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Né con Gheddafi, né con chi lo bombarda

di Alessio Mannino - 21/03/2011


Esiste un principio sancito a livello internazionale già nel 1975: quello dell’autodeterminazione dei popoli. Significa che nessuno dovrebbe ingerirsi delle vicende interne di uno Stato, anche se a governarlo è un dittatore grottesco e feroce come il Raìs della Libia

È il turno della Libia. L’imperialismo, il vecchio immondo imperialismo occidentale si avventa sull’ennesima pedina che si è posizionata fuori posto nella scacchiera degli interessi dell’arrogante Occidente. Si interferisce nella vita interna di un paese in cui la piega degli eventi non collima coi piani e col portafogli degli Stati Uniti e delle potenze europee, e si fanno parlare le armi. Si procede con tutti i crismi della legalità internazionale facendosi scudo dell’Onu, si parte morbidi con l’embargo e la no-fly zone, ma da subito gli aerei dell’aviazione americana, francese e inglese (e italiana, anche se la nostra posizione sembra restare più defilata) bombardano a tutto spiano. L’assioma politico è sempre lo stesso: se non va bene a noi, gli affari degli altri diventano nostri per diritto divino. Pardon, internazionale. 

E qui si apre una questione pesante come un macigno: l’autodeterminazione dei popoli. Un popolo deve poter essere libero di decidere il proprio destino senza intromissioni esterne, legittimate o meno che siano da risoluzioni delle Nazioni Unite. Prima di tutto, perché la legalità di tale istituzione è fatta solo di pezzi di carta, sventolati quando fa comodo e lasciati giacere nel dimenticatoio se disturbano. Quante risoluzioni hanno violato o ignorato gli Israeliani? Un’infinità. Ma siccome Israele è pappa e ciccia con gli Usa, il rispetto delle regole per i massacratori di Gaza non vale. L’Onu è soltanto un bel palazzo di vetro che sanziona la prepotenza di una manciata di energumeni, e se non rende esclusivamente i suoi servizietti a Washington è grazie al fatto che fra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono presenti la Russia e la Cina (che hanno tutto l’interesse a lasciar fare ad Americani e company dal momento che anche a loro, per le loro magagne in Cecenia e Tibet, può tornare utile un certo doppiopesismo). 

L’aspetto più importante, però, consiste nel principio in sé. Come sancito nel Trattato di Helsinki del 1975, il diritto di ogni popolo all’autodeterminazione è un pilastro dell’umanità e corrisponde alla libertà di farsi da sé la propria storia. Ora, qui non è questione di parteggiare per Gheddafi, come prima la scelta non era pro Saddam o Omar. Il punto fondamentale è difendere il valore astratto, generale e valido in tutte le occasioni, dell’indipendenza da interessate ingerenze straniere. Gheddafi è un dittatore affarista che unisce ferocia e kitch da operetta. Saddam era un miles gloriosus satrapesco e crudele, che aveva gasato un’intera minoranza, quella curda, e teneva in uno status di semi-apartheid quella sciita filo-iraniana. Verso questi due soggetti non ci può essere simpatia. Ma vediamo il caso più ostico, quello del mullah Omar, capo dei Taliban afgani. Il discorso per lui è diverso. Si parla di un uomo che ha conquistato l’Afghanistan sì con la forza, ma strappandolo ai signori della guerra, predoni che taglieggiavano e opprimevano la popolazione obbedendo a una sola legge: l’arbitrio. Il consenso popolare che gliene derivò lo usò per instaurare un regime ispirato alla più dura versione della Shariah islamica. Ma non trescava con gli occidentali contemporaneamente agitando in aria la spada del’Islam, non abusava del potere per arricchirsi né per tentare improvvide e folli avventure militari fuori confine. Simpatizziamo per lui? Di più: tifiamo per lui e per i gloriosi resistenti all’occupazione alleata. 

Ma, e veniamo alla vexata quaestio, non ci sogniamo minimamente di abbracciare la fede e i valori di Omar né tanto meno immaginiamo un’Italia talebanizzata. Il suo modo di vivere e di concepire la società sono e restano unicamente suoi. Ciò nonostante ci sentiamo in dovere di sostenere il suo diritto a combattere l’invasore, che è identico al diritto di qualsiasi altro uomo che si batta per il proprio paese. 

Ci vuol tanto a capire questo concetto? Per quasi tutti, dalle nostre parti, sì. Il bravo democratico medio, ciecamente ideologizzato, confonde un principio universale e concreto, l’autodeterminazione, con il merito specifico, in questo caso il fanatismo dei barbuti talebani. Non comprendendo che essere idealmente al fianco di un giovane partigiano islamico non significa sposarne la visione del mondo, beninteso fintantoché quella visione, il combattente afgano, non voglia imporcela. Nel qual caso cadrebbe lui nell’errore di voler esportare la sua teocrazia, e allora noi faremmo bene a difenderci. In breve, non si dovrebbe esportare un bel niente, né la democrazia né nessun altra ideologia. 

Diceva Ernesto Guevara, il “Che”, un idealista vero che dopo Cuba andò a morire in un altro paese mettendosi al servizio della causa rivoluzionaria locale, non scatenando guerre di aggressione: «Le rivoluzioni non si esportano. Le rivoluzioni nascono in seno ai popoli». Perciò onore ai ribelli anti-Gheddafi - i quali, checché ne pensino i democratici totalitari di casa nostra, ragionano secondo usi tribali e non è detto che vogliano governarsi a modo nostro. Non costruiamoci addosso ancora una volta il ritratto, falso e marcio, di liberatori di gente che deve poter diventare libera da sola e a modo proprio.