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La Realpolitik in Libia è una cosa seria: ma, per favore, basta con l’ipocrisia umanitaria

di Francesco Lamendola - 21/03/2011



Vi sono dei momenti nei quali la politica internazionale deve scostarsi in maniera più o meno evidente dai grandi valori ideali che, di solito, essa ama sventolare, specialmente quando a proclamarli sono gli Stati a regime liberaldemocratico.
Sarebbe bello che così non fosse; ma, perché sia possibile una politica internazionale fatta solo di nobili sentimenti e buone intenzioni, bisognerebbe che il mondo fosse tutt’altra cosa da quello che è; e, se l’eccessivo pragmatismo porta di solito i politici a scivolare verso il cinismo, l’eccessivo idealismo sicuramente li conduce verso il baratro.
In un mondo che è pur sempre, dietro le parole altisonanti dei sacri diritti dei popoli e degli individui, dominato dalla legge dei rapporti di forza, chi non ne trae le naturali conseguenze è destinato a finire come il classico vaso di coccio in mezzo ai vasi d ferro: questo insegna la storia, con spietata evidenza, se pure ha mai insegnato qualcosa a qualcuno.
È inevitabile, pertanto, benché il moralista possa giudicare triste la cosa, che le relazioni internazionali si basino largamente sul principio della Realpolitik, ossia del realismo disincantato e della spregiudicata valutazione del rapporto tra mezzi e fini: adottando, ove possibile, la linea del male minore, visto che il bene in se stesso risulta il più delle volte, per una serie di ragioni che non si possono sradicare da un giorno all’altro, impossibile da perseguire.
Sarebbe cosa di buon gusto, però, che non si pretenda di verniciare la Realpolitik con le creme e i belletti della insulsa propaganda ideologica; o, almeno, che non lo facciano i governi di stampo democratico, ma lo lascino fare, piuttosto, a quelli di tipo dittatoriale o totalitario, i quali, basando il rapporto con i propri cittadini su tutt’altre premesse che la verità e la libertà, non hanno nulla da perdere, moralmente parlando, allorché mentono nel modo più spudorato.
Ciò premesso, passiamo a sviluppare qualche breve riflessione su quel che sta accadendo nello scenario geopolitico mediterraneo, con particolare riferimento al ruolo che l’Italia vi sta svolgendo, o non vi sta svolgendo, o, piuttosto, che avrebbe dovuto svolgervi, sin dall’inizio della crisi libica e, se possibile, ancor prima di essa.
Dopo la disfatta dell’8 settembre 1943, con gli Angloamericani padroni della Sicilia e futuri padroni dei destini dell’intero Paese, l’Italia non solo ha cessato di essere una potenza coloniale, ma ha abdicato anche ad essere uno Stato indipendente. Da allora, non solo una politica estera da grande potenza (appunto nel 1943 Goebbels aveva scritto, nel suo diario, che «gli Italiani non vogliono essere una grande potenza»), ma una politica estera qualsiasi, le è stata di fatto preclusa dalla sua condizione di Stato a sovranità limitata, con decine di basi americane presenti sul suo territorio, nelle quali essa non sa neppure - come è il caso di Aviano - se e quante testate nucleari vi siano effettivamente.
Si poteva sperare che, dopo la fine della guerra fredda, l’Italia recuperasse finalmente margini di autonomia nei confronti della superpotenza americana e anche degli altri maggiori Stati della N.A.T.O., ma così non è stato, perché la N.A.T.O., invece di considerare chiuso il proprio ciclo, si è riposizionata fronte a Sud invece che fronte ad Est, e l’Italia è diventata la pedina centrale di questo nuovo schieramento politico-militare: una lunga portaerei naturale, dalla quale tenere sotto controllo i Balcani, il Vicino e Medio Oriente e tutto il Nord Africa.
Che l’Italia non fosse in grado, o non volesse, svolgere nei confronti delle proprie ex colonie un ruolo paragonabile a quello svolto dalla Francia o dalla Gran Bretagna verso le nazioni africane ed asiatiche che facevano parte dei loro imperi, lo si era visto da tempo, e precisamente da quando era scaduto il mandato fiduciario dell’O.N.U. sulla Somalia, nel 1960.
Quando, nel 1969, Gheddafi, che aveva cacciato re Idris, espulse i coloni italiani dalla Libia e confiscò i loro beni come un qualunque predone beduino, il traballante governo italiano guidato da Mariano Rumor non fece assolutamente nulla; o meglio, si adoperò per tutelare gli interessi della F.I.A.T. e dell’E.N.I. e abbandonò al loro destino i nostri sfortunati connazionali.
Da quella vergognosa abdicazione fino all’altrettanto vergognoso baciamano di Berlusconi a Gheddafi, sanzionato da un enorme “risarcimento” per i danni infitti dal colonialismo italiano alla Libia (un concetto giuridico e morale che nessun’altra ex potenza coloniale avrebbe mai sottoscritto), ma che era, in realtà, il paravento per quel Trattato di amicizia del 2008, che doveva delegare a Gheddafi la prevenzione della emigrazione clandestina dall’Africa verso la Sicilia, la nostra politica estera non è mai più risalita.
E stiamo parlando dell’unica area strategica, sull’intero pianeta, nella quale siano realmente coinvolti gli interessi vitali del nostro Paese: non dell’Afghanistan, non dell’Iraq e nemmeno del Corno d’Africa, ma del Mare Mediterraneo, di quel Mare Nostrum che, se non è più nostro in senso politico, continua ad essere nostro in senso geografico, dal momento che esso definisce il quadro della nostra collocazione geopolitica nel mondo; tanto più che, in direzione dell’Europa centrale, non abbiamo contenziosi aperti, a parte quello con la Slovenia e la Croazia per le nostre minoranze presenti in quelle Repubbliche e per il mancato risarcimento dei nostri profughi, e a parte quello con l’Austria per la minoranza tedesca presente nell’Alto Adige/Sud Tirolo.
Se, dunque, il Mediterraneo rappresenta il nostro “spazio vitale”, nel senso più naturale e legittimo dell’espressione; e se, come è noto, la Libia rappresenta uno dei nostri maggiori fornitori di petrolio, così come la Tunisia e l’Egitto rappresentano due dei nostri maggiori partner commerciali, allora è chiaro che nulla di quanto vi accade può lasciarci indifferenti, specialmente se rischia di mettere in forse i nostri interessi nazionali: economici, politici e strategici.
Già all’epoca del collasso del regime comunista albanese, della crisi del Kosovo e della guerra contro la Serbia (anch’esse regioni storicamente legate alla nostra politica estera) si vide nel modo più chiaro ed evidente l’assoluta incapacità dell’Italia di svolgere un ruolo da protagonista, quale che fosse, in un’area strategica che la riguarda direttamente: anche allora vi fu l’assalto dei profughi albanesi alle coste italiane e, poco dopo, l’assalto della malavita montenegrina all’appetitoso “mercato” rappresentato per essa dall’Italia.
Poi, quando i regimi dittatoriali di Ben Alì e di Mubarak sono caduti ingloriosamente, sotto l’impeto delle folle tunisine ed egiziane, l’Italia è stata colta alla sprovvista come le altre potenze occidentali: con l’aggravante che, se si può comprendere, in parte, la scarsa efficienza dei servizi segreti inglesi o americani in un teatro geopolitico così lontano dai loro Paesi, altrettanto non si può certo dire per i servizi segreti italiani, che possono anche fare fiasco nella raccolta di informazioni preventive sulle faccende dell’Indonesia o del Mozambico, ma dovrebbero raccogliere qualche straccio di notizia utile allorché si tratta del mare di casa nostra: il Mediterraneo, appunto.
Quando la rivolta popolare si è estesa alla Libia, tutti hanno dato per certo che Gheddafi avrebbe fatto rapidamente la stessa fine dei presidenti della Tunisia e dell’Egitto. Non si è pensato che una dittatura brutale non cade con la stessa facilità di un regime autocratico: perché, nelle dittature, l’esercito spara sulla folla, è pagato e addestrato per quello, non per restare neutrale o addirittura per unirsi ai rivoltosi.
Non ci si è nemmeno presi il disturbo di cercar di capir quale radicamento avesse l’opposizione anti-Gheddafi e, soprattutto, quale fosse il quadro tribale di quella creazione artificiale che è la Libia, artificiale quanto e più della ex Jugoslavia: e tutti sanno che cosa è successo quando il collante della dittatura jugoslava è venuto meno per la morte del maresciallo Tito. A questo, almeno, qualcuno avrebbe dovuto pensare, dalle parti della Farnesina; e non scambiare le tribù ostili al colonnello, e in rivolta contro di lui sulla base di antiche rivalità etniche e geografiche (la Cirenaica contro la Tripolitania), per delle folle democratiche in senso occidentale, ansiose di diritti civili e libertà di parola.
E chi avrebbe dovuto sapere qualcosa in merito, se non l’Italia, che è stata la potenza coloniale presente in Libia dal 1911 al 1943, ossia per più di trent’anni? Gli Americani saranno bene informati delle cose del Guatemala o dell’Honduras, posti nel loro «giardino di casa»; ma, delle cose di Libia e di Tunisia, gli esperti avremmo dovuto essere noi.
Ora si è mossa la Francia, giusto un paio di giorni prima che Gheddafi liquidasse le ultime resistenze intorno a Bengasi; e si è trascinata dietro la coalizione della N.A.T.O. che, con la solita risoluzione “umanitaria” delle Nazioni Unite, invero mal digerita da Russia, Cina e India, sta cercando di riguadagnare un poco del terreno perduto in Africa, a favore degli Americani, durante gli ultimi decenni.
Ne sta venendo fuori un pasticcio colossale, dalle conseguenze imprevedibili: gli Stati Uniti, per principio, non sono disposti a svolgere un ruolo di secondo piano; se la Germania si tira indietro, la Gran Bretagna, come al solito, non è disposta a stare a guardare; l’Italia è brillantemente indecisa a tutto, a parte l’uso delle basi militari che essa già ospita sul proprio territorio; ma nessuno ha la minima intenzione di far sbarcare un solo soldato, tutti pretendono di fare la guerra non solo senza averla dichiarata e, anzi, senza averla chiamata col suo vero nome, ma anche senza correre il minimo rischio sul terreno, affidando la distruzione del nemico ai soli attacchi aerei. Insomma una «splendid, little war» ove a morire siano solo gli altri, cioè i “cattivi”, come nei migliori film western.
Da parte sua, la Lega Araba protesta, perché fa osservare, giustamente, che una cosa è decidere la «no fly zone» per proteggere dai massacri la popolazione civile, e una cosa ben diversa è lanciare attacchi su attacchi contro le posizioni militari tenute dalle truppe di Gheddafi, ossia agire come se la coalizione fosse in stato di guerra contro la Libia. E, anche se sono attesi da un momento all’altro i quattro cacciabombardieri del volonteroso Qatar, ciò non basta di certo a fornire una copertura “islamista” ad una azione militare che appare tutta e solo di marca N.A.T.O.
Frattanto il re dell’Arabia Saudita trema, perché - se pure è riuscito ad arginare l’effetto domino nel vicino Bahrein - questo impresentabile alleato strategico degli Stati Uniti non ha certo le carte in regola più di Gheddafi, sia verso il suo popolo che verso il modo esterno, quanto a patenti di democrazia e di rispetto dei diritti umani; senza contare che i suoi enormi giacimenti di petrolio fanno gola a tanti, forse a troppi.
Né i sonni di Israele sono molto più tranquilli, come se non bastassero le sue preoccupazioni per il nucleare dell’Iran o per la capillare diffusione della rete di Al Qaida in tutto il mondo arabo, dalla Mauritania allo Yemen: specialmente dopo la caduta di Mubarak, risorge lo spettro di un fronte arabo unito contro il sionismo, e Dio sa quali altri sconvolgimenti potrebbero ancora prodursi fra quel miliardo e mezzo di fedeli musulmani sparsi dalle rive dell’Atlantico fino all’arcipelago indonesiano, ora che la frana si è messa in movimento.
La realtà è che le ragioni dichiarate dell’intervento militare - difesa delle popolazioni e, magari, instaurazione di un regime democratico - non hanno nulla a che fare con le ragioni reali: che sono in primo luogo il petrolio e, in secondo luogo, la necessità di assicurarsi un rapporto privilegiato con il governo libico che succederà a Gheddafi. Il Rais, infatti, è ormai politicamente morto: tutto sta a vedere chi prenderà il suo posto e se la Libia, come Stato unitario, continuerà ad esistere. La storia recente ci insegna, con la secessione del Kosovo dalla Serbia e con quella, “de facto”, del Kurdistan dall’Iraq, che guerre del genere, innescate o complicate da pesanti conflittualità interne, difficilmente lasciano integro un Paese.
L’Italia, in verità, è l’unico Stato, fra tutti quelli dell’Unione europea e fra tutti quelli della N.A.T.O., che avrebbe avuto delle vere ragioni di Realpolitik per intervenire a sostegno dei ribelli della Cirenaica e per adoperarsi affinché il colonnello Gheddafi venisse rovesciato: e non ci si scandalizzi per questa franchezza, dato che l’Italia, insieme alla Francia, ha già svolto un ruolo determinante nel colpo di Stato tunisino che defenestrò il presidente Bourguiba e portò al potere Ben Alì, nel 1987. Lo ha ammesso candidamente Fulvio Martini, ex capo del servizio segreto militare italiano, nel 1999, ad una commissione parlamentare.
L’Italia aveva almeno due buone ragioni per muoversi risolutamente: quella di tutelare le proprie forniture di petrolio libico e quella di prevenire ad ogni costo una invasione apocalittica di profughi nordafricani, a paragone della quale l’assalto a Lampedusa da parte dei Tunisini rischia di apparire un gioco da ragazzi.
Le ragioni di tutti gli altri Stati, diciamo la verità, oltre che poco nobili, sono decisamente sporche: gli Stati Uniti non hanno dimenticato il fallito attacco del 1986 e vogliono vendicarsi, così come vogliono vendicarsi gli Inglesi, che non hanno mai dimenticato l’attacco terroristico di Lockerbie del 1988; i Francesi, poi, non hanno digerito la progressiva erosione della loro sfera d’influenza in Africa e quindi la loro azione, paradossalmente, è diretta quasi più contro America e Gran Bretagna (a costo di giocarsi l’alleanza privilegiata con la Germania) che contro la Libia di Gheddafi, oltre che motivata dai meschini calcoli elettorali di Sarkozy, in caduta libera nel “gradimento” dei suoi concittadini.
Se non nobili, dunque, le ragioni dell’Italia sarebbero le uniche scaturenti da vitali interessi strategici ed economici; per non parlare del rapporto storico “privilegiato” esistente con la Libia (così come con l’Albania, con l’Eritrea, con la Somalia e con l’Etiopia).
Ma come trovare l’autorevolezza per agire in tal senso, dopo il vergognoso baciamano di Berlusconi al Rais di Tripoli?
Come passare dalle pagliacciate che il governo italiano ha permesso a Gheddafi durante la visita a Roma, nel peggiore stile Disneyland, alla politica della mediazione attiva fra le parti libiche in lotta, della pressione diplomatica, economica e militare sul Rais e, da ultimo, se assolutamente necessario, a quella dell’intervento militare?
Come passare dal berlusconiano «Non telefono a Gheddafi per non disturbarlo», mentre già il dittatore libico stava facendo sparare a volontà sui propri concittadini, a tanta improvvisa sollecitudine per l’incolumità degli abitanti di Bengasi o, addirittura, per la rinascita della democrazia nel Paese nordafricano?
Un discorso a parte meriterebbe l’atteggiamento della Lega, contraria all’intervento militare per ragioni analoghe a quelle manifestate dal governo Merkel: dimenticando che la Germania è uno Stato, mentre la Lega è un partito; e un partito che, guarda caso, sta al governo e non all’opposizione.
Qui il discorso si farebbe veramente lungo e ci riserviamo di farlo un’altra volta.
In questa sede, ci limiteremo ad una sola osservazione: che la linea della Lega sulla questione libica rispecchia in pieno la furberia sempre mostrata dai dirigenti di quel partito, da quando sono andati al governo: furberia consistente nel fare finta di essere all’opposizione, ogni volta che sottoscrivono un impegno di governo con il Popolo delle Libertà.
Ciò le consente di seguitare a pescare voti anche tra gli scontenti della propria base elettorale, giocando, volta a volta, da partito di governo e da partito di opposizione: sistema assai comodo e, appunto, molto furbesco.
Peccato che non sia assolutamente una cosa seria…