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È ancora troppo scomodo parlare del fascismo come di un’eresia del socialismo

di Francesco Lamendola - 19/03/2011



La dottrina sociale del fascismo raggiunge l’assetto definitivo nell’ultima fase della sua vicenda storica, quella della Repubblica che, spregiativamente, si suole chiamare senz’altro “di Salò”, per non doverla chiamare con il suo legittimo nome, ossia Repubblica Sociale Italiana, e ciò per non dover riconoscere ad essa la benché minima dignità politica e morale.
Tanto, si dice, nei due anni scarsi che vanno dalla caduta del 25 luglio 1943 al sanguinoso epilogo del 28 aprile 1945, Mussolini non è stato altro che un specie di fantasma politico, artificialmente riportato in vita dai Tedeschi; e la sua Repubblica Sociale non è stata altro che uno Stato fantoccio della Germania hitleriana, senza alcuna effettiva libertà di azione.
Ora, a parte il fatto che entrambe queste affermazioni andrebbero debitamente argomentate, e non date per scontate, come se non fosse necessario prendersi il disturbo di dimostrarle; resta il fatto che, quand’anche fossero vere entrambe, ciò non esclude affatto che Mussolini possa aver cercato di interpretare il proprio ruolo di redivivo e di burattino nelle mani di Hitler, non solo per mitigare la furia tedesca verso la nazione ex alleata, ma anche, e soprattutto, per lasciare in eredità all’Italia post-bellica, in cui egli sapeva benissimo di non poter trovare posto, delle riforme politiche e sociali di tale entità, che la nuova classe dirigente avrebbe dovuto comunque fare i conti con esse, né avrebbe potuto semplicemente ignorarle.
Queste riforme andavano nella duplice direzione del repubblicanesimo e della socializzazione: e non ci sembra affatto casuale che entrambe fossero presenti, «ab origine», nel pensiero politico di Mussolini, sia negli anni della sua militanza socialista, sia nelle linee programmatiche del nuovo movimento, da lui fondato con la famosa riunione di Piazza San Sepolcro.
Ma, si obietta da parte della Vulgata democratico-resistenziale, è evidente che il “ritorno” alle sue origine socialiste fu, per Mussolini e per i cosiddetti «uomini di Salò», un espediente per ingraziarsi le masse, una concessione demagogica a talune istanze della Resistenza, per giocare d’anticipo sul terreno dell’avversario, specialmente della componente più robusta e agguerrita dello schieramento antifascista, ossia quella comunista.
Ma siamo sicuri che questa spiegazione regga?
Proviamo a considerare i fatti.
Se è vero che Mussolini, da quando venne liberato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, non fu che un’utile pedina nelle mani di Hitler (testi estremista, ma che qui vogliamo prendere per buona, per meglio evidenziare l’insufficienza della storiografia di parte democratica e resistenziale), allora perché mai egli avrebbe dovuto imboccare la via della socializzazione, che certo non piaceva ai Tedeschi e che rischiava di creare acute insofferenze proprio fra coloro i quali costituivano l’unico serio sostegno al suo traballante regime?
Vogliamo dire: se Mussolini, nel 1943-45,  fu solo un uomo di paglia di Hitler, ci si aspetterebbe che egli - al quale nessuno, neppure gli avversari, ha mai negato doti di intelligenza - si regolasse in modo da non irritare il Führer, dal cui buon volere dipendeva il suo destino personale, così come la sorte che sarebbe stata riservata al Paese, reo del “tradimento” dell’8 settembre, quando Badoglio, nonostante le molte solenni promesse in contrario, piantò in asso la Germania e firmò un armistizio separato con gli Alleati, indugiando peraltro alcune settimane prima di dichiarare guerra alla Germania, fino al 13 ottobre (il che, sia detto per inciso, mise le nostre Forze Armate in una posizione non solo materialmente e moralmente, ma anche giuridicamente insostenibile, come è illustrato dalla tragedia della divisione «Acqui» a Cefalonia).
Ancora.
Se si vuole squalificare la politica di socializzazione dell’economia del 1943-45 al livello di puro espediente, si può anche ricorrere ad un argomento di carattere più generale, ossia che il fascismo non ebbe mai, neppure in principio, e tanto meno durante il Ventennio, una vera e propria ideologia; quindi, non ebbe neppure un pensiero sociale degno di questo nome. Del resto, si aggiunge, quando mai un totalitarismo ha avuto bisogno di perseguire il consenso attraverso una politica sociale EFFETTIVAMENTE favorevole alle masse lavoratrici?
Al primo argomento, si può rispondere che esso può configurarsi, semmai, come il punto d’arrivo di una ricerca e di un ragionamento, non come il punto di partenza: chi lo dice che il fascismo non ebbe una ideologia e che non ebbe un proprio pensiero sociale?
Qui si confondono gli effetti con le cause. Siccome il fascismo,  nella fase della presa del potere, venne largamente sovvenzionato dalle classe abbienti, particolarmente dai banchieri, dagli industriali e dagli agrari, ciò lo portò, inevitabilmente, a spostarsi su posizioni ideologiche sempre più conservatrici: questo è innegabile. Ma da qui ad affermare che il fascismo era sempre stato di destra; che altro non fu se non un docile strumento del capitalismo e che mise insieme i cascami di diverse e confuse ideologie, senza averne mai elaborata una propria, ce ne corre assai.
Piuttosto, questa è la versione propagandistica dei vincitori della guerra civile: i quali, avendo bisogno di far dimenticare l’atrocità del sangue fraterno versato, vollero screditare totalmente il vinto avversario, negandogli qualsiasi dignità intellettuale e morale e dipingendolo come un’orda di picchiatori, armati solo di manganello e olio di ricino, rozzi, ignoranti, vandalici, costretti a mendicare presso altre tradizioni politiche quel minimo di ideologia di cui avevano comunque bisogno, una volta giunti al potere.
Ha scritto A. James Gregor nella sua opera «L’ideologia del Fascismo» (titolo originale: «The Ideology of Fascism: the Rationale of Totalitarism»; traduzione italiana di Giovanna Tentori Montalto, Milano, Edizioni del Borghese, 1974, pp. 268-74):

«La socializzazione rappresentava, in realtà, una maturazione di tendenze già insite nelle formulazioni fasciste originarie, e manifestatesi chiaramente al tempo del Secondo Convegno di Studi Sindacali e Corporativi tenutosi a Ferrara nel maggio 1932. I fondamenti per la socializzazione erano forniti dalla impostazione socialista e antiborghese del sindacalismo nazionale, unita alle tendenze totalitarie del neo-idealismo. Al Convegno del 1932, se ne era fatto portavoce Ugo Spirito, uno dei più noti allievi di Giovanni Gentile. […]
Se non si vuole provocare il caos in una nazione industrializzata non è possibile modificare integralmente l’ordine sociale ed economico in un batter d’occhio. Il fascismo rappresentava una rivoluzione conservatrice, ma, comunque, sempre una rivoluzione. Nel definire in tal modo la rivoluzione fascista, Spirito riecheggiava io giudizi espressi da Mussolini nel corso di tutta la sua vita politica. Nel 1919, Mussolini sosteneva che “una rivoluzione politica si fa in ventiquattr’ore, ma in ventiquattr’ore non si rovescia l’economia di una Nazione, che è parte dell’economia mondiale. Noi non intendiamo, con questo, di essere considerati una specie di “guardia del corpo della borghesia…. Parlando della trasformazione economica della società, Mussolini sosteneva che qualsiasi importante riforma economica “Presuppone una elaborazione preliminare degli istituti e delle coscienze”. Nel 1944 egli confidava a Rahn: “Sono sempre stato molto cauto in materia economica… e già altre volte ho espresso l’opinione che se in campo politico si possono spesso applicare soluzioni chirurgiche, in quello economico occorre adottare metodi medici, se non addirittura omeopatici”. All’inizio dell’impresa fascista, questi sentimenti si accompagnavano alla convinzione che il capitalismo, come sistema produttivo, conservasse ancora la vitalità richiesta dal programma produttivistico richiesto dal nazionalismo italiano. Soltanto nel novembre 1933 Mussolini si convinse che a crisi che aveva attanagliato il fascismo negli ultimi quattro anni, non era una crisi “nel” sistema ma una crisi “del” sistema. Nella stessa occasione, egli parlò di”un completo regolamento organico e totalitario della produzione”, di un’economia regolata” e “controllata” che abolisse il capitalismo. […]
Incuranti delle euforiche dichiarazioni degli apologeti del Fascismo  durante tutto il periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale, i fascisti responsabili ammettevano che il meccanismo vigente per la collaborazione tra le classi e le categorie non RISOLVEVA il problema sociale.  I sindacalisti fascisti, ad esempio, si lamentavano per le continue violazioni agli impegni contrattuali da parte degli imprenditori. Il fatto è che i fascisti intelligenti riconoscevano che il meccanismo della conciliazione istituito dallo Stato non riusciva a risolvere effettivamente la disparità esistente tra le classi produttrici. Alla fine, Mussolini rese di pubblico dominio questo fato. Nel gennaio 1944, egli scrisse che venti anni di esperienza avevano insegnato ai fascisti che “lo Stato non può […] limitarsi a una funzione puramente mediatrice tra le classi , poiché la maggior forza sostanziale delle classi capitalistiche rende vana ogni parità giuridica stabilita attraverso un meccanismo sindacale tra le categorie. […] questa maggior fora delle classi capitalistiche riesce a dominare e a volgere a proprio vantaggio tutta l’azione dello Stato…”. […]
Una radicale identità di interessi si sarebbe potuta ottenere  soltanto istituendo un’unica corporazione integrale che abolisse la distinzione tra imprenditori e lavoratori. Spirito sosteneva che si poteva arrivare a questo soltanto rendendo ciascuna impresa di proprietà di tutti coloro che vi lavoravano. I lavoratori sarebbero così divenuti proprietari ed i loro sforzi non sarebbero stati ricompensati soltanto da salari, ma anche dagli utili sulle loro quote di capitale. In tal modo, essi potevano partecipare direttamente al processo industriale eleggendo il consiglio di gestione delle loro imprese.  La produzione si sarebbe così svolta “nei limiti di un programma economico unitario e nazionale”, mentre i Consigli Nazionali delle Corporazioni si sarebbero trasformati da organi di conciliazione di classe in organi direttivi della produzione. Il corporativismo sarebbe in tal modo divenuto tecnico, organico, razionale e totalitario.
Spirito chiedeva un programma economico nazionale unificato, la partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione e alla direzione dell’azienda, la eliminazione delle distinzioni azionali tra le classi e la conseguente abolizione dee classi stesse. Ammetteva che le sue proposte programmatiche erano socialiste,  che rappresentavano un certo tipo di nazionalsocialismo. Egli sosteneva che “non …si rende un buon servizio al Fascismo quando lo si contrappone in maniera affatto antitetica al bolscevismo, come il bene al male o la verità all’errore… Se oggi le energie in cui si esprime il nuovo orientamento politico sono il Fascismo e il bolscevismo, è chiaro che il domani non sarà di uno di questi due regimi in quanto avrà negato l’altro, ma di quello dei due che avrà saputo incorporare e superare l’altro n una forma sempre più alta… Il Fascismo ha il dovere di far sentire che esso rappresenta una forza costruttrice che va storicamente all’avanguardia e si lascia alle spalle, dopo averli riassorbiti, socialismo e bolscevismo”. […]
In tal modo, i fascisti radicali avevano precisato  quello che secondo oro, era il “corporativismo integrale”  implicito da sempre nel Fascismo. Non è difficile ritrovare queste intenzioni  nelle proposte programmatiche avanzate dal Partito già nel 1921. La massima part dei fascisti aveva accettato la necessità dio giungere  a un compromesso con le forze operanti nell’ambiente italiano dopo la Marcia su Roma, ma dopo dieci anni di potere, dopo dodici anni di monopolio politico, i sindacalisti e i neoidealisti stavano diventando sempre più insofferenti. […]
Nel 1934 Mussolini ripeté che il capitalismo, come sistema economico, non era più valido.  L’economia fascista doveva fondarsi non sul profitto individuale,  ma sull’interesse collettivo.  La riorganizzazione doveva fondarsi sulla premessa della “autodisciplina della produzione affiata ai produttori”, proposta programmatica che riguardava  non soltanto gli industriali e i datori di lavoro, ma anche i lavoratori.  Mussolini sosteneva che questo “significa che gli operai, i lavoratori, devono entrare sempre intimamente a conoscere il processo produttivo e a partecipare alla sua necessaria disciplina… se il secolo scorso fu il secolo della potenza del capitale,  questo ventesimo è il secolo della potenza e della gloria del lavoro”.
Nello stesso anno, Mussolini abbozzò un piano di collaborazione  col socialista Emilio Caldara e il periodico socialista  “Il Lavoro”, che durante tutto questo periodo aveva avuto il permesso di continuare le pubblicazioni. Un gran numero di socialisti si strinsero intorno ai gagliardetti fascisti e persino Arturo Labriola, , il sindacalista rivoluzionario con ci Mussolini aveva collaborato da giovane in Svizzera,  rientrò in questo periodo in Italia dall’esilio.
A cominciare da questo stesso periodo, fecero la loro comparsa in Italia i primi enti di programmazione. Gli istituti corporativi, che inizialmente erano soprattutto enti intesi ad appianare i contrasti di interesse tra le varie classi e categorie, cominciarono ad assumere gradualmente funzioni consultive e di programmazione. […]
Nel 1937 Mussolini approvò i vasti provvedimenti di intervento statale nelle industrie estrattive e produttive. Egli disse Anche che le banche sarebbero state trasformate in istituti di diritto pubblico e che la loro politica sarebbe stata sempre più indirizzata dal Ministro delle Finanze, dal Ministro delle Corporazioni e dallo stesso Partito Nazionale Fascista. Gli istituti di credito caddero sempre più sotto l’egida  della volontà governativa, e il loro controllo fornì allo Stato fascista il più efficace strumento per il controllo dell’economia. i crediti italiani al’estero vennero posti sotto il controllo del sottosegretariato per il credito e gli Scambi che, di conseguenza, assunse anche il controllo del flusso delle importazioni ed esportazioni italiane.»

A tutto questo si potrebbe obiettare che le parole sono parole e che i fatti sono un’alta cosa; che il fascismo, fino al 25 luglio del 1943, non realizzò che in minima parte il programma del corporativismo integrale, ossia, in pratica, della socializzazione; e che, durante il periodo della Repubblica Sociale, non vi fu la possibilità materiale di passare a quelle più energiche riforme e trasformazioni, che pure venivano ormai apertamente varate, per cui non è possibile dare alcun giudizio in proposito.
Tuttavia, crediamo che vi siano indizi più che a sufficienza per aprire una nuova ipotesi di lavoro davanti agli storici che ne abbiano la voglia e la necessaria imparzialità: e cioè che il fascismo non fu solo olio di ricino e manganello e, soprattutto, che non fu solo il braccio armato della reazione padronale; anzi, che non fu ESSENZIALMENTE questo, ma lo divenne, se lo divenne, per ragioni storiche e contingenti, non ideologiche; e che in esso rimase sempre viva la componente socialista, sempre, da Piazza San Sepolcro a Piazzale Loreto.
Dopo il 1945, la Vulgata democratica e resistenziale, egemonizzata dal Partito Comunista, ma con la volonterosa collaborazione di tutte le altre forze presenti nei Comitati di Liberazione, ha voluto accreditare e stabilire irrevocabilmente una interpretazione del fascismo in chiave biecamente reazionaria e far sparire, per quanto possibile, ogni traccia che avrebbe potuto condurre l’interpretazione storica verso un’alta, e meno gradita, direzione.
I fatti, però, sono - appunto - fatti.
Ed è un fatto che socialisti e comunisti della prima ora, come Nicola Bombacci, rimasero fino all’ultimo accanto a Mussolini; che sindacalisti come Tullio Cianetti, prima della marcia su Roma, non esitavano a far distribuire bastonate non solamente ai “rossi”, ma anche agli agrari; che molti fascisti “di sinistra”, nel 1936, si dolsero che le circostanze internazionali spingessero Mussolini a schierarsi con Franco e contro la Repubblica spagnola, poiché le loro intime simpatie andavano da tutt’altra parte; che lo stesso Mussolini, proprio alla vigilia del 25 luglio 1943, stesse pensando seriamente a varare la socializzazione dell’industria; che filosofi del fascismo come Ugo Spirito sostenessero che il fascismo non era la negazione, ma il superamento e l’inveramento dell’autentico socialismo: ciò che, fra l’altro, spiega il loro avvicinamento al comunismo dopo la guerra ed il loro interesse per l’azione politica di Kruscev e di Mao Tze Tung.
Si potrebbe continuare a lungo.
Non è chi non veda come la parabola del fascismo sia stata fortemente condizionata dalle forze conservatrici arroccate intorno alla monarchia - e che, più tardi, una improvvida storiografica di parte ha voluto presentare come “antifasciste” per… amore della libertà - e, soprattutto, dalla chiusura pregiudiziale dei socialisti, che respinsero le offerte di dialogo e di partecipazione al governo dopo la marcia su Roma e presero a pretesto il delitto Matteotti (da Mussolini non voluto e per lui sommamente dannoso) per adottare la linea di un rifiuto totale e irriducibile.
Una volta stabilito, in maniera dogmatica, che il fascismo era stato “il male” e Mussolini un pazzo o un voltagabbana, non restava che dipingere l’ideologia economica del fascismo come una serie di mezze misure, dilettantesche e contraddittorie, volte a gettare fumo negli occhi dei lavoratori, per nascondere la sostanza dell’assoluto predomino del capitale. Il fatto che molti sindacalisti rivoluzionari abbiano creduto nella natura sociale del fascismo e abbiano condiviso il suo disegno complessivo, diventa irrilevante: illusi o venduti pure loro, non c’è altra spiegazione.
Quanto a Mussolini, che cosa aspettarsi da un uomo che, nel 1914, “tradì” in maniera così clamorosa gli ideali socialisti a proposito della guerra? Nemmeno una parola, però, sul fatto che un analogo “tradimento” era già stato consumato da tutti gli altri leader socialisti europei e perfino da non pochi vecchi anarchici, a cominciare dal principe Kropotkin.
Ecco: il punto è questo.
Fino a quando la storiografia, specialmente italiana, non ritroverà un atteggiamento più obiettivo e distaccato nei confronti di quella vicenda, non sarà mai possibile valutarne serenamente la reale natura, le effettive tendenze e il significato complessivo all’interno della società italiana moderna, specialmente nelle sue prospettive economiche.
Perché non si ha il coraggio di riconoscere, per esempio, che il tanto decantato New Deal roosveltiano prese molto del proprio armamentario ideologiche e molte delle sue decisioni pratiche proprio dalla dottrina sociale e dalla concreta esperienza del fascismo – che, guarda caso, resistette molto meglio di altri Paesi al terribile scossone del 1929?
Gli Stati Uniti ebbero bisogno del secondo conflitto mondiale per far riprendere completamente la loro economia, con le commesse di guerra; l’Italia, al contrario, venne trascinata in guerra da un preciso disegno della Gran Bretagna, anche allo scopo di porre fine ad un esperimento economico-sociale che minacciava di diventare contagioso a livello mondiale.
E non parliamo del giudizio che avrebbero dato gli storici “progressisti” se il patto russo-tedesco del 1939 fosse rimasto in vigore fino alla sconfitta delle potenze plutocratiche.
Una cosa ci sembra chiara: se fosse vero che le classi abbienti, in Italia, furono le vere ed uniche beneficiarie della politica economica del fascismo, non si capisce perché, a partire, appunto, dal 1932, quando Ugo Spirito teorizzava il “corporativismo integrale”, cominciarono a prendere le distanze dal fascismo; e perché, a partire dal giugno del 1940, fecero del loro meglio per rovesciarlo e favorire la vittoria degli Alleati, sino alle oscure manovre di palazzo del 25 luglio 1943, alla vigilia della socializzazione dell’industria….