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Il commercio mondiale e l’ambiente

di Simon Retallack - 15/03/2011

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La natura è intrinsecamente fondamentale. Senza di essa, non possiamo sopravvivere. Tuttavia, abbiamo già perso abbastanza i contatti con essa per istituire un sistema economico che la distrugge.
Le politiche applicate per globalizzare l’economia hanno messo in gioco regole e dinamiche nuove incompatibili con la protezione dell’ambiente. In particolare, la creazione di mercati sempre più estesi e liberalizzati per il commercio e l’investimento ha considerevolmente amplificato l’impatto distruttivo dell’attività economica sul pianeta esaurendo il suo capitale di risorse naturali e riducendo la sua capacità di accoglienza ecologica a un ritmo così sfrenato che la sua attitudine a sovvenire ai bisogni delle generazioni future si trova ad essere minacciata.
Le regole e le dinamiche nuove della globalizzazione hanno simultaneamente impedito l’instaurazione o provocato la soppressione delle regolamentazioni e delle tasse ambientali, nel momento stesso in cui erano più necessarie. I principali attori economici di oggi, le grandi aziende, hanno dunque sempre più la briglia sul collo. Di conseguenza, la responsabilità economica, la democrazia e la possibilità di realizzare una protezione dell’ambiente sono gravemente scalfite.
La deforestazione, la perdita di biodiversità, il cambiamento climatico, l’esaurimento delle riserve di pesca, l’erosione dei suoli, la degradazione delle terre agricole e la crescente penuria di acqua potabile assumono dunque la dimensione di crisi incontrollabili di ampiezza planetaria. La globalizzazione spinge pericolosamente la Terra al di là dei suoi limiti ecologici.

L’IMPATTO DELLA LIBERALIZZAZIONE DEGLI SCAMBI
E DEGLI INVESTIMENTI

Da vent’anni, gli ostacoli al commercio e agli investimenti alzati dagli Stati sono stati radicalmente ridotti ovunque nel mondo dopo l’adozione dei piani di aggiustamento strutturale del FMI e della Banca mondiale da parte dei paesi in via di sviluppo, l’arrivo generalizzato al potere di governi neoliberali al Nord, la creazione di zone di libero scambio in Europa e in America del Nord, e la messa in opera di cicli successivi di negoziazione del GATT (cfr. il contributo di Walden Bello).
Per conseguenza, gli investimenti diretti all’estero (IDE) delle aziende transnazionali, tra il 1970 e il 1992, si sono moltiplicati per dodici1. In seguito, tra il 1992 e il 1997, si sono quasi triplicati2, raggiungendo i 149 miliardi di dollari, l’insieme degli investimenti diretti esteri essendo di 400 miliardi, cifra che, rispetto al 1994, è quasi raddoppiata3. L’apertura dei mercati attraverso il globo e la promozione delle esportazioni hanno provocato un’analoga esplosione del volume del commercio mondiale, che è stato moltiplicato per quindici dal 1950 al 1997, passando da 360 miliardi di dollari a 5860 miliardi4.
Questa crescita vertiginosa del commercio e degli investimenti a livello planetario ha contribuito a creare un certo numero di problemi ecologici specifici.
La pratica del commercio esige il trasporto delle merci. Gli attuali mezzi di trasporto richiedono combustibili fossili, che emettono gas nocivi, in particolare gas a effetto serra, e il loro sviluppo ha dunque causato un aumento dell’inquinamento atmosferico e un’accelerazione del cambiamento climatico planetario. Ha inoltre amplificato la bio-invasione, una delle principali cause dell’estinzione delle specie: alcune sono inavvertitamente trasportate verso lontane destinazioni, dove hanno effetti catastrofici sulla biodiversità degli ecosistemi locali.
Un’altra conseguenza della liberalizzazione degli scambi viene ulteriormente ad aggravare la minaccia di estinzione che aleggia su certe specie. La soppressione dei controlli alle frontiere, come all’interno del mercato unico europeo, e la sviluppo del trasporto transfrontaliero delle merci hanno considerevolmente ostacolato la prevenzione del traffico illegale delle specie minacciate. Per le stesse ragioni, la prevenzione del traffico dei rifiuti pericolosi e dei clorofluorocarburi (CFC), che hanno un ruolo chiave nella distruzione dello strato d’ozono, è stata resa molto più difficile.
La liberalizzazione degli scambi commerciali resta forse la più dannosa nel suo impatto ecologico generale. Lo smantellamento delle barriere commerciali ha permesso alle grandi imprese – il cui principale obiettivo è di svilupparsi per accrescere il loro valore borsistico e i profitti – di accedere a due importanti mercati. In primo luogo, l’immenso nuovo mercato dei consumatori, ai quali vendono manufatti in quantità sempre più grandi, persuadendoli che il consumo è la principale fonte di soddisfazione. Il secondo è quello, ugualmente immenso, delle risorse naturali necessarie a rispondere ai bisogni crescenti e a mantenere un forte consumo nei paesi industriali.
I prodotti, le tecnologie e i modi di vita, spesso molto inquinanti, prima appannaggio dei paesi industrializzati, sono ora esportati e venduti nel mondo intero. È il caso dell’automobile, il cui numero è passato da alcune migliaia nel 1900 a 501 milioni oggi5. Dopo l’apertura dei mercati alle importazioni straniere, il numero delle persone che possiedono un’auto è vertiginosamente aumentato nella maggior parte dei paesi in via di industrializzazione. In Corea del Sud e in Tailandia, ad esempio, il tasso annuale di crescita del parco automobilistico è stato rispettivamente del 25% e del 40% all’inizio degli anni Novanta6. Ne risulta uno spaventoso inquinamento atmosferico dei centri urbani e un aumento delle emissioni di gas ad effetto serra.
Al contempo, l’incessante ondata di prodotti riversati dalle aziende sui loro tradizionali mercati nazionali e i nuovi mercati di consumatori esige un apporto ininterrotto e sempre più importante di materie prime. Bisogna trasformare i metalli del suolo in automobili, gli alberi in carta, imballaggi e mobili, il petrolio e il carbone in energia, sfruttare le peschiere per fornire i prodotti a base di pesce e le terre per le colture più redditizie. Queste risorse naturali, spesso non rinnovabili, sono ora sistematicamente depredate. Dal 1900, il consumo mondiale di materie prime (in particolare di minerali, metalli, legno e materie a base di combustibili fossili) è stato così moltiplicato per diciotto7.
L’estrazione dei minerali e dei metalli lascia sull’ambiente naturale un segno sempre più profondo, in particolare producendo un forte inquinamento ed enormi quantità di rifiuti, devastando intere regioni. Lo sfruttamento minerario mette ora a nudo ogni anno una superficie di territorio più importante di quanto non faccia l’erosione provocata dai corsi d’acqua8. L’esaurimento delle riserve di pesce e la deforestazione hanno assunto un’ampiezza devastante: la pesca eccessiva minaccia la maggior parte dei luoghi di pesca commerciale importanti e l’abbattimento degli alberi mette in pericolo più del 70% delle foreste vergini ancora intatte9. Le colture commerciali d’esportazione provocano anch’esse gravi danni ecologici: erosione dei suoli, degradazione delle terre per eccesso di terreni da pascolo, desertificazione, esaurimento delle falde freatiche, inquinamento chimico, perdita di biodiversità e deforestazione.
La globalizzazione economica provoca inevitabilmente questi danni. L’imperativo di esportare è la conseguenza obbligata della soppressione degli ostacoli all’esportazione e all’importazione, della logica del libero scambio fondata sulla specializzazione internazionale e della corsa alle valute per rimborsare i debiti alle banche del Nord. Se questa dinamica dell’esportazione non esistesse, la maggior parte delle risorse naturali sarebbero lungi dall’essere sfruttate a questo ritmo. Nel 1990, tutti i diamanti estratti dal Botswana erano destinati all’esportazione, come il 99% del caffè prodotto in Burundi, il 93% delle banane prodotte dal Costarica, l’83% del cotone coltivato in Burkina, il 71% del tabacco prodotto dal Malawi, la metà degli alberi abbattuti per il loro legname in Malesia e la metà dei pesci pescati dall’Islanda10.
La globalizzazione implica anche questa accelerazione dell’esaurimento delle risorse naturali attraverso la rimozione delle restrizioni un tempo imposte agli investimenti stranieri, che permette ai grandi gruppi di sfruttare queste risorse – o in quanto esportatori di materie prime, o per rispondere ai propri bisogni di produzione – per sviluppare le loro attività. Transnazionali come Exxon-Mobil e Shell nel petrolio, Rio Tinto Zinc e BHP nel settore minerario, Mitsubishi e Boise Cascade nello sfruttamento del legname, Pescanova e Artic-Tyson Foods nella pesca industriale, Vivendi e Suez-Lyonnaise des eaux nella distribuzione dell’acqua, Cargill e Monsanto nell’agroalimentare, operano ora ai quattro angoli del pianeta. In un mondo dove esistono sempre meno ostacoli agli investimenti, ogni impresa che possieda i capitali, la tecnologia e la capacità sufficienti può razziare tanto petrolio, gas naturale, minerali, legname, pesce, acqua e prodotti agricoli quanto ne vuole. Quando da qualche parte le risorse sono completamente esaurite, va altrove. Ne risultano danni ecologici massicci e spesso permanenti.
L’estrazione delle materie prime non è la sola responsabile: spesso anche la loro trasformazione in manufatti è molto inquinante. Essa esige grosse quantità di energia, in gran parte sotto forma di combustibili fossili. Negli Stati Uniti, ad esempio, la trasformazione delle materie prime e l’industria hanno da sole consumato, nel 1994, il 14% dell’energia utilizzata nel paese11. L’industria impiega d’altro canto grandi quantità di prodotti chimici. Aumentando in maniera esponenziale il numero di manufatti esportati nel mondo intero, la produzione mondiale annuale di sostanze chimiche organiche di sintesi si è considerevolmente sviluppata. Da 7 milioni di tonnellate nel 1950, è passata oggi a quasi 1 miliardo12, di qui lo scarico di enormi quantità di rifiuti pericolosi, un’importante diminuzione della biodiversità e un allarmante aumento del numero dei cancri. Così, il rischio di avere un cancro è due volte più grande per un americano di quanto non lo fosse per suo nonno13.
Liberalizzando gli investimenti, la globalizzazione permette alle grandi aziende di sviluppare la produzione industriale nel mondo intero e, di conseguenza, i problemi ecologici creati da queste attività aumentano in proporzione. Abbiamo così assistito ovunque alla generalizzazione dell’uso del computer, dell’automobile, dell’acciaio, della carta, della plastica, allo sviluppo dell’industria chimica e della raffinazione del petrolio che producono tutti quantità importanti di rifiuti pericolosi, con alla fine gravi ripercussioni per la salute pubblica e la biodiversità.
Le attività delle grandi aziende del Nord sono così ecologicamente dannose da essere vietate o pesantemente penalizzate finanziariamente con l’obbligo di disinquinare, ma la liberalizzazione degli investimenti permette loro di proseguirle ovunque nel mondo dove le legislazioni ambientaliste o la loro applicazione sono più lassiste. Non mancano gli esempi di attività pericolose delocalizzate per sfuggire alle rigide e costose norme ecologiche del Nord: produzione di amianto, di tinture a base di benzidina, di CFC distruttori dello strato di ozono, di pesticidi come il DDT, fusione del piombo e del rame, trasformazione di certi minerali14. Si perpetuano così molti gravi problemi ecologici.
L’eliminazione dei rifiuti generati dal crescente volume di prodotti di consumo e di confezioni che inondano i mercati e la generalizzazione del modo di vita occidentale pongono un problema ugualmente delicato. Il crescente ricorso a metodi di smaltimento come l’incinerazione e il sotterramento amplifica l’inquinamento delle acque, le infiltrazioni di mercurio, la produzione di metano (gas dal potente effetto serra) e la liberazione nell’atmosfera di diossine cancerogene. Per arrestare questa marea distruttrice è più urgente che mai rafforzare le regolamentazioni ecologiche. E tuttavia deregolamentare è una delle parole d’ordine della globalizzazione. La dinamica della concorrenza e le nuove regole commerciali dell’economia mondiale, imposte principalmente dal WTO, inducono i governi del mondo intero ad abrogare o ostacolare le misure legislative e fiscali tendenti a proteggere l’ambiente. I vincoli che pesavano sulle attività ecologicamente distruttive sono dunque soppressi nel momento in cui se ne ha più bisogno.

L’IMPATTO DELLA CONCORRENZA MONDIALE

Mentre l’economia e l’attività delle imprese si mondializzano, il governo democratico si esercita sempre nel quadro nazionale. Così, le grandi aziende sfuggono sempre più a ogni controllo e a ogni responsabilità, compromettendo gravemente la possibilità di proteggere l’ambiente come bisognerebbe invece fare.
Nelle battaglie che conducono per opporsi ai progetti di legge e di tasse ambientaliste, gli imprenditori sostengono che se debbono sopportare i costi ecologici, saranno costretti a scaricarli sui prezzi delle merci. Di fronte alla concorrenza di merci il cui prezzo non è stato gravato da tali costi, affermano, la loro società sarà sistematicamente svantaggiata e infine ridotta al fallimento, sopprimendo così preziosi posti di lavoro. Se questa strategia non porta frutti, le aziende ricorrono alla minaccia suprema: usare la loro nuova libertà di movimento per delocalizzarsi verso paesi dove le regolamentazioni ambientaliste o la loro applicazione costano di meno.
I governi, tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli in via di industrializzazione, si sono rivelati molto sensibili agli argomenti e alle minacce di questo genere. Una volta integrati nell’economia mondiale, i paesi si sforzano invariabilmente di attirare gli investitori per creare posti di lavoro, facilitare il trasferimento di nuove tecnologie per migliorare la loro produttività, stimolare la crescita e aumentare il loro prodotto nazionale lordo. La ricchezza e la potenza straordinariamente accresciute delle transnazionali non mancano di intimidire i governi, inclini d’altro canto a lasciarsi comprare. Gli attivi e il volume d’affari della maggior parte delle aziende sono ormai molto superiori al PNL della maggior parte dei paesi del pianeta. Cose si sa, 51 delle 100 più importanti economie del globo (escluse le banche e le istituzioni finanziarie) sono ora delle imprese15.
Le grandi aziende usano la loro nuova potenza e mobilità per esercitare un’influenza politica, in particolare mettendo in concorrenza gli Stati e le regioni per ottenere condizioni di investimento ottimali. Inizia così una corsa mondiale verso il basso. Molte regolamentazioni ambientaliste sono state abolite, o sono rimaste lettera morta, e altre non hanno mai visto la luce, perché le imprese nazionali restino (o abbiano l’impressione di restare) competitive nell’arena economica mondiale e le società straniere siano incitate a investire.
La tendenza a deregolamentare è più forte nei paesi in via di sviluppo. Che vi siano spinti dai piani di aggiustamento strutturale del FMI e della Banca mondiale o che lo facciano su iniziativa del loro governo, l’obiettivo rimane lo stesso: essere abbastanza competitivi per attrarre e trattenere gli investitori stranieri. Questo obbliga paesi come l’India ad ammorbidire o abrogare le loro leggi sull’ambiente. I divieti di impiantare industrie nelle zone ecologicamente sensibili sono stati tolti, e le zone protette, private del loro statuto per accogliere cementifici, miniere di bauxite, allevamenti di gamberetti e hotel di lusso. La regolamentazione in materia di silvicoltura e di sfruttamento minerario è stata edulcorata per dare soddisfazione all’industria della carta e alle compagine minerarie, i controlli sono stati ridotti per le società di pesca transnazionali16.
Un numero crescente di paesi in via di sviluppo vanno ancora oltre nel sacrificio del loro ambiente sull’altare della concorrenza internazionale. Creano centinaia di “zone franche”, generalmente vicino ai principali centri di comunicazione, dove l’applicazione lassista delle legislazioni ambientaliste fa parte del complesso di misure tendenti a creare le condizioni “ideali” per gli investitori stranieri. Intere regioni sono così devastate. Una di queste zone, tristemente nota, si trova in Messico, alla frontiera con gli Stati Uniti, dove sono impiantate più di 3400 fabbriche, le maquilas. Anche in Cina, zone del genere maquiladora si sono moltiplicate nelle regioni del Guandong e del Fujian, dove i salari bassi e la compiacenza delle autorità in materia di applicazione delle regolamentazioni ambientaliste attraggono miliardi di dollari di investimento.
Anche la pressione della concorrenza nell’economia mondo sabota le pratiche ecologiche nei paesi in via di sviluppo. L’agricoltura ne è un buon esempio. Enormi volumi di derrate di base – grano, mais, riso, ecc. – destinate all’esportazione sono prodotti nel Nord in monocoltura, grazie a quantità molto elevate di input chimici e meccanici, all’ingegneria genetica, ad importanti economie di scala e a massicce sovvenzioni. Ora che gli ostacoli all’importazione sono stati soppressi, queste derrate inondano i mercati dei paesi del Sud, dove sono vendute a prezzo più basso dei prodotti dell’agricoltura locale, di piccola scala e deboli input, incapace di sostenere questa concorrenza. Dunque, i sistemi di coltura più ecologicamente durevoli falliscono. Il solo modo di restare in corsa, per gli agricoltori di questi paesi, è di imitare il sistema di coltura dei loro concorrenti dei paesi industrializzati, con alla fine le conseguenze devastanti per l’ambiente che conosciamo. Come ha recentemente detto il ministro dell’Agricoltura messicano, Romarico Arroyo, mentre il 25% del mais importato dal Messico è transgenico, “se noi non ricorriamo all’ingegneria genetica, ci sarà difficile restare concorrenziali”, e pazienza se la biodiversità messicana ne fa le spese17.
La concorrenza nuoce in un’altra maniera alle pratiche ecologiche dei paesi in via di sviluppo, molti dei quali hanno ridotto il loro budget di protezione dell’ambiente, dato che la diminuzione delle spese statali per sgravare il carico fiscale e migliorare la competitività è spesso una condizione necessaria per l’ottenimento di un prestito del FMI o della Banca mondiale. A titolo d’esempio, il budget del ministero dell’Ambiente messicano è stato ridotto, tra il 1986 e il 1989, del 60% in termini reali18, il budget consacrato all’ambiente dal Brasile lo è stato del 66% nel 1998, e i fondi destinati alla protezione della foresta amazzonica sono passati da 61,1 a 6,4 milioni di dollari19.
Alcuni paesi in via di industrializzazione vanno ancora oltre per placare gli dèi della competitività e dell’investimento straniero. Una pubblicità inserita nella rivista Fortune dal governo filippino proclama: “Per attrarre società come la vostra… abbiamo abbattuto montagne, spianato foreste, prosciugato paludi, deviato corsi d’acqua, spostato città… perché sia più facile, a voi e alla vostra impresa, fare affari da noi”20.
Per rivaleggiare nell’economia mondiale con paesi come questi, e ancor di più con gli altri paesi sviluppati, anche le nazioni industrializzate debbono deregolamentare, con gravi conseguenze per gli ambienti naturali. Così, l’amministrazione Reagan ha creato una forza di intervento incaricata della deregolamentazione, diretta da George Bush, allora vicepresidente, che si è adoperata per ammorbidire, ridurre o impedire le protezioni dell’ambiente e della sicurezza dei consumatori e dei lavoratori. Nel 1989, durante la presidenza di George Bush, il Consiglio della competitività del vicepresidente Quayle si è impegnato nello stesso compito, contribuendo attivamente all’urbanizzazione della metà delle zone umide del paese e ad ostacolare le proposte del ministero dell’Ambiente per l’applicazione della legge sulla purezza dell’aria del 1990, presentando più di un centinaio di emendamenti21. Verso la metà degli anni Novanta, un’altra frenesia di deregolamentazione si è impadronita degli Stati Uniti, scatenata stavolta dal Congresso a maggioranza repubblicana guidato da Newt Gingrich, presidente della Camera dei rappresentanti. Almeno in parte, essa è stata causata dalle pressioni esercitate dalle grandi aziende attraverso nuove, potenti armi di cui dispongono nell’economia mondiale.         
Nel 1995, ad esempio, la transnazionale del legno Boise Cascade ha minacciato di delocalizzare in Messico alcune delle sue attività per tentare di abbassare le norme ecologiche degli Stati Uniti. La minaccia era credibile perché, qualche mese prima, essa aveva chiuso delle segherie nell’Oregon e nell’Idaho e spostato la sua produzione in Messico per approfittare di una regolamentazione ambientale lassista e delle nuove “occasioni favorevoli” offerte dall’ALENA. “Il numero di segherie supplementari che saranno chiuse dipende dall’atteggiamento del Congresso”, ha dichiarato all’Idaho Stateman il portavoce di Boise Cascade, Doug Bertels22. Non è certo una coincidenza se, lo stesso anno, il Congresso ha adottato la clausola aggiuntiva al progetto di legge sul recupero del legno per rendere i produttori americani più competitivi aprendo le foreste nazionali all’abbattimento deregolamentato e sovvenzionato.
La necessità per i paesi industrializzati di restare competitivi non determina soltanto l’abrogazione delle regolamentazioni esistenti, ma impedisce anche ai loro governi di tassare sufficientemente le imprese e di destinare questi redditi fiscali alla protezione dell’ambiente. Quando le imposte dirette o indirette aumentano, o le imprese vedono la loro competitività indebolirsi, o approfittano della loro nuova mobilità per delocalizzarsi in paradisi fiscali o paesi a fiscalità più leggera. Nell’uno come nell’altro caso, i redditi dello Stato, che dovrebbe con urgenza investire nelle energie rinnovabili, le economie d’energia, i trasporti pubblici, la rigenerazione delle foreste o delle operazioni di disinquinamento, diminuiscono in maniera importante.



L’IMPATTO DELLE FERREE LEGGI
DELL’ECONOMIA MONDIALE

Se delle misure di protezione dell’ambiente sono sfuggite all’offensiva della deregolamentazione concorrenziale, ora rischiano molto di essere abolite dal WTO e dalle severe regole che si è incaricato di far applicare. Il loro principale oggetto è l’abbattimento delle barriere commerciali. Poiché molte leggi e accordi ambientali nazionali e internazionali costituiscono spesso degli ostacoli al commercio, il WTO ha il potere di calpestarli, ammorbidirli, invalidarli o impedire puramente e semplicemente la loro redazione. In virtù delle sue regole, quando c’è conflitto, il libero scambio ha la priorità su ogni altra considerazione, in particolare quelle legate alla protezione degli ambienti naturali.
Ufficialmente, le regole del commercio mondiale permettono l’adozione e l’applicazione di misure “necessarie alla protezione della salute e della vita delle persone e degli animali o alla preservazione dei vegetali”, e di quelle “che si riferiscono alla conservazione delle risorse naturali esauribili” (articolo XX del GATT). Ma, prima di poter essere applicate, le misure di questo genere debbono superare una serie di ostacoli giuridici eretti da una moltitudine di regole e decisioni commerciali che praticamente tolgono loro ogni effetto.
Così, nessuna misura ambientale è autorizzata se è “applicata in modo da costituire o un mezzo di discriminazione arbitraria o ingiustificata tra i paesi dove esistono le stesse condizioni, o una restrizione mascherata al commercio mondiale” (articolo XX del GATT). In virtù della stessa clausola, le misure tendenti alla preservazione delle risorse naturali non rinnovabili non sono permesse a meno che non “s’accompagnino a restrizioni della produzione o del consumo interno”23. Nessuna misura può in effetti stabilire una discriminazione tra produttori stranieri o tra produttori stranieri e nazionali di un prodotto “simile” (articoli I e III del GATT). Inoltre, nessuna misura ambientale relativa al commercio potrà essere giudicata legittima, salvo provare che è il modo di raggiungere l’obiettivo ambientale o di preservazione cui essa mira al contempo “necessario” e “con meno effetti restrittivi sul commercio” (articolo 2.2 del WTO sugli ostacoli tecnici al commercio)24. Per di più, nessuna norma in materia di sicurezza alimentare, biotecnologia, o pesticidi (o concernente in generale gli animali e i vegetali) che danneggi il commercio è permessa, a meno che la giustificazione scientifica di queste norme fondata sulla valutazione dei rischi non sia stata oggetto di un consenso (come specificano diversi articoli dell’accordo del WTO sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie).
Tutte queste condizioni estremamente restrittive lasciano un enorme margine interpretativo, margine il cui pieno uso nel senso del primato del libero scambio su ogni considerazione ecologica è garantito dalla parzialità del processo di definizione delle controversie del WTO (cfr. il contributo di Lori Wallach).
In tutte le questioni sottoposte ai tribunali del WTO, le regole dell’organizzazione che limitano la capacità dei governi di applicare politiche suscettibili di ostacolare, anche indirettamente, il commercio sono state interpretate nel senso più largo possibile. Per contro, è stata data un’interpretazione estremamente stretta alle disposizioni che prevedono eccezioni di ordine ecologico al libero scambio. Ecco perché tutte le misure ambientali sulle quali il WTO – e prima il GATT – ha finora deliberato sono state invalidate. Questo spiega ugualmente perché la semplice minaccia o possibilità di un’azione del WTO è bastata a convincere numerosi paesi ad emendare le loro leggi di propria iniziativa per renderle conformi alle sue regole. A causa di questo effetto paralizzante, innumerevoli misure, esistenti o progettate, essenziali alla protezione dell’ambiente, sono minacciate o non sono nemmeno esaminate dai governi.
È il caso di quelle che si applicano al controllo delle esportazioni, uno strumento efficace di preservazione e protezione di risorse naturali essenziali e rare, come le foreste, i pesci e l’acqua. Quando degli Stati hanno proibito l’esportazione di materie prime per preservare e favorire l’occupazione locale, come ha fatto il Canada con il legname e il pesce, l’effetto sul ritmo di sfruttamento di queste risorse è stato immediato ed evidente25. Le regole del GATT-WTO rendono tuttavia illegali tali politiche, e le decisioni dei suoi tribunali lo hanno confermato.
Le regole del GATT e del WTO impediscono ugualmente l’adozione di controlli effettivi delle importazioni, con gravi conseguenze sulle legislazioni ambientali. Le quote o divieti di importazione sono proibiti, come ogni discriminazione, in particolare mediante politiche tariffarie, tra produttori stranieri e tra produttori stranieri e nazionali di un prodotto “simile”. In altri termini, non può essere fatta alcuna distinzione tra prodotti di aspetto simile, anche se i loro metodi di produzione o fabbricazione differiscono. Proibire la possibilità di stabilire una discriminazione contro beni prodotti in modo pregiudizievole per l’ambiente equivale a escludere un modo essenziale per pervenire alla praticabilità ecologica.
Ci troviamo dunque di fronte a una situazione nella quale la protezione dell’ambiente è sempre perdente. Se un paese autorizza l’accesso ai suoi mercati interni solo ai prodotti conformi alle norme ecologiche di produzione nazionali, il WTO può considerare un tale comportamento un’infrazione delle regole del GATT e interdirlo. Per contro, se permette l’importazione di prodotti non conformi alle sue norme ecologiche di produzione, queste saranno con ogni evidenza erose e i produttori nazionali che le rispettano (e le cui merci costano, per conseguenza, più care) sfavoriti e forse costretti a cessare la loro attività.
Nelle questioni del tonno e dei gamberetti, le leggi in gioco partecipavano di un tentativo di raggiungere gli obiettivi definiti dagli accordi multilaterali sull’ambiente (AMA), tendenti a proteggere specie in vie di estinzione, come la CITES (Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate d’estinzione). Ogni decisione (e la logica che la sottende) ha dunque gravi implicazioni per gli AMA. La maggior parte di questi accordi prevedono la messa in opera di mezzi per costringere altri paesi a modificare le loro politiche e le loro pratiche. O stabiliscono una discriminazione contro prodotti “simili” in funzione del loro modo di produzione o della loro provenienza, o limitano le importazioni o le esportazioni. In virtù delle regole del GATT e del WTO, la maggioranza di questi AMA può dunque essere attaccata.
Come spiega Steven Shrybman, direttore della West Coast Environmental Law Foundation, degli AMA come la CITES, il protocollo di Montreal e la convenzione di Basilea infrangono le regole del GATT che proibiscono le misure di limitazione quantitativa degli scambi, poiché questi accordi cercano rispettivamente di controllare o interdire il commercio delle specie in via d’estinzione, dei prodotti chimici che distruggono lo strato di ozono e dei rifiuti pericolosi. Permettendo l’applicazione di regole differenti ai produttori stranieri e nazionali, questi AMA non rispettano nemmeno l’esigenza di “trattamento nazionale” imposta dal GATT. Così, la convenzione di Basilea e la CITES tendono a limitare il commercio internazionale dei rifiuti e delle specie minacciate d’estinzione, ma non cercano di regolamentare il commercio e il consumo interni. Inoltre, la CITES e il protocollo di Montreal infrangono le regole del GATT anche stabilendo una discriminazione tra prodotti “simili” a seconda che provengano o no da un paese dove una specie è minacciata, per la prima, o da un paese firmatario dell’insieme del protocollo, nel secondo caso26.
Secondo il World Wide Find (WWF), almeno altri sette AMA, tra cui la convenzione delle Nazioni unite sul cambiamento climatico e il protocollo di Kyoto, contravvengono alle regole del GATT e del WTO e sono dunque in pericolo27. La minaccia è tanto più seria in quanto una proposta dell’Unione europea destinata a dare agli AMA la precedenza sulle regole del WTO è stata rigettata dal comitato del commercio e dell’ambiente di quest’ultimo.
Le sole misure che il WTO si affretta a riconoscere sono le misure internazionali definite dagli industriali che possono servire ad abrogare o abbassare le norme ecologiche nazionali. È a questa armonizzazione dal basso delle norme ambientali e alimentari che tendono due accordi del WTO, uno sugli ostacoli tecnici al commercio (TBT), l’altro sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS).
In virtù dell’accordo sui TBT, le leggi ambientali nazionali sono considerate come “ostacoli tecnici al commercio” (o anche “barriere non tariffarie”) e debbono essere sostituite da norme internazionali, quando ne esistono. Invece di armonizzare dall’alto e di migliorare ovunque la protezione dell’ambiente, ne risulta generalmente un abbassamento delle norme, poiché la ricerca di un consenso tra i governi, sottoposti alle forti pressioni dell’industria, sfocia spesso nell’adozione del minimo comun denominatore. Peggio, in virtù dell’accordo sui TBT, queste norme costituiscono un limite massimo e non un minimo. Benché questo accordo non abbia ancora veramente fondato le decisioni di un panel del WTO, le sue clausole sono fin d’ora servite a erodere o a minacciare un certo numero di regolamentazioni di ispirazione ecologica (cfr. il contributo di Lori Wallach).
L’accordo sulle SPS – che regge la creazione delle norme in materia di sicurezza alimentare, di biotecnologia, di pesticidi e, in generale, delle norme legate alla vita animale e vegetale – impone condizioni ancora più severe ai governi che cercano di mantenere o instaurare norme nazionali superiori alle norme internazionali minimaliste dettate dall’industria e riconosciute dal WTO. I governi debbono infatti dimostrare che è stato raggiunto un consenso internazionale, giustificando scientificamente, dopo una valutazione dei rischi, l’adozione di queste norme più rigide. L’assenza di un tale consenso prova che la protezione non è giustificata e che dunque rappresenta un ostacolo illegale al commercio. Questa regola è in contraddizione con il principio di precauzione, secondo il quale è meglio intraprendere un’azione senza attendere la sua giustificazione scientifica. Occorrono infatti anni per costituire le prove e un consenso scientifico, ammesso che un giorno vi si pervenga.
Le prospettive future della protezione dell’ambiente su scala nazionale saranno ancora più buie se, come è stato proposto, nel corso del prossimo ciclo di negoziazioni commerciali, il WTO adotterà le misure relative agli investimenti che figuravano nell’AMI (Accordo multilaterale sull’investimento), ostacolato all’OCSE nel 1998. Così, in virtù delle regole tipo AMI, le regolamentazioni di un paese che impediscono alle aziende con cattivi voti in materia di ambiente di investire sul loro territorio potrebbero essere proibite. Le leggi che esigono il rispetto di certe condizioni ambientali, in particolare l’obbligo di trasferire tecnologie ecologicamente sane, potrebbero essere vietate. Le aziende straniere avrebbero allora la possibilità di denunciare uno Stato per ottenere una compensazione se ritengono che la sua politica, compresa la sua legislazione in materia di ambiente e sanità pubblica, ipoteca o riduce i loro futuri profitti.
L’applicazione di regole identiche in virtù dell’ALENA ci dà la misura delle devastanti conseguenze che prescrizioni di questo genere avrebbero sulle regolamentazioni ambientali regionali, nazionali e locali. una lite recente e scandalosa ne fornisce un buon esempio. Nel 1996, il governo canadese emanava una legge che proibiva l’importazione e il trasporto di MMT, una neurotossina utilizzata come additivo del carburante che danneggia il sistema antinquinamento dei veicoli e dunque amplifica le emissioni di gas nocivi come gli idrocarburi, il monossido e il diossido di carbonio. Non appena la legge fu promulgata, il solo fabbricante di MMT dell’America del Nord, la multinazionale Ethyl Corporation, ha chiesto allo Stato canadese 350 milioni di dollari di danni, sostenendo che la legge canadese infrangeva le regole del trattamento nazionale dell’ALENA e costituiva una “espropriazione” dei suoi investimenti in Canada. Essa è arrivata persino ad affermare che, discutendo del progetto di legge, il governo canadese aveva nuociuto alla sua reputazione internazionale, ipotecando quindi una parte dei suoi profitti futuri. Il governo canadese partiva perdente, avvertirono i giuristi. La legislazione fu dunque abrogata ed Ethyl ricevette milioni di dollari e di scuse a titolo di compensazione.
Questa decisione costituisce un terribile precedente. Afferma Steven Shrybman: “Secondo gli avvocati, le questioni di questo genere si moltiplicheranno, usando i loro clienti sempre più frequentemente diritti loro conferiti da questi trattati sull’investimento per ‘incalzare’ i governi che pensano di instaurare regolamentazioni cui le imprese si oppongono”28.
La logica che sottende tali regole è suicida. Se la loro adozione da parte del WTO non sarà puramente e semplicemente rigettata, e se le sue regole attuali non saranno modificate, la lista delle essenziali  legislazioni ambientali sacrificate in nome del libero scambio si allungherà ancora, castrando ulteriormente la democrazia e togliendo ovunque la possibilità di combattere con efficacia la crisi ecologica e sociale del nostro tempo.
Il passaggio dell’attività economica dal locale e dal “piccolo” al mondiale e al “grande” è al centro del problema. Si parla spesso a questo proposito di delocalizzazione: lo sradicamento e lo spostamento di attività, restate locali fino ad epoca recente, per integrarle a reti di grande portata o mondiali29. Questa trasformazione finisce per sfociare nella violazione delle regole di base della praticabilità ecologica e della sana economia.
Semplicemente, l’economia non può svilupparsi all’infinito se gli ecosistemi da cui dipende continuano a degradarsi. Se tenterà di farlo, il pianeta diventerà inabitabile. Secondo i termini stessi del rapporto dell’ONU per l’anno Duemila intitolato Global Environmental Outlook, “il presente corso delle cose non può durare e noi non possiamo differire l’azione”30. Più persevereremo nella via attuale, più ci sarà difficile fare marcia indietro: in altri termini, dobbiamo agire subito.
Questo significa cambiare rotta. La praticabilità ecologica richiede la responsabilità economica, che è più efficacemente garantita su scala locale. Così, quando una fabbrica provoca dei danni, ci sono più possibilità che il suo proprietario e la comunità locale reagiscano prontamente. Il contatto è diretto e gli abitanti della zona hanno il potere di costringere l’industriale a rimediare rapidamente al problema.

NOTE

1.    World Investment Report 1994, UNCTAD, Ginevra 1994.
2.    World Investment Report 1996, UNCTAD, Ginevra 1996.
3.    World Investment Report 1998, Ginevra 1998.
4.    World Economic Outlook October 1997, FMI, Washington DC 1997. Cfr. anche Financial Statistics Yearbook, FMI, novembre 1997, e International Financial Statistics, FMI, gennaio 1998.
5.    Citato da L. Brown e C. Flavin in “A New Economy for a New Century”, State of the World 1999, Worldwatch, Washington DC, p. 6.
6.    D. Matthews e A. Rowell, The Environmental Impact of the Car, Greenpeace, Washington DC 1992, p. 6.
7.    Tutte queste cifre sono citate da G. Gardner e P. Sampat in “Forging a Sustainable Materials Economy”, State of the World 1999, Worldwatch, Washington DC, pp. 43-49.
8.    Ibidem.
9.    D. Bryant, D. Nielsen e L. Tangley, The Last Frontier Forests, World Ressources Institute, Washington DC 1997.
10.    Citato da H. French in Costly Tradeoffs, Reconciling Trade and the Environment, Washington DC, marzo 1993, p. 12.
11.    Citato da G. Gardner e P. Sampat, State of the World 1999, op. cit., p. 48.
12.    Citato da J. Karliner in The Corporate Planet, Ecology and Politics in the Age of Globalisation, Sierra Club Books, San Francisco 1997, p. 16.
13.    D.L. Davis e al., “Decreasing Cardiovascular Diseaseand Increasing Cancer Among Whites in the United States from 1973 through 1987”, Journal of the American Medical Association, vol. 271, n° 6, 9 febbraio 1994. Citato in Rachel’s Hazardous Waste News, Environmental Research Foundation, n° 385, 14 aprile 1994.
14.    H.J. Leonard, Pollution and the Struggle for the World Product, Cambridge University Press, Cambridge 1988.
15.    Le tre statistiche sono citate da J. Karliner, The Corporate Planet, op. cit., p. 5.
16.    Ibidem, p. 146.
17.    Romarico Arroyo, citato in H. Tricks e A. Mandel-Campbell, “Mexico’s Farming Habits Under Pressure From Transgenics”, Financial Times, 12 ottobre 1999.
18.    Citato da W. Bello in quest’opera.
19.    Fonte: Steven Schwartzman, Environmental Defense Fund, Washington DC.
20.    Citato da D.C. Korten in When Corporations Rule the World, Earthscan, Londra 1995, p. 159.  
21.    Secondo il comitato di sorveglianza del Congresso di Public Citizen.
22.    Citato da J. Karliner, The Corporate Planet, op. cit., p. 154.
23.    Citato da S. Shrybman in A Citizen’s Guide to the World Trade Organisation, The Canadian Center for Policy Alternatives e James Lorimer and Co., Ottawa e Toronto 1999, p. 60.
24.    Ibidem, p. 82.
25.    Ibidem, p. 60.
26.    S. Shrybman, A Citizen’s Guide, op. cit., pp. 20-21.
27.    WWF, “Environmental Agreements at Risk”, comunicato stampa, 4 ottobre 1999.
28.    S. Shrybman, A Citizen’s Guide, op. cit., p. 134.
29.    J. Gray, False Dawn: The Delusions og Global Capitalism, Granta Books, Londra 1998, p. 57, e A. Giddens, The Consequences of Modernity, Polity Press, cambridge 1990, p. 64.
30.    Global Environment Outlook 2000, UNEP, Nairobi 1999.