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L'Italia unita dalla pluralità

di Marzio Breda - 16/03/2011



«Corriamo verso l' Europa senza essere sicuri di portarci dietro il corpo della Nazione, se non altro perché qualcuno continua a dubitare che una Nazione ci sia». Questa vecchia diagnosi dello scrittore Giorgio Calcagno, nella quale all' euforia per il processo di costruzione europea si sovrapponeva lo sconcerto per le prime spinte divisive interne, risuona perfetta anche adesso, vigilia del 150° anniversario dell' Unità d' Italia. Infatti, mentre le librerie sono invase da volumi messi in cantiere per l' occasione - molti di ottimo livello, tra alcuni di taglio stucchevolmente retorico o deliberatamente polemico - ci accorgiamo di «non saper che cosa celebrare». Di più: nonostante le amorevoli cure di Ciampi e Napolitano per prepararci al Giubileo laico, larghi settori della società si dichiarano estranei a ogni sentimento di appartenenza a una patria comune e non vogliono festeggiare. Dimostrandosi prigionieri di memorie contrapposte. Ciascuno ostaggio della propria, sempre pronti a recriminare sulle ragioni del nostro stare insieme. Eppure quest' identità plurale e contraddittoria, in cui tutto sembra tenersi sempre meno, forma in fondo la vera identità del Paese. Per quanto ci sembri difficile, o addirittura insopportabile, con essa dobbiamo fare i conti. A costo di andare una volta per tutte alle radici del nostro eterno deficit di autostima, in quanto italiani, che si è sedimentato su conflitti irrisolti, discontinuità sterilizzate, equivoci storici, debolezze e ipocrisie che fanno vacillare il patto che ci lega e ci condannano a essere una «Nazione difficile». Oggi un buon baedeker per questo tipo di esplorazione c' è, ed è il libro L' Italia disunita (Longanesi, pagine 190, 15), svolto in una forma che un po' ricorda una disputatio medievale. È un dialogo fra l' ex ambasciatore e saggista Sergio Romano e lo studioso francese forse più esperto di politica italiana, Marc Lazar. I quali duellano incalzati da Michele Canonica, giornalista e presidente del comitato di Parigi della Società Dante Alighieri. Una densa e problematica riflessione a tre voci che, nel rievocare certi «vizi d' origine» del percorso avviato il 17 marzo 1861, va oltre l' ortodossia e certifica tra l' altro - lo fa Romano - «un tasso di casualità molto elevato nella dinamica storica del Risorgimento», pur riconoscendo a Cavour («nel cui disegno strategico comunque il Sud non c' era») una particolare «intelligenza e abilità». E che, quando analizza come il Paese cominciò il suo «ingresso nella modernità», alza il velo su risvolti della vita italiana fuori dalle semplificazioni spesso interessate delle statistiche (a proposito di economia, politica, religione, cultura, informazione, giustizia, ecc.), fornendoci utili chiavi di lettura per comprendere le schizofrenie del presente. Comprese la transizione politica incompiuta che si trascina dai tempi di Tangentopoli, e le spinte centrifughe che dalle Alpi leghiste si stanno ormai spostando alla Sicilia, irrigate da rimpianti e malintesi. L' ultima testimonianza ci viene dal rilancio della tesi vittimistica di un Nord «colonialista e senza soldi che sfrutta le ricchezze del Sud». Proprio qui emerge uno degli snodi centrali del libro. Non a caso, se è vero che «l' unità può funzionare solo quando è in grado di dare qualcosa a tutti» - e lo spiega Romano - l' irrisolta questione meridionale, con quattro regioni sottratte al controllo dello Stato, si pone come la questione numero uno. Ora, poiché «la globalizzazione tende a estremizzare la ricerca delle radici locali» (effetto segnalato da Lazar e affiorato pure in Belgio, Spagna, Gran Bretagna) e poiché in Europa «gli Stati-Nazione sono lacerati fra due pressioni contraddittorie» (quella, dall' alto, di Bruxelles e quella, dal basso, delle realtà locali), il futuro di un Paese che si scopre disunito come l' Italia si gioca sulla capacità di elaborare, insieme a concrete risposte alle differenti criticità, un nuovo «racconto nazionale». Racconto che, però, per risultare veridico ed essere accettato da tutti, deve superare le comode amnesie in cui ci siamo finora rifugiati. Ecco quindi che, ad esempio, «non è più concepibile una storia secondo la quale il fascismo irromperebbe come un male assoluto nel corpo sano della Nazione» (Romano). Perché, non studiare o negare, rimuovendolo, il consenso di cui il regime ha goduto significa lasciare intatto un buco nero di questi 150 anni. Lo stesso vale per le altre guerre civili (Lazar, evocando le cosiddette guerre franco-francesi, le chiama «italo-italiane») che abbiamo vissuto. Come il terrorismo, che fu un conflitto a bassa intensità ma destinato a lasciare ferite profonde, nel quale risultarono coinvolte fasce importanti del Paese. In ogni caso, tra grandi prove e grandi slogature, tra fasi di passione e di disincanto, l' Italia è arrivata a questo appuntamento con un vuoto culturale da colmare. Serve «una storia basata sul criterio della continuità, nella quale vi sia posto per tutti... senza corpi e momenti estranei su cui si abbattono i fulmini della ricusazione e dell' odio». Insomma, sintetizza Sergio Romano, «il problema è e resta Mussolini... bisogna anatomizzarlo... spiegarlo come figlio dei suoi padri e nipote dei suoi nonni, ma anche come padre e nonno dei suoi figli e dei suoi nipoti, cioè di una parte di italiani che - se vogliamo costruire una vera Nazione - non possiamo considerare come bastardi privi di ogni ascendenza».