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Bahrain, la frusta reale

di Michele Paris - 16/03/2011



Nella giornata di lunedì, circa duemila soldati dell’esercito saudita e degli Emirati Arabi hanno attraversato i confini della piccola monarchia affacciata sul Golfo Persico. Quella che in molti già definiscono come una vera e propria invasione militare del Bahrain, giunge con la benedizione dei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), decisi a tutto pur di porre fine alle proteste che da settimane minacciano l’esistenza stessa della monarchia regnante e rischiano di diffondersi a macchia d’olio in un’area strategicamente fondamentale negli equilibri dell’intera regione mediorientale.

Quegli stessi paesi del GCC (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar e lo stesso Bahrain) che hanno dato il via libera all’invio di forze armate in Bahrain per reprimere le manifestazioni democratiche, curiosamente fanno tutti parte anche della Lega Araba, che lo scorso 13 marzo ha appoggiato formalmente l’imposizione di una “no-fly zone” sulla Libia per fermare i massacri compiuti dagli uomini fedeli a Gheddafi.

Le agitazioni in Bahrain erano scaturite a metà febbraio in seguito alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto e si sono da allora concentrate nella capitale, Manama. Mentre le richieste iniziali dei manifestanti si erano limitate a qualche concessione democratica, il pugno di ferro del regime sunnita, in un paese a maggioranza sciita, ha finito con il radicalizzare la protesta. Dopo i sette morti e le centinaia di feriti causati dall’intervento delle forze di sicurezza durante i primi scontri, l’opposizione ha iniziato così a chiedere la dissoluzione della monarchia del sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa.

Proprio mentre a Manama il Segretario alla Difesa americano, Robert Gates, avvertiva il re del Bahrain della necessità di riformare il proprio regime, venerdì scorso i dimostranti mettevano in scena la protesta più imponente dall’inizio della rivolta. Dal centro nevralgico delle proteste, Pearl Square, i manifestanti sono infatti giunti fino ai cancelli del Palazzo Reale, prima di essere accolti con proiettili di gomma, gas lacrimogeni e dalle cariche dei sostenitori della monarchia armati di spade e bastoni.

L’intervento militare saudita e degli altri paesi del Golfo è stato richiesto dallo stesso monarca del Bahrain e la coincidenza di questa decisione con la visita del numero uno del Pentagono rende estremamente probabile un qualche coordinamento con Washington. Gli Stati Uniti, d’altra parte, considerano il piccolo Bahrain un alleato essenziale nella regione. Qui si trova infatti il quartier generale della Quinta Flotta della marina americana, di vitale importanza per il controllo del Golfo Persico, ma anche del resto del Medio Oriente e della costa africana orientale.

Secondo un ufficiale saudita citato dalla stampa americana, l’invio di militari lungo l’arteria stradale che collega l’Arabia al Bahrain sarebbe solo la prima fase di un’operazione dai tratti ancora da definire. I militari stranieri sarebbero stati incaricati ufficialmente di sorvegliare i siti petroliferi e le istituzioni finanziarie del paese, anche se il governo del Bahrain ha dichiarato apertamente di aver richiesto l’intervento per aiutare le forze di sicurezza locali a ristabilire l’ordine. Fonti saudite e del GCC hanno assicurato che i loro soldati non verranno in contatto con i dimostranti, i quali peraltro hanno finora dato vita a manifestazioni del tutto pacifiche.

I legami tra la casa regnante del Bahrain e quella dell’Arabia Saudita sono molto profondi e Riyadh rappresenta, assieme agli Stati Uniti, uno dei pilastri della stabilità della monarchia al-Khalifa che guida il paese del Golfo Persico da oltre due secoli. Già nel 1994 i militari sauditi entrarono nel Bahrain per soffocare una serie di proteste che erano scoppiate contro il regime autocratico. L’insofferenza diffusa da tempo nel Bahrain deriva dalla puntuale discriminazione messa in atto dalle élite che detengono il potere nei confronti della maggioranza sciita della popolazione, in gran parte tagliata fuori dalla distribuzione delle ricchezze di un paese che esporta quantità ingenti di petrolio e gas naturale.

Se a scatenare la rivolta è stata proprio la condizione degli sciiti, l’atteggiamento dei manifestanti nel corso di queste settimane in Bahrain non ha tuttavia avuto un carattere settario, come ha cercato invece di far credere la propaganda del regime. Come altrove in Medio Oriente e in Africa settentrionale, gli obiettivi delle proteste sono piuttosto il rovesciamento del regime, l’istituzione di un governo democratico, maggiore giustizia sociale e pari opportunità per tutti i cittadini a prescindere dall’appartenenza settaria.

L’Arabia Saudita e gli altri membri del GCC hanno infine deciso di intervenire in Bahrain per il timore che la caduta della monarchia al-Khalifa possa ispirare movimenti di opposizione più consistenti anche all’interno dei loro confini. Oman, Kuwait e la stessa Arabia Saudita, ad esempio, hanno già dovuto fare i conti con sporadiche manifestazioni in queste settimane, tutte duramente represse. Un successo politico per gli sciiti in Bahrain, inoltre, potrebbe dare ulteriore coraggio alla minoranza sciita che vive entro i confini sauditi e che è concentrata nelle province orientali dove si trovano i principali giacimenti petroliferi.

Per i vicini del Golfo, anche un accordo pacifico tra il regime di Hamad bin Isa al-Khalifa e le opposizioni a maggioranza sciita - sostenuto a livello ufficiale da Washington - rappresenta un rischio che potrebbe, da un lato, alimentare le tensioni interne e, dall’altro, andare a tutto favore dell’Iran. Proprio da Teheran, che considera il Bahrain parte del proprio territorio, è giunta infatti la reazione più dura all’intervento militare saudita. Il Ministero degli Esteri iraniano, in una nota ufficiale, ha parlato apertamente di “invasione” e ha definito la presenza di forze straniere in Bahrain “inaccettabile”; una mossa insomma che rischia di “complicare ulteriormente la situazione” del vicino meridionale. In seguito a queste dichiarazioni, il Bahrain ha immediatamente richiamato il proprio ambasciatore a Teheran.

L’iniziativa saudita riaccende pericolosamente le profonde rivalità tra Riyadh e le monarchie sunnite da una parte e la Repubblica Islamica dall’altra. Come ampiamente testimoniato dai cablo diffusi recentemente da Wikileaks, la monarchia saudita e i suoi vicini sunniti esercitano da tempo pressioni sugli Stati Uniti per contenere anche con la forza le ambizioni regionali dell’Iran con il pretesto di frenarne il discusso programma nucleare. L’evoluzione delle rivolte nel mondo arabo in questo 2011 ha inoltre beneficiato notevolmente proprio l’Iran, danneggiando un’Arabia Saudita - già penalizzata dalla caduta del governo filo-saudita di Saad Hairi in Libano per mano di Hezbollah - che ha visto sparire un importante alleato come Hosni Mubarak in Egitto.

Sulla posizione interventista saudita sono sembrati convergere dunque anche gli Stati Uniti, come conferma la già ricordata visita di Gates in Bahrain. Un atteggiamento quello di Washington che contrasta con gli appelli alla moderazione e per la ricerca di una soluzione concordata, così da riformare il regime in senso democratico, lanciati più volte da vari esponenti dell’amministrazione Obama.

L’importanza strategica di un Bahrain - e, di conseguenza, di un’Arabia Saudita - fermamente nella sfera statunitense è d’altra parte testimoniata anche dal differente approccio di Washington ai movimenti di protesta esplosi a febbraio. Mentre in Tunisia, Egitto e Libia gli USA hanno più o meno rapidamente preso le parti dei manifestanti scesi in piazza, in Bahrain si continua a puntare sulla famiglia regnante, sostenendo al massimo la necessità di concedere qualche modifica tutt’altro che sostanziale alla struttura del regime.

Il panico diffuso a Riyadh e a Washington, che ha portato ad un’invasione militare del Bahrain, sia pure su richiesta della monarchia regnante, rischia tuttavia di rendere ancora più difficili i negoziati per una possibile soluzione pacifica della crisi. Di fronte alla presenza di forze armate straniere, le opposizioni hanno infatti subito reagito con nuove proteste che hanno spinto il regime a dichiarare lo stato di emergenza e l’imposizione di fatto della legge marziale. In questo scenario, il rischio concreto è che si giunga ad un bagno di sangue e che le rivalità regionali in gioco nel piccolo paese del Golfo Persico sfocino in un conflitto di ben più ampie proporzioni.