenza geoeconomica rispetto ai nostri già maturati interessi, specie se si dovesse pervenire ad una frammentazione de iure o de facto del territorio. Lo stato attuale è frutto di un processo continuo, dalla fase coloniale a quella post-coloniale, che tra reciproche “sviste” ed incomprensioni ha pur sempre consentito la specificità di un rapporto bilaterale. Se questo stato si infrange, ci sono le premesse perché questo rapporto perda non il suo carattere bilaterale, ma la sua specificità. La funzione geopolitica della Libia, per l’Italia, rischierebbe di perdere quel valore dato dalla vicinanza storico-geografica, per ridursi a quella di un partner, vicino sì, ma oggetto di una riconfigurazione - militare e politico-economica – sicuramente confacente alla sfera di controllo atlantico, con ciò che ne consegue. Non sarebbe forse un reset, ma si presenterebbe una nuova gara a ricollocarsi da parte dei vari interessi strategici. A maggior ragione se il cambiamento riguarderà una porzione del quadrante nordafricano/vicino-orientale.

Alla luce di una complessiva valutazione politica, Gheddafi non è un modello di “buona condotta” né più di rivoluzionario; ha fatto più di un cedimento sia ad Israele che agli Usa, vuoi per il mutare delle contingenze storiche vuoi per ragioni di stabilità, ma ha pur sempre evitato che la Libia fosse terra di tutti e di nessuno o che diventasse un emirato qualsiasi. In sostanza, è riuscito nell’intento di garantire un esercizio di sovranità che permettesse al suo Paese, reggendo un equilibrio tribale-regionale, di essere partner e non preda. L’intimargli di andarsene è un atteggiamento da gangsters oltre che un’ingerenza fuori dal diritto internazionale, anche perché non è uno sconfitto in guerra a cui dettare le condizioni.

L’intelligence e la diplomazia italiane, a latere anche di talune dichiarazioni di certi esponenti di governo, si sono mosse inizialmente con cautela nell’intento di tutelare i connazionali di ritorno, ma ora si fa pressante il bisogno di una scelta politica. Il fatto che Gheddafi resista e rilanci un’iniziativa negoziale con europei e americani porta l’Italia a slittare verso una consueta ambiguità dalla dubbia efficacia. Calcare la mano e allinearsi ai diktat, significherebbe, in caso di permanenza al potere del rais, ritrovarsi in una situazione negoziale subordinata con un nuovo prezzo da pagare, con relativo aggravio di credibilità. Nel caso di una sua uscita di scena, il rischio sarebbe quello di doversi confrontare con un’incertezza sconveniente in termini di referenti e stabilità nonchè con una probabile minore incisività geopolitica.

E’ auspicabile che nella vicenda rimanga fondamentale il valore del trattato ed il peso di Finmeccanica e soprattutto dell’Eni, cioè quei canali, a maggior ragione ora, da intendersi e muovere non solo come attori economici, bensì come autentici centri strategico-decisionali, come tradizione vorrebbe. A prescindere dal destino di Gheddafi. Quella libica, del resto, è inevitabilmente una partita nella più ampia contesa in corso che si gioca sul campo dell’energia e dei valori industriali e, di qui, su quello della sovranità nazionale. A fronte dell’incessante attacco esterno ed interno cui è sottoposta la nostra struttura energetico-industriale, la contingenza richiede che prevalgano questi fattori e determinate decisioni sull’indecorose posizioni antinazionali assunte dalle quinte colonne sciorinanti un truffaldino bon ton umanitarista.

Cercasi azione sovrana non omologata.