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La “Rerum Novarum” di Leone XIII, punto nodale della dottrina sociale cattolica

di Francesco Lamendola - 16/03/2011

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A FILIPPO E FEDERICO, DUE FEDELI E SIMPATICI LETTORI.

La “Rerum Novarum”, promulgata da papa Leone XIII il 15 maggio 1891, è considerata dagli storici la “Magna Charta” della dottrina sociale cristiana e, come tale, merita una speciale attenzione da parte di chiunque - cattolico o no, credente o non credente - voglia capire qualcosa della storia mondiale degli ultimi centocinquanta anni; anche se, fino al 1968 e dintorni, era di modo leggere e discutere solo il «Manifesto del Partito comunista» di Marx ed Engels, le opere di Lenin e Stalin, il «Libretto Rosso» di Mao Tze-Tung e gli scritti di Ho-Chi-Min, i discorsi di Fidel Castro e i diari di Ernesto “Che” Guevara.
Essa giunse in forma relativamente tempestiva rispetto alla situazione sociale italiana, ove il processo di industrializzazione, e la conseguenza insorgenza della questione operaia, erano stati fenomeni recenti, ma non certo rispetto alla situazione di altri Paesi cattolici, quali la Francia e il Belgio, o parzialmente cattolici, quali la Germania o gli Stati Uniti, ove esisteva da decenni una moderna classe operaia e nei quali già si erano mossi alcuni esponenti del mondo cattolico, sia laici che sacerdoti, per dare vita a forme di associazionismo non solo di tipo morale e religioso, ma altresì culturale, economico e sociale.
Ciò aveva significato, per i cattolici, confrontarsi con la realtà viva del mondo moderno: quel mondo moderno che il «Sillabo» di papa Pio IX (pubblicato in appendice all’enciclica «Quanta cura» del 1864), aveva accomunato in un’unica condanna, dal liberalismo al socialismo, al comunismo, senza sfumature e senza distinzioni; e, soprattutto, senza troppo soffermarsi a riflettere sulle radici sociali del malessere che aveva allontanato tante persone dagli insegnamenti della Chiesa e dalle pratiche della religione cristiana-cattolica.
Certo, in Italia i rapporti fra Stato e Chiesa erano particolarmente delicati perché, dopo la presa di Roma nel 1870 da parte del’esercito italiano, Pio IX si era chiuso in uno sdegnoso isolamento, atteggiandosi quasi a prigioniero o piuttosto ad ostaggio del nuovo Stato nazionale, del quale non riconosceva la legittimità e contro il quale aveva preso posizione, fin dal 1868, con un documento della Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari, il famoso «Non expedit» («Non conviene»), nel quale si esortavano i fedeli a non partecipare alle elezioni politiche del Regno sabaudo e, per estensione, a non partecipare alla vita politica nazionale.
Il fatto che tale documento preceda la breccia di Porta Pia si spiega col fatto che, se la presa a viva forza della capitale, da parte del governo Cavour, era stata l’evento traumatico definitivo nelle relazioni fra Chiesa e Stato, esisteva però da decenni, almeno fin dalle Leggi Siccardi, votate dal Parlamento di Torino nel 1850 (nell’allora Regno di Sardegna), un contenzioso che, da un lato, si può considerare come la prosecuzione dei conflitti giurisdizionali del XVIII secolo, caratteristici della politica europea e anche di quella italiana - specialmente veneziana, ove avevano una tradizione antica di almeno un secolo - ma, dall’altro, presentavano caratteri di novità, essendo la classe dirigente piemontese prima, e quella italiana poi, orientate compattamente in senso liberale, massonico ed anticlericale.
Tale orientamento aveva fatto sì che, mentre il Parlamento piemontese, e poi quello italiano, decidevano la soppressione di numerosi ordini religiosi e la chiusura di chiese e conventi, i cattolici si erano sentiti esclusi dal movimento risorgimentale o lo avevano vissuto, addirittura, come diretto contro la Chiesa e contro i loro più intimi sentimenti; tanto che, per reazione, molti “briganti” dell’Italia meridionale, dopo il 1860, avevano trovato sostegno ed appoggi proprio nella Chiesa e presso la Curia papale, non aliena da progetti di restaurazione borbonica, magari con l’appoggio del più forte Stato cattolico europeo di orientamento clericale, l’Impero d’Austria.
Nell’altro grande Paese cattolico d’Europa, la Francia, invece, la ventata del secolarismo si era già abbattuta a rescindere il secolare patto di collaborazione fra le classi dirigenti e la Chiesa cattolica; e ciò non solo per effetto della “ferita” inferta dalla Rivoluzione francese e dalla politica della scristianizzazione, o dall’azione di forza di Napoleone contro il papato (con l’arresto e la detenzione di papa Pio VII, che l’aveva invano scomunicato), ma anche quale esito naturale di tutta una vittoriosa politica di autonomia dello Stato nei confronti della Chiesa, clamorosamente incominciata da Filippo IV il Bello all’epoca di Bonifacio VIII (culminata nel famoso “oltraggio” di Anagni) e proseguita dai suoi successori, fino a Enrico IV e Luigi XIV, che avevano apertamente favorito le tendenze “gallicane”, ossia autonomistiche, della Chiesa cattolica francese nei confronti della Curia romana.
Tutti questi fattori devono essere tenuti presenti allorché papa Leone XIII, all’inizio dell’ultimo decennio dell’Ottocento, decise di porre mano ad un documento solenne e impegnativo, nel quale prendere posizione circa la questione operaia, determinatasi in Europa e nel mondo in seguito alla nascita tumultuosa e drammatica di una nuova classe sociale, il proletariato industriale, emerso dalla crisi, dalla progressiva dissoluzione e dall’inurbamento di quella che era stata la cellula sociale più fedelmente ancorata alla tradizione morale e culturale cattolica: la famiglia patriarcale rurale dell’Ancien Régime.
L’enciclica «Rerum Novarum» è costituita da una introduzione, due parti e una conclusione; il tutto suddiviso in quarantacinque paragrafi.
Nell’introduzione (primi due paragrafi) si espone il motivo che ha dato origine all’enciclica papale, ossia la questione operaia.
Si afferma che la situazione è sfuggita di mano un po’ a tutti, a causa del rapidissimo diffondersi dell’industrializzazione e della concentrazione della ricchezza in poche mani, che ha determinato la povertà di gradi masse umane.
Si dice inoltre che, venute meno le antiche arti e corporazioni di mestiere, nulla è stato creato al loro posto e gi operai si sono trovati esposti, soli e indifesi, ad una situazione di grave sfruttamento, nella sostanziale indifferenza delle autorità e nel silenzio delle leggi, tanto più che anche queste ultime si sono sempre più allontanate dallo spirito cristiano.
Nella prima parte, intitolata: «Socialismo, falso rimedio» (paragrafi dal terzo al dodicesimo), si afferma che la soluzione socialista è inaccettabile e controproducente per gli stessi operai, che pure pretende di emancipare, dal momento che nega i diritti legittimi dei proprietari e scompiglia tutto l’ordine della società, sostituendo un antagonismo senza fine ad ogni idea e pratica di proficua collaborazione tra industriali e prestatori d’opera.
Inoltre si fa notare che il fine cui tende l’artigiano è la proprietà privata, per cui la negazione di essa va nella direzione contraria alle aspirazioni naturali dei lavoratori medesimi.
Per concludere, si ribadisce che la proprietà privata è un diritto di natura e, come tale, che essa è sancita tanto dalle leggi umane, quanto dalle leggi divine; e che il mantenimento della propria famiglia spinge gli uomini a soddisfare, nella maniera che ritengono più consona, le necessità economiche di cui essa ha bisogno, anche mediante la libera iniziativa.
Grave prepotenza sarebbe, da parte dello Stato, la pretesa di intervenire nel santuario della famiglia, il che è esattamente quanto propongono i socialisti; e grave danno per l’intera società sarebbe che lo Stato uniformasse la condizione sociale di ciascuno, riducendo tutti ad una condizione di miseria e di generale servitù, nonché introducendo rancori, inimicizie, invidie permanenti, che avvelenerebbero i rapporti sociali.
Nella seconda parte, quella più ampia e più articolata (paragrafi dal tredicesimo al quarantaquattresimo), si espone la “giusta” risposta alla questione operaia: l’unione delle associazioni cattoliche, collegate alla Chiesa e al suo magistero; e questo è anche l’aspetto di autentica originalità del documento pontificio.
In primo luogo si afferma che la Chiesa, per sua natura, è pienamente legittimata ad esprimersi sulle questioni sociali e che il suo scopo è quello di comporre i confitti, non di esasperarli; quindi ribadisce che le ineguaglianze sociali sono inevitabili e che inevitabile è anche il lavoro faticoso, richiamandosi alle parole rivolte, nel libro della «Genesi», da Dio ad Adamo dopo il peccato originale e la sua cacciata dal Paradisio terrestre.
Di conseguenza, l’ordine gerarchico della società è giusto e naturale, concetto sottoscritto da quasi tutti i pensatori sociali cattolici, a cominciare da Giuseppe Toniolo (diciamo quasi tutti, perché la frazione democratico cristiana di Romolo Murri si andrà orientando sempre più in senso anticapitalista e, quindi “socialista”); quello che non lo è, invece, è l’egoistica affermazione di una classe, quella dei proprietari, a danno di tutte le altre.
Poi si riafferma la necessitò della concordia per il buon funzionamento della società e si dice, senza mezzi termini, e  sempre con il sostegno delle Scritture, che il lavoratore ha diritto ad una equa retribuzione per le sue prestazioni e che il suo sfruttamento è cosa immorale e anticristiana, che grida vendetta al cospetto di Dio.
Questa è, forse, la parte più vigorosa e più “nuova” dell’enciclica; anche se, a ben guardare, non contiene alcuna novità sostanziale rispetto alle posizioni teoriche (non sempre agli atteggiamenti pratici) della gerarchia ecclesiastica nei confronti del lavoro, in particolare quali erano state espresse, anche da teologi illustri, lungo tutti i secoli del Medioevo.
Si ribadisce quindi l’importanza fondamentale della carità cristiana e si dice esplicitamente che i ricchi dovranno, a suo tempo, rendere «rigorosissimo conto a Dio» del modo in cui avranno impiegato le loro ricchezze. Pertanto, soddisfatte le giuste e legittime esigenze personali e familiari, coloro che possiedono beni superflui hanno il preciso dovere di soccorrere quanti si trovano a vivere in una condizione di indigenza. Tutti i beni, infatti, sia quelli materiali che quelli spirituali, provengono, in ultima analisi, da Dio, e non vanno perciò considerati come un patrimonio privato, da gestire egoisticamente, ma come uno strumento per l’esercizio della carità e per la realizzazione del giusto ordine fra gli uomini, voluto da Dio.
D’altra parte - e questo può sembrare un concetto inconsueto soltanto a coloro che hanno scarsa consuetudine con la storia sociale e religiosa del Medioevo - viene ribadito che la povertà non solo non deve essere considerata, in se stessa, come un elemento di vergogna o di umiliazione, ma che, al contrario, è una condizione che presenta notevoli vantaggi spirituali, perché avvicina le anime a Dio e perché è oggetto, da parte di Dio stesso, di una speciale attenzione e benevolenza. Si cita l’esempio dello stesso Gesù Cristo, figlio di un modesto falegname e lavoratore egli stesso, prima di intraprendere la propria missione pubblica, per evidenziare la santità del lavoro ed il valore morale di una condizione sociale umile.
Si esalta poi il significato della fraternità cristiana, che deriva dalla comune discendenza di ciascun uomo dall’unico Dio, padre di tutti.
Poi, dopo aver rivendicato al cristianesimo il merito di aver profondamente rinnovato la società antica e la perenne validità della sua vocazione educativa all’interno della società, si ricorda che le opere di beneficenza della Chiesa hanno dato, fin dall’inizio, un validissimo contributo alle necessità vitali della società e specialmente delle classi più povere, pur essendo la sua missione essenzialmente di tipo spirituale.
Per affrontare organicamente ed efficacemente i problemi sociali, è necessario l’intervento dello Stato, che è, in se stesso, perfettamente lecito, essendo finalizzato al bene comune e, nel caso della questione operaia, al benessere dei lavoratori medesimi.
Esistono, d’altra parte - si dice - delle norme e dei limiti d’intervento ben precisi: lo Stato, infatti, non deve travalicare dai propri compiti, né assorbire, ad esempio, la famiglia. Il compito dello Stato è quello di tutelare, per quanto possibile, sia la società nel suo insieme, sia le sue singole parti. Si ribadisce, peraltro, che il potere politico viene da Dio e che, per questo, esso deve esercitarsi sull’esempio della divina sollecitudine nei confronti delle creature.
Si entra poi nel vivo delle questioni sociali, prendendo in considerazioni casi particolari di intervento dello Stato nella vita sociale. Si afferma che lo Stato ha il dovere di tutelare la proprietà privata e che ad esso compete di impedire gli scioperi degli operai, che sono dannosi sia per i lavoratori, sia per i proprietari, sia, infine, per l’ordine pubblico, che ne risulta turbato; però si aggiunge, subito dopo, che il mezzo migliore per contrastare gli scioperi è quello di prevenirli, assicurando agli operai delle eque condizioni di lavoro.
Per quanto riguarda le condizioni materiali del lavoro, si afferma con energia che a nessuno è lecito umiliare la dignità della persona umana e che, pertanto, agli operai devono essere offerte condizioni lavorative eque e decorose, in modo che essi siano in grado di sostentare adeguatamente le proprie famiglie. Deve essere tutelato il diritto al riposo; devono essere posti dei limiti precisi al lavoro minorile; devono essere assegnati turni di lavori più brevi a quegli operai, come i minatori, che svolgono lavori particolarmente faticosi e nocivi per la salute.
Il salario deve essere proporzionato alla prestazione lavorativa e, comunque, il datore di lavoro non deve speculare sul bisogno dell’operaio: perché, se ciò accade, è chiaro che si perpetra una violenza nei confronti di quest’ultimo, che offende la giustizia. Al tempo stesso, bisogna educare i lavoratori al risparmio, anche perché l’interesse di una società bene ordinata è che il numero dei piccoli proprietari cresca continuamente.
In pratica, in questa parte dell’enciclica si afferma che il lavoro non può essere equiparato ad una merce, né abbandonato alla mera legge della domanda e dell’offerta, perché il lavoratore è una persona: e il valore e la dignità della persona superano quello di qualsiasi considerazione di carattere puramente economico.
Negli ultimi sei paragrafi della seconda parte si tratta dell’opera svolta dalle associazioni.
Premesso che, per lo sviluppo armonioso della vita sociale, è necessaria la collaborazione di tutti, si dichiara che il diritto all’associazione è un diritto naturale. Di fatto, però, molte associazioni dei lavoratori sono indirizzate in senso contrario alla religione e alla morale cristiana, perché guidate da capi occulti (la Massoneria, anche se non viene menzionata) a ciò intenzionati. Pertanto, per conservare o riguadagnare l’animo degli operai, è necessario favorire i congressi cattolici, assicurando, nello stesso tempo, una chiara autonomia ed una ferma disciplina alle associazioni, badando a evitare che la loro opera si risolva esclusivamente in una prospettiva di rivendicazioni puramente  materiali, ma che esse tengano sempre vivo lo spirito della fede cristiana.
Si ricorda che i membri delle associazioni cattoliche devono essere consapevoli dei propri diritti, così come dei doveri; e che le associazioni sono il vero strumento per la soluzione dei problemi sociali, in uno spirito di solidarietà, di collaborazione e di onestà. Si riconosce che esiste uno sfruttamento degli operai da parte di alcuni padroni e si sostiene che solo le associazioni cattoliche possono ridare speranza a quei lavoratori, oppressi e amareggiati dal cattivo trattamento riservato loro.
Segue la conclusione, molto concisa, nella quale si riafferma che la carità deve essere la regina di tutte le virtù sociali, rifacendosi al famoso inno alla carità svolto da San Paolo nella Prima epistola ai Corinzi.
Come abbiamo detto, si tratta di un documento che segna una svolta nel pensiero sociale cristiano: non perché dica cose sostanzialmente nuove, ma perché ribadisce antichi principî in un contesto sociale radicalmente mutato e perché compie uno sforzo considerevole per attualizzare quei principî, alla luce di una sensibilità più attenta alla dimensione economica e materiale dell’esistenza, pur tenendo ben ferme le proprie radici religiose.
In fondo, questo è il primo documento in cui la Chiesa espone organicamente e ufficialmente il proprio punto di vista sui problemi del lavoro; e lo fa in una circostanza inedita rispetto alla storia secolare dell’Europa, ossia davanti all’affermarsi del capitalismo “selvaggio” e alla drammatica situazione in cui vengono a trovarsi i lavoratori dell’industria e le loro famiglie.
Certo, si può rilevare il fatto che, nella «Rerum Novarum», il passaggio dall’enunciazione dei principî di giustizia sociale e di collaborazione interclassista, alle proposte concrete di superamento sia del modello sociale e politico liberale, sia di quello comunista, rimane problematico o, per meglio dire, rimane aperto e tutto da definire.
Tuttavia, a ben guardare, non è giusto imputare alla «Rerum Novarum» la mancanza di collegamento fra il pensiero e l’azione, perché si tratta di un documento che, pur prospettando una “terza via” fra capitalismo e socialismo, nondimeno considera la questione economico-sociale dal punto di vista privilegiato della religione, e più precismente della Chiesa cattolica: non le si può domandare, quindi, più di quello che essa intende offrire.
Stabilire, ad esempio, se la “terza via” vada concretamente perseguita mediante un ritorno al sistema medievale delle corporazioni di mestiere, oppure mediante una strategia essenzialmente caritativa e assistenziale, oppure ancora attraverso forme di associazione dei soli operai, come facevano i socialisti, ma in un’ottica di collaborazione e non di scontro con la borghesia, queste sono scelte che toccano alle forze vive del mondo cattolico inserite nella società e non a una precisa strategia della gerarchia romana, che, nella sua funzione essenzialmente spirituale, non può e non vuole entrare direttamente nel merito della vita politico-sociale delle nazioni.
Il fatto che gli estensori dell’enciclica, il gesuita Matteo Liberatore e il domenicano cardinale Zigliara, fossero entrambi di indirizzo neo-tomista, suggerisce che l’approccio della Chiesa ai problemi nuovi posti dal sorgere della questione operaia prendeva le mosse da una filosofia antica, quella medievale e particolarmente quella di Tommaso d’Aquino, filtrata però da una sensibilità moderna, capace di attualizzare quanto di essa era vivo, pur nelle condizioni economiche e sociali radicalmente mutate.
La cosa che più colpisce nel documento di Leone XIII è la capacità di equidistanza fra le istanze dei lavoratori e le esigenze dei proprietarî, riconoscendo i legittimi diritti dei primi, particolarmente quello alla giusta mercede, e dei secondi, primo dei quali il riconoscimento della proprietà privata dei mezzi di produzione e, più in generale, della struttura gerarchica della società.
Al tempo stesso, il linguaggio e il modo stesso di porre le questioni appaiono fortemente innovativi ed anticonvenzionali: ne emerge l’immagine di una Chiesa dinamica, capace di confrontarsi col presente e di dialogare con tutte le classi sociali; una Chiesa che esce da un atteggiamento di pura negazione del mondo moderno e che, per la ristrutturazione in corso del corpo sociale,  prospetta una via mediana fra socialismo e capitalismo, sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche e della nuova economia industriale e finanziaria.
In effetti, tanto gli ambienti liberali che quelli socialisti accolsero con viva contrarietà l’enciclica, vedendovi, a ragione, una credibile alternativa alle rispettive concezioni sociali; e, più in generale, il preannuncio dell’uscita delle masse cattoliche da una posizione meramente passiva, in vista di una loro attiva partecipazione alla vita della società, dell’economia e della cultura.
Come apparivano datate le parole di Voltaire, «Ecrasez l’infame!» («Schiacciate l’infame!»), da lui scritte nel «Trattato sulla tolleranza»: se l’infame era il cristianesimo, allora il filosofo francese aveva avuto troppa fretta di considerarlo finito, nella mente e nel cuore degli Europei.
Chi aveva dato per spacciata la Chiesa cattolica davanti alle sfide della moderna società di massa, tendenzialmente laicista e secolarizzata, dovette ricredersi; e anche quei filosofi che avevano proclamato la «morte di Dio» e, di conseguenza, lo sbandamento di grandi masse di credenti, cominciarono ad accorgersi di aver fatto male i conti: al contrario delle loro previsioni, le masse cattoliche, sulla spinta della «Rerum Novarum», si apprestavano a entrare con forza nella dialettica sociale e a disputare il primato alle due grandi ideologie del XIX secolo: quella laica, liberale e democratica e quella atea, socialista e comunista.
Anche una schiera di intellettuali e di organizzatori cattolici si preparava ad entrare sulla scena e a svolgere un ruolo attivo e dinamico, tanto nelle questioni del lavoro, quanto sul piano del dibattito culturale; e ciò in un momento in cui era parso che da entrambi codesti ambiti la presenza cattolica fosse stata pressoché eliminata e non avrebbe mai più potuto ritornare a svolgere una presenza significativa.
Scriveva Mario Puccinelli nella monumentale opera curata da Paolo Brezzi «La Chiesa cattolica nella storia dell’umanità» (Fossano, Editrice Esperienze, 1966, vol. V, pp. 180-83):

«L’effetto della “Rerum Novarum” fu grandissimo. Tutta l’azione sociale cattolica necessariamente ne risentì: anche quella parte di gerarchia e clero che era vissuta ai margini del lavoro sociale si dovette accorgere che c’era qualche cosa di nuovo.
Naturalmente ci furono anche dissensi e delusioni. I dissensi, come logico, vennero negli schieramenti avversi alla Chiesa: nel mondo liberale, massonico e anticlericale assestato su posizioni di privilegio e di comodo, come nel mondo socialista che vide nell’enciclica il pericolo di una perdita di monopolio nell’azione e nel’indottrinamento del proletariato.
Le delusioni non mancarono neppure in campo cattolico, non per quello che l’enciclica aveva detto, ma per quanto essa lasciava insoluto: la questione dei latifondi, del superfluo, della posizione dei ricchi e dei loro obblighi. Si prospettano “in nuce” problemi che solo dopo settanta anni avranno una soluzione.  Acanti a quesiti classici del bizantinismo sociale cattolico, nutrito di disquisizioni e di congressi, c’erano, in realtà, alcuni grossi problemi che si presentavano ancora più pressantemente dopo l’enciclica: salario familiare, sindacati operai, divisione dei cattolici su alcuni punti riguardanti al tempo stesso la partecipazione alla vita pubblica e la posizione nello schieramento sociale.
Una delle questioni più dibattute dopo l’enciclica, fu quella dell’associazionismo operaio. Corporazioni o sindacati? Toniolo aveva osservato che gli operai costituiscono una classe a sé e, quindi, avevano bisogni proprii in seno alle professioni: dovevano perciò avere anche associazioni proprie. Nel 1895 Leone XIII scrive ai vescovi del Belgio che nelle associazioni operaie è predominante l’asopetto religioso-morale. Tuttavia possono essere permesse associazioni proprie. Per gli Stati Uniti si dice: goi operai, in forza di un diritto naturale, possono associarsi per conto loro, possibilmente cattolici con cattolici, in caso contrario anche in modo diverso, ma sena pregiudizio della giustizia e della fede.
L’ultimo decennio del secolo XIX è un periodo di assestamento e di sviluppo. Gi effetti della “Rerum Novarum”, le specificazioni sui sindacati, le realizzazioni già sperimentate stanno operando un ridimensionamento sociale di grande importanza.
Sono gli anni in cui, dal pionierismo iniziale punteggiato da nomi illustri di spiriti illuminati, il movimento cattolico passa alle nuove generazioni ed acquista una più larga base, sia per la maturazione delle idee, sia  perché l’azione aveva portato i suoi frutti, sia perché le associazioni avevano ormai una ramificazione e dei quadri assai numerosi. Solo in Italia abbiamo, infatti, queste cifre:  le società operaie che nel 1891 erano 284, nel 1897 erano salite a 884.  Sempre in quell’anno si contavano 691 casse rurali specialmente in Lombardia e nel veneto; l’Opera dei Congressi constava di 4.000 comitati parrocchiali con 90.000 iscritti; 200 erano i Comitati Diocesani con altri 4.700 membri, 20.092 i soci delle Sezioni Giovanili, 334 gli aderenti ai Circoli Universitari, 97 i Circoli della Gioventù Cattolica, 1.264 le Associazioni Mariane, 26 quotidiani e 168 periodici fiancheggiavano l’Opera dei Congressi.
E l’Italia, non c’è dubbio, non era all’avanguardia dei movimenti sociali…
Le conseguenze dell’antica divisione fra cattolici conservatori e progressisti si fanno particolarmente sentire sul punto della democrazia.
Nel 1898, il 9 ottobre, Leon Harmel, presentando un pellegrinaggio operaio, loda la democrazia cristiana che era in forte contrasto con le associazioni cattoliche guidate da La Tour du Pin. Leone XIII risponde con molta cautela sottolineando la necessità di un vero cristianesimo animato dalla carità: “se la democrazia, egli conclude, si abbandona alla rivoluzione e al socialismo,… l’effetto sarà la miseria e la rovina”.
Anche n Italia il campo è diviso: alla ricerca di una nuova interpretazione del “non expedit”, con grande slancio i giovani insistono nello slogan “preparazione nell’astensione” controbattuti da tutto lo schieramento dei conservatori che sono tenacemente osservanti del principio “né eletti, né elettori”.
Toniolo, nel Congresso di Padova del 1896, mostra la democrazia cristiana sotto un aspetto non politico, ma eminentemente sociale. Egli in partenza non esclude la politica, ma intuisce che non è ancora tempo. Leone XIII favorisce la democrazia cristiana, ma solo sul piano economico-sociale.
Il 18 gennaio 1901 un nuovo documento viene emanato: l’enciclica “Graves de communi” che è indicata come “l’enciclica in cui la Chiesa precisa il suo punto di vista in rapporto con la democrazia” (Von Gestel”). Il suo ambito, a parer nostro, è più ristretto: si limita, pur trattando il problema della “democrazia cristiana”, a proporre un modo di concepire e attuare la democrazia non su di un piano politico, ma su un piano economico-sociale ed è ristretta all’ambito interno dei cattolici nonché condizionata, in certo senso, dai loro dissensi. Il discorso politico, la scelta “democratica” nel senso più completo del termine, sono ancora prematuri. Tuttavia – e questo va sottolineato – il documento costituisce una tappa importante nello sviluppo della dottrina sociale della Chiesa e pone le premesse per un ulteriore passo in avanti.
Le lotte intestine fra i cattolici non erano però finite.  Quanto nella situazione giocasse quel “modernismo” che sarà poi condannato da Pio X, non è dato misurare…»

O forse sì: forse è possibile misurare quanto l’ombra dell’incipiente movimento modernista pesasse sugli orientamenti della gerarchia ecclesiastica nei confronti della democrazia cristiana, già a partire dai primissimi anni del ‘900.
E crediamo che quell’ombra sia pesata parecchio.
Molti degli animatori più generosi dell’associazionismo cattolico, anche fra quelli non direttamente coinvolti in una attività di tipo apertamente politico (il Patto Gentiloni sarebbe venuto nel 1913, e nel 1919 il Partito popolare di don Sturzo), trovarono in oggettive difficoltà di fronte alla chiusura, alla diffidenza, al desiderio di esercitare un controllo sul movimento della democrazia cristiana da parte del nuovo pontefice, Pio X, eletto nel 1903.
Una difficoltà che non coinvolse solo quei sacerdoti che, come Romolo Murri - sospeso “a divinis” nel 1907 e addirittura scomunicato nel 1909, prima di essere eletto alla Camera nelle liste della Democrazia nazionale - avevano mostrato insofferenza per l’atteggiamento piuttosto autoritario e conservatore del nuovo papa; ma anche quegli intellettuali, come lo scrittore Antonio Fogazzaro e, in maniera molto più sfumata ed esteriormente quasi impercettibile, il filosofo Luigi Stefanini, i quali sentivano comunque l’urgenza di accostarsi con più franchezza alle esigenze dei tempi nuovi e di confrontarsi con una società in rapidissima trasformazione.
Riteniamo che i timori di Pio X nei confronti della “eresia” modernista, per quanto fondati, dal suo punto di vista, a livello strettamente teologico e religioso, gli abbiano fatto velo nel giudizio circa l’associazionismo sociale cattolico e particolarmente circa la democrazia cristiana
Nel 1904 la Segreteria di stato vaticana scioglieva l’Opera dei Congressi, e ciò proprio a causa del timore che il movimento cattolico cristiano sfuggisse al controllo della gerarchia ecclesiastica e si orientasse, sotto l’influenza di Romolo Murri e dei suoi seguaci, in senso apertamente anticapitalista e progressista. Al suo posto nascevano tre distinte organizzazioni, molto più controllabili, ciascuna delle quali strettamente dipendente dalla gerarchia ecclesiastica: l’Unione popolare, l’Unione economico-sociale e l’Unione elettorale.
Ma questa è già un’altra storia, che meriterebbe un discorso a parte.