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Per Thoreau, noi tutti indugiamo nell’inverno mentre fuori è già primavera

di Francesco Lamendola - 13/03/2011

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È possibile che noi viviamo sempre in ritardo rispetto a noi stessi; che non ci rendiamo conto di sprecare tutta una serie di occasioni che la vita ci offre per la nostra evoluzione spirituale; che mascheriamo la nostra paura di vivere sino in fondo la nostra vita, con la scusa del dovere e che poi ci troviamo a dover espiare l’autenticità che non abbiamo avuto, il coraggio di essere noi stessi che non abbiamo dimostrato, quando ne andava della nostra anima?
Questo è quanto pensava Henry David Thoreau (Concord, 1817 - ivi, 1862), il filosofo e scrittore americano universalmente noto per il libro «Walden, ovvero la vita nei boschi», apparso nel 1857, in cui egli racconta la sua esperienza di vita solitaria a contatto con la natura primigenia del Nord America, presso le rive boscose del lago Walden, dal luglio del 1845 al settembre del 1847, in una capanna di tronchi che egli stesso si era costruita.
Laureato ad Harvard benché provenisse da un’umile famiglia, amico del filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson, Thoreau, morto di tubercolosi a soli quarantaquattro anni, non ha soltanto influenzato profondamente il pensiero della Wilderness, della natura non coltivata e non alterata dall’uomo, ma anche il pensiero libertario, tanto da ispirare l’azione di uomini della statura di Tolstoj, Gandhi e Martin Luther King, che in lui hanno riconosciuto un maestro della lotta non-violenta contro un ordine sociale considerato ingiusto.
Questo secondo aspetto della sua figura intellettuale, che non è distinto, ma strettamente intrecciato al primo, come due facce di una stessa medaglia, è messo bene in evidenza nel suo saggio intitolato «La disobbedienza civile», apparso nel 1849.
Esso aveva per tema la critica intransigente alla politica estera americana, sfociata nella guerra contro il Messico del 1846-48, terminata con l’iniquo trattato di Guadalupe-Hidalgo che sanciva l’annessione agli Stati Uniti di metà del territorio messicano (ma per i nazionalisti yankee non era ancora abbastanza, dato che molti di essi si batterono, anche se invano, per l’annessione di TUTTO il Messico).
Thoreau, in quel saggio, sosteneva che nessuna politica militare è possibile se non si fonda sul consenso dei cittadini e sul pagamento delle tasse necessarie a finanziare la guerra; ragion per cui proponeva ai suoi concittadini di seguire il suo esempio e di rifiutarsi di pagare le tasse, in modo da mandare un chiaro segnale al Congresso e al presidente degli Stati Uniti; gesto che lo condusse in carcere, sia pure per una brevissima detenzione, più che altro simbolica.
A noi, comunque, in questa sede, interessa di più il primo aspetto del pensiero di Thoreau, quello legato alla Wilderness: aspetto che, oggi, con termine più aggiornato e più completo, ma in sostanza equivalente, potremmo definire “ecosofico”, o anche “ecocentrico”, ossia basato sulla consapevolezza che l’uomo, il suo pensiero e la sua stessa vita sono semplicemente inconcepibili al di fuori della rete dei rapporti organici che legano tutti gli esseri viventi della Terra in un’unica, grande forma di vita planetaria.
Più in particolare, all’interno di questa vastissima tematica, ci interessa svolgere una riflessione sulla profonda convinzione di Thoreau che esista una relazione stretta e necessaria fra il nostro rapporto con la natura ed il rapporto che abbiamo costruito con noi stessi, con la nostra anima, con la parte più vera e più profonda della nostra vita.
Questo egli intendeva, crediamo, allorché affermava che la nostra tendenza è quella di crearci un comodo rifugio nelle nebbie e nel gelo dell’inverno, una sorta di bozzolo protettivo, per non doverci accorgere che, fuori, i tiepidi raggi del Sole stanno già portando la primavera: ossia che noi, spaventati dalla vita più autentica che potremmo vivere, dalle occasioni che non sappiamo cogliere, dagli incontri che non abbiamo il coraggio di approfondire (non solo con altri esseri umani, ma anche con tutto ciò che la vita stessa pone sulla nostra strada: dalle situazioni sociali e psicologiche, alle creature non umane), volgiamo le spalle a tutto questo e finiamo per rassegnarci a vivere una vita che non è vera vita, ma solo una pallida contraffazione di essa.
E, quel che è peggio, ci sforziamo di tacitare i nostri rimpianti raccontandoci la favola rassicurante che tutto quanto abbiamo fatto, o meglio, che non abbiamo fatto, è stato per obbedire al nostro dovere; mentre la vita continua a riproporci, ma invano, le situazioni da cui siamo scappati, e che non troveremo mai il coraggio e l’onestà di affrontare, fino a quando non riusciremo a ripulire la nostra anima da paure e ipocrisie.
Thoreau era convinto che la vita sia una cosa preziosa e che non la si debba sprecare; e, inoltre, che esiste un legame necessario fra il modo in cui noi ci poniamo di fronte alla vita della natura e quello in cui ci poniamo di fronte a noi stessi, alle nostre esigenze più autentiche, alla nostra verità interiore, una volta che l’abbiamo sfrondata di mille rumori e cose inutili.
In questo senso, si può dire che l’atteggiamento ecosofico sia un atteggiamento totale nei confronti del reale, sia per quanto riguarda il mondo esterno, sia per quanto riguarda il mondo interiore: se si ama la vita sino in fondo, la sia ama in tutti gli esseri e la si ama anche nelle parti di se stessi che, per viltà o per ignoranza, giacciono sepolte e dimenticate in qualche recesso buio della propria anima.
Thoreau sosteneva che, dentro di noi, vi sono isole e continenti che ancora attendono di essere riconosciuti ed esplorati; e, coerentemente, pensava che l’attenzione amorevole verso la più piccola forma di vita sia una maniera per effettuare tale riconoscimento e tale esplorazione: perché lo stupore e la benevolenza che siamo in grado di provare per la realtà esterna, sono i cardini su cui possiamo aprire la porta che conduce al nostro segreto più profondo.
Influenzato dal pensiero orientale, e particolarmente da quello induista esposto nella «Bhagavad-Gita», Thoreau aveva un istintivo rispetto per ogni creatura vivente e sentiva, con la forza che scaturisce da un sentimento anteriore a qualsiasi ragionamento, che è male togliere la vita a qualsiasi animale, per quanto piccolo e apparentemente insignificante, senza una reale necessità: perché una tale azione si ripercuote negativamente su tutte le vite che a quella sono collegate, in maniera diretta o indiretta, occulta o palese.
In breve, egli pensava che esiste una unità originaria di tutte le vite e di tutte le cose e che la differenziazione degli enti e delle menti non è che una illusione fenomenica; anche se non ha mai approfondito questo aspetto del suo pensiero, né lo ha mai spinto alle ultime, logiche conseguenze, forse per una predilezione istintiva per il mondo dei fatti, dell’agire concreto, rispetto alla mera speculazione astratta.
Proprio per questo, noi avvertiamo una forza particolare nella sua osservazione, secondo cui una creatura viva è sempre meglio di una creatura morta: e vengono in mente, ad esempio, le sterminate mandrie di bisonti, che a milioni popolavano, da tempi immemorabili, le Grandi Praterie dell’America Settentrionale; e che l’uomo bianco, nel suo furore distruttivo, non di rado completamente gratuito (come quando i gestori della ferrovia transcontinentale vendevano ai viaggiatori, compreso nel prezzo del biglietto, il diritto di sparare dal treno in corsa sui bisonti, le cui carcasse sarebbero rimaste a marcire inutilizzate), avrebbe condotto la sua guerra dissennata contro la natura, di cui è soltanto uno degli ospiti, fino all’estinzione di intere specie viventi.
Non si può non pensare, a questo proposito, alla cicala della famosa (o famigerata) “favola dei suoni”, di cui parla Galilei nel «Saggiatore», laddove l’autore descrive la vivisezione di un insetto al solo scopo di comprendere, senza peraltro riuscirvi, l’origine del suo frinire: classico esempio di una scienza cattiva, insensibile, fredda, senza compassione, senza alcun rispetto per l’intima bellezza del fenomeno “vita”.
Ma non si può non pensare anche a quella specie vivente del Nord America, così ricca di saggezza ecosofica, che era rappresentata dagli Indiani: vittima, anch’essa, di una guerra di aggressione spinta fino al genocidio, e sempre in nome della “civiltà”, intesa come Logos strumentale e calcolante, interessato solo e unicamente al vantaggio economico e all’esercizio illimitato della potenza materiale.
Scrive Massimo Centini nel suo libro «La Wilderness. La natura selvaggia e l’uomo», Milano, Xenia Edzioni, 2003, pp. 62-74, passim):

«Thoreau seppe vivere in simbiosi con due grandi ostacoli incontrati dai coloni:  le foreste e gli Indiani. Per lui, uomo semplice affascinato da tutto, la foresta e i grandi spazi potevano essere colonizzati solo con il pensiero e lo sguardo. Gli Indiani erano depositari di conoscenze antiche e importanti che egli sapeva di non aver mai posseduto e che in pionieristico spirito Wildeness, dovevo essere lasciate ai loro legittimi proprietari. […]
Contro una società fondata sul profitto, Thoreau proponeva un ritorno alla natura, tutto ciò non come sterile fuga dalla comunità, ma come un’occasione per scorgere, nel mondo selvaggio, un luogo in cui riuscire a osservare, con meno condizionamenti, ‘effettiva dimensione della nostra esistenza. […]
Thoreau resta un esponente fondamentale della non-violenza, circondato da un’aura di romantico anarchismo, capace i estasiarsi davanti allo spettacolo della natura, di cui percepisce il linguaggio, sforzandosi di trarre da esso delle indicazioni per vivere e per confermare le proprie scelte.
Segni e luoghi diventano così parte di un tracciato che si snoda lungo l’itinerario del sacro, scorto dall’autore nelle tracce della cultura dei nativi, da cui apprese certamente molte più cose di quante ebbe modo (o volle) riportare. Emblematiche le sue ultime parole: “Alce-Indiano, forse il suo totem a cui aveva consacrato un’esistenza breve in un luogo “che è solo un punto nello spazio” e dove elaborò un modus vivendi degno di essere considerato come una prospettiva esistenziale per sottrarsi al’incapacità di stabilire una sincera armonia tra il luogo che è dentro di noi e quello esterno. […]
Ciò conduce a un’importante constatazione:che solo chi sa essere nella natura sa cogliere senza false percezioni: “Saremmo benedetti se vivessimo sempre nel presente, e traessimo vantaggio da ogni fatto pur accidentale che ci accada, come l’erba che confessa l’influenza della più breve rugiada che le cade sopra, e se non passassimo il nostro tempo a espiare per aver trascurato occasioni passate, che no chiamiamo il nostro dovere. Noi indugiamo nell’inverno, mentre è già primavera”. […]
Il pensiero Wilderness di Thoreau è sovrapposto all’idea che l’osservazione e il vagabondaggio costituiscano due “canali” fondamentali per appropriarsi della natura, colmando l’animo di emozioni e di suggestioni.
In alcune delle proprie descrizioni, Thoreau lascia trasparire una vena quasi etnografica, raccoglie e racconta, ricorda panorami e particolari, piccole e grandi cose di un mondo che allora era già in procinto di perdere la propria fisionomia atavica sotto il peso della crescente modernizzazione. […]
Il pensiero di Thoreau non è però completamente estetico e adagiato sullo sterile piacere dell’osservazione, ma si impegna anche in direzione di prospettive di analisi che lasciano intravedere l’angoscia per una possibile fine della natura: “Forse un giorno l’alce si estinguerà, e allora sarà naturale  per un poeta o uno scultore, quando esisterà solo come un relitto fossile, e non più visibile, inventare un animale favoloso,, con corna talmente ampie e ramificate da sembrare una sorta di focus o di lichene osseo.
L’alce, il “cavallo di Dio”, diviene il simbolo più potente per rappresentare la natura aggredita dall’uomo: “Ogni creatura è preferibile viva che morta, uomini, alci, pini che siano, e chi ne ha chiara coscienza preserverà la vita piuttosto che distruggerla”.
La natura miniaturizzata di Thoreau è a tratti uno spazio metaforico che pare trito dalla fiaba, ma malgrado tutto è straordinariamente reale, a volte difficile da afferrare, ma sempre specchio in cui la realtà e la poesia si incontrano e trovano il modo per convivere. Il recupero di una sorta di “intimità pagana con la natura” è uno dei motivi ricorrenti che possono essere rintracciati all’interno delle varie forme della Wilderness. Le esperienze più arcaiche di una mentalità del genere possono essere scorte nella Società del lago Walden, fondata da Thoreau verso la metà del XIX secolo.
Con questa società, Thoreau contribuì notevolmente a diffondere una sorta di neo-paganesimo che aveva uno dei punti salienti in una sorta di venerazione per i boschi: “La rivoluzione romantica contro il cristianesimo ebbe come conseguenza la diffusione del principio divino della natura e l’identificazione della divinità con la vita che scorre attraverso il sistema ecologico” (D. Worster, “Storia delle idee ecologiche”, Bologna, 1994, p. 121).[…]
Noi crediamo che l’elaborazione di una ipotesi “pagana” nell’approccio al bosco non fosse nei principali interessi di Thoreau. Se ciò è stato riscontrato deve la sua affermazione alle interpretazioni successive e ai tentativi di approfondimento e di rivestimento ideologico che negli anni hanno caratterizzato l’interpretazione dell’opera del filosofo di “Walden”.
Per qualche strana alchimia, il pensiero di Thoreau è andato bene a molti: dai neopagani affascinati dalla mitologia indoeuropea agli hippies. Fino agi anni Settanta, le giovani generazioni hanno avuto modo di identificarsi nel selvaggio autore di “Walden”, demonizzato dai benpensanti e quasi sacralizzato dai contestatori. Henry Miller affermò: “Nella storia degli Stati Uniti si può contare a mala pena una mezza dozzina di nomi che abbiano per me un significato: Thoreau è tra quelli”.[…]
Il profeta della Wilderness condusse un’esistenza quasi monastica nella natura: in questo modo intendeva dare voce all’ambiente in cui adagiava la sua esistenza come un dono alla base di un altare e nello stesso tempo lasciava che a parlare fossero anche i “continenti che portiamo in noi”, come suggeriva in “Walden”.
Il suo parlare quasi in modo divino delle cose naturali gli venne quasi certamente da una predisposizione poetica, ma non fu assente l’influenza della “Bhagavad-Gita” trovata nella biblioteca del filosofo Ralph Waldo Emerson e letto avidamente. E poi la ricerca dell’infinito attraverso la vita proposta dalla filosofia trascendentalista di Emerson consentirà a Thoreau di costruire il proprio bozzolo di esistenza per porsi davanti alla natura in modo decisamente anticonformista: “Per un uomo solo che avrà gli occhi aperti sulla alla bellezza del mondo che lo circonda, ve ne saranno novantanove che gratteranno la superficie con le loro unghie per estrarne l’oro.  L’ordine delle cose dovrebbe essere capovolto: il settimo giorno dovrebbe essere dell’uomo dedicato al lavoro, per guadagnarsi il pane col sudore della fronte e gli altri sei, la sua domenica, consacrata a tutto ciò che ama e ale cure dell’anima”.
Prospettiva utopistica di certo, che comunque costituisce una via di salvezza, estrema quanto si vuole, ma necessaria, per tranciare ogni legame con il passato, con l’ambiente civilizzato: “Io non volevo vivere quello che non era vita: la vita è tanto preziosa! Né praticare la rassegnazione, a meno che fosse strettamente necessario. Ciò che desideravo era vivere sino in fondo e suggere il midollo dell’esistenza, vivere energicamente e spartanamente per eliminare tutto ciò che con la vita non ha nulla a che fare, falciare una larga striscia di erba a filo di terra, ridurre la vita ai suoi minimi termini, stringere tra le braccia il corpo.”»

Di Thoreau, come giustamente osserva Massimo Centini, si sono impossessati in tanti; in troppi, è il caso di dire.
Fra i gruppi di tendenza New Age, i cosiddetti neopagani sono forse i più discutibili, perché essi hanno assolutizzato ed estremizzato una sola dimensione del pensiero ecosofico del Nostro: l’atteggiamento di meraviglia, di gratitudine e d’incondizionata ammirazione per la natura selvaggia e, in modo particolare, per i boschi.
Ora, se la figura di Thoreau ci appare, oggi, quasi inseparabile da quella del “Waldganger” di Jünger, ossia dell’anarca che “passa al bosco” quando la società moderna, coercitivamente invasiva e livellatrice, rende impossibile una resistenza organizzata “di massa”, non bisogna però commettere l‘errore di confonderla con quella del preteso sacerdote druidico che, nella sua candida veste, celebra il Solstizio d’estate in qualche cerchio megalitico tipo Stonehenge; né, meno ancora, con quella di qualche nudista, naturista o sedicente “elfo” di una non meglio precisata religione pre-cristiana.
E questo per la buona ragione che ammirare la vita selvaggia, stupirsi davanti allo spettacolo meraviglioso di un bosco intatto, provare un intimo senso di comunione con la sua vita segreta, che sfugge allo sguardo superficiale del turista o del viaggiatore frettoloso, non significa adorare la natura e le foreste, non significa divinizzarli.
Un certo grado di animismo, implicito nell’atteggiamento ecosofico di Thoreau, non può essere separato dal contesto della sua concezione e trasformato nella bandiera di una nuova religione, di un nuovo culto pagano da opporre al cristianesimo.
Il senso profondo del suo messaggio, infatti, non è di tipo oppositivo e, per ciò stesso, duale; non è di tipo esclusivista, di un punto di vista che si vuole affermare a danno di tutti gli altri: ma è, al contrario, di tipo accogliente, inclusivo e non duale.
Non questo, a detrimento di quello; non questo, negando, reprimendo e distruggendo quell’altro: ma l’unità profonda di tutte le cose che, pur manifestandosi in enti e situazioni diversi, rimane pur sempre se stessa, nel passato e nel presente, nel qui e nell’altrove, in noi stessi e fuori di noi.