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Meno Pil per tutti…

di Serge Latouche - Nanni Riccobono - 14/03/2011

Fonte: glialtrionline


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Intervista all’economista e filosofo francese, teorico della “decrescita”

Serge Latouche è un signore allampanato e molto gentile che incarna, con la sua teoria della decrescita, ogni possibile immaginario legato alla cosiddetta “qualità della vita” che sia stato pensato e propugnato negli ultimi decenni. Non ha e non usa il cellulare e viaggia senza portatile, adopera la corrispondenza via mail ma solo a casa sua, a Parigi. È un economista, ma com’è noto “predica” l’uscita dall’economia che considera una categoria storica convenzionale costruita per parlare di fenomeni vissuti, e non un’essenza eterna ed immutabile. Dunque, contro ogni “principio” economico vede nella crescita il nemico dell’umanità. Molti lo giudicano un pazzo, soprattutto a sinistra; altri, sempre a sinistra, lo considerano un profeta. In realtà la sua teoria è molto meno immaginifica della vulgata ecologista, ha solide fondamenta economiche ma anche filosofiche e sociologiche e nel suo ultimo libro, Come si esce dalla società dei consumi (Bollati Boringhieri, pp. 192, euro 16), descrive percorsi che sono tutto sommato sensati e realistici e che non hanno molto in comune con l’idea di un ritorno bucolico a quella sorta di medioevo soggettivo che a volte si ritrova incarnato in alcuni suoi “seguaci”.


Professor Latouche, nel suo ultimo libro lei sembra alquanto soddisfatto della crisi economica che sembra confermare le sue predizioni. Però sui giornali leggiamo che ci sono segnali di ripresa…

No, io sono convinto che la crescita è finita e non riprenderà mai. Ma non parlo di quest’ultima crisi. La crescita è finita negli anni Settanta, più precisamente nel ’75. Dopo di allora abbiamo vissuto una finta crescita, una crescita fittizia, grazie alla magia del responsabile della Fed, Greenspan. Naturalmente gli indici del Pil hanno continuato a crescere, ma il benessere no, non è cresciuto. Abbiamo vissuto la vera crescita tra il 1945 e il 1975, un periodo che ha portato reale benessere nelle case dei lavoratori, ma dopo la crisi del fordismo la produttività non è più cresciuta come prima e il degrado dell’ambiente è stato talmente forte che sì, alla fine del mese ai salariati toccava un salario più alto, ma le spese provocate dalla finta crescita erano sempre più forti dei benefici. Per questo dico che da allora è stata una crescita fittizia. Un po’ come la luce che ancora vediamo, ma che proviene da stelle spente. Dall’agosto 2007, dalla cosiddetta crisi dei subprime, dopo il 16 settembre 2008 e il fallimento della Lehman Brothers, non si può più nascondere il fatto che viviamo in una società della crescita senza crescita.

I governi hanno tentato di tutto per salvare la situazione…

Già, hanno speso ventiquattromila miliardi di dollari per salvare il sistema finanziario, un terzo del Pil mondiale, una cosa gigantesca, fatta da governi che non trovano cento milioni di dollari per salvare lo stato sociale, la scuola, la sanità. Ma sono interventi che se pure massicci, creano una finta ripresa: la speculazione immobiliare è ripresa, la speculazione nelle borse è ricominciata, ma durerà poco ed è molto, molto fragile. Del resto, il prezzo del barile di petrolio è già salito moltissimo.

La situazione mediorientale non aiuta. Era prevedibile l’esplodere delle rivolte nel Maghreb e ora in Libia?

La situazione mediorientale era oggettivamente esplosiva ed è esplosa, ma non è questo che ha grandi effetti sulla crisi economica. Anche la situazione in Libia non costituisce un grande problema, la Libia non è il più grande produttore di petrolio, è un effetto accidentale non particolarmente significativo.

La crisi costituisce comunque un’occasione di riflessione. Può darsi che spinga a considerare con più attenzione le ragioni della decrescita?

Non credo. Le occasioni di riflessioni non mancano, non sono mancate in questi decenni. A che punto si può dire che siamo obbligati a decrescere? Secondo me questo punto è stato superato da un pezzo. Ma noi abbiamo una grande capacità di nasconderci le cose, di fare la politica dello struzzo.

Nel suo ultimo libro lei dice che bisogna sottrarre la moneta alle banche, e parla delle esperienze di piccole comunità che hanno sposato la sua teoria della decrescita e la praticano; la ricongiunge idealmente alle esperienze degli utopisti inglesi come quelle raccontate da William Morris in “Notizie da nessun luogo”. Lei stesso definisce la “sua” decrescita un’utopia. Ma forse c’è più bisogno di politica che di utopia.

Ma la politica senza utopia non ha alcun senso! Il socialismo per due secoli è stato un’utopia eppure ha avuto effetti politici, ha nutrito programmi elettorali. E continua a farlo.

Il socialismo realizzato ha prodotto effetti terribili ed ha ucciso la libertà…

Sì, questo è successo all’Est ma il socialismo si è anche realizzato da noi, nelle socialdemocrazie del Nord Europa, un modello di cui ancora tutta la sinistra europea ha nostalgia. Non voglio certo esaltare quelle esperienze, quelle erano anche società del consumo perché avevano accettato il sistema capitalistico e la pervasività del mercato. Volevo solo dire che quell’utopia del socialismo è stata parzialmente realizzata, ha prodotto dei programmi, non sempre buoni, ma per l’Europa ha avuto anche degli effetti positivi. Per me il progetto della decrescita è una utopia concreta. L’ho detto prima: senza utopia la politica non avrebbe senso, abbiamo bisogno di avere una prospettiva di cambiamento. Nel mio prossimo libro faccio una distinzione tra mito e utopia. Definisco il mito come una cosa irrealistica, che può essere strumentalizzato a fini negativi: il mito della razza, per esempio, utilizzato dal nazismo, ma anche i miti del socialismo, penso a George Sorel, al mito dello sciopero generale… Il mito è pericoloso perché serve a manipolare le persone. L’utopia della società della decrescita si fonda su dati che possono farla funzionare. Se la vogliamo, quest’altra società è possibile. Naturalmente dobbiamo volerla, non sono affatto sicuro che si realizzerà, ma non è un’idea astratta e impossibile da concretizzare e può servire da guida per la politica, ad esempio, per costruire un programma politico per le prossime elezioni.

Come ci si può “riappropriare” della moneta?

È una fase concreta della società della decrescita. È difficile da pensare ma non da realizzare e a livelli piccoli funziona già. Ci sono un sacco di monete locali che funzionano bene. In Svizzera c’è il wir che viene usato tra gli imprenditori, è una moneta alternativa. A livello degli scambi locali ce ne sono diverse. Anche in Italia, nel parco dell’Aspromonte quando era presidente Tonino Perna, c’era l’ecoaspromonte, una moneta locale per il parco. L’Argentina, dopo la crisi del peso, è sopravvissuta grazie alle monete locali. Io dico che la moneta è una cosa comune, una cosa molto importante che non si deve lasciare ai banchieri. È necessario sottrarla alle banche, alla finanza, e restituirla alla società attraverso l’azione degli enti locali.

La decrescita è legata all’ecologismo, ma dall’ecologismo spesso partono diktat illiberali.

L’ecologia è sia una scienza che un movimento politico. Gli scienziati pensano di conoscere la verità e quando qualcuno pensa di conoscere la verità non c’è più spazio per la democrazia. È una strada sbagliata, anche se c’è una parte scientifica importante nell’ecologismo, perché la questione è che non si tratta di salvare il pianeta, il pianeta si salverà da solo, si tratta di salvare l’umanità. E per salvare l’umanità si deve chiedere agli uomini di partecipare ad un progetto, se lo vogliono. Non si può obbligarli. Gli uomini possono preferire il suicidio. Negli incontri che faccio in giro per l’Europa succede spesso che qualcuno dica: ma no, andiamo avanti così fino alla fine, consumiamo tutto e buonanotte. Non possiamo salvare l’umanità contro il suo desiderio di suicidarsi. Il problema, secondo me, è che consumare tutto non ci rende felici: questa è la dimensione più importante, è il punto d’avvio del progetto della decrescita che per me è più importante della dimensione ecologista. Ma anche se la mia è una convinzione forte siamo di fronte a un fenomeno di tossicodipendenza. Il consumatore è un tossicodipendente della società dei consumi, può sapere che non gli fa bene ma non riesce a non farlo. È un problema di droga, e ci sono due attori. I trafficanti, le grandi multinazionali, che fanno profitti e non vogliono rinunciare, e i drogati, noi, che siamo vittime e nello stesso tempo complici. Solo sotto forte minaccia intraprenderemo una cura.

Abbiamo bisogno di uno shock. Secondo lei la crisi economica non basta?

La crisi è stata uno shock, ma non penso solo a questi ultimi quattro anni: la crisi non è solo finanziaria ed economica, è crisi ecologica, crisi sociale, crisi culturale: siamo in verità all’inizio di una crisi di civiltà. Nella storia occidentale abbiamo solo un esempio, molto complicato, che è la caduta dell’impero romano, il passaggio alla società cristiana. Ma questo processo si è svolto in tre-quattro secoli, forse di più. La nostra crisi di civiltà inizia negli anni Settanta, come dicevo, e oggi è già palpabile; comunque sarà molto più veloce perché in un modo o nell’altro ne usciremo prima del 2050, quando si stima che avverrà l’esaurimento delle risorse energetiche fossili.

Se questa che viviamo è una crisi di civiltà, dobbiamo aspettarci un lungo periodo di barbarie?

Ma le nuove barbarie sono già qui. Si chiamano Berlusconi, Sarkozy, Marchionne… Si capisce che la barbarie può peggiorare, si possono espellere più immigrati, deportare più rom, rendere semischiavi più operai e così via, e questo probabilmente accadrà tra pochissimo. Ci sono centomila egiziani che premono alle porte dell’Italia. Cosa farà il governo italiano? Dei campi di concentramento, presumo. Questa si chiama barbarie, o no? Allora siamo di fronte ad una scelta: o la barbarie, o la società della decrescita. Io la definisco come una società di abbondanza frugale, sembra un paradosso ma non lo è. Se capiamo che la nostra non è una società dell’abbondanza ma della frustrazione, capiamo anche che l’unica opportunità per creare abbondanza è la frugalità. Se sappiamo tutti limitare i nostri bisogni allora possiamo soddisfarli, e questo è matematicamente possibile.

Come si fa a parlare di decrescita agli operai e alle operaie in cassa integrazione che vogliono il lavoro e quindi lo sviluppo?

Bisogna spiegar loro che non è vero che lo sviluppo produce lavoro. Non è lo sviluppo che crea lavoro. Lo sviluppo è stata la soluzione alla crisi del dopoguerra per permettere ai profitti di aumentare e così anche ai salari, ma tutto questo è finito. Bisogna trovare una via d’uscita perché non ci sarà una ripresa del lavoro, diventerà una risorsa scarsa e dobbiamo condividerlo. Lavorare meno lavorare tutti, e reddito di cittadinanza. Bisogna fare pressione sugli Stati, attraverso programmi politici. Dobbiamo chiedere di diminuire l’orario di lavoro per dare lavoro a tutti e aumentare le tasse sui profitti finanziari, perché siamo arrivati a dei livelli di diseguaglianza enormi. In questo la sinistra ha grandi responsabilità perché ha accettato il paradigma del progresso infinito senza chiedersi dove avrebbe portato.

Lei parla dello spirito del dono all’interno del progetto della decrescita, come riconoscimento di un debito ecologico, e gli attribuisce un primato filosofico, quello dell’essere. Cosa intende?

Voglio dire che noi viviamo in un mondo dove abbondano i mezzi di sostentamento naturali, che però sono stati mercantilizzati, ne è stata istituita la scarsità per la convenienza dei pochi e inoltre è stato deciso di non considerare il rovescio della produzione mercantile, cioè i rifiuti, l’inquinamento, lo sconvolgimento degli ecosistemi. Dunque la società della crescita dimostra di “dimenticare” l’essere. Viene negata la nostra situazione in un mondo che è generoso e limitato allo stesso tempo. È come se negassimo la nostra condizione umana. Nella mia idea di decrescita c’è lo spirito del dono nelle relazioni sociali come richiamo a ciò che per i greci era la caritas, la philia, di cui parla Marcel Mauss. Questa amicizia, questa comunità. Concetti necessari a scongiurare la pulsione distruttiva di ogni società democratica.