Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Legami sfibrati e false identità

Legami sfibrati e false identità

di Adriano Segatori - 21/03/2011

 http://www.exibart.com/exibartsegnala_foto/exibartsegnala2009427112036.jpg

Il mondo in cui viviamo, come tutti i mondi abitati, sono intrisi di simboli, e il fatto che non riusciamo a percepirli non è legato ad una loro eventuale assenza, ma ad una nostra incapacità a superare i limiti dei segnali concreti e materiali della realtà contingente.

L’idea illuminista di rendere evidenti i segni e di fare riferimento solo ai significati visibili per interpretare la realtà circostante ha accecato l’uomo nella sua percezione più profonda, ed in questo modo lo ha reso insensibile a tutto ciò che sfugge al controllo e al calcolo. L’avvertimento di Amleto a Orazio, sul fatto che ci siano più cose tra cielo e terra di quante ne possa sognare la nostra filosofia, evidentemente non è servito a nulla, se ci troviamo ad arrancare come miopi in un mondo che ci appare sempre più estraneo alla nostra anima.

I tempi correnti sono quelli della quantificazione, della classificazione e dell’omologazione, mentre la natura, di per sé, è qualificativa, identificativa e differenzialista.

Naturalmente, queste ultime caratteristiche non potevano essere accettate dai fautori della democratizzazione forzata, perché parametri contrari ad ogni forma forzata di livellamento.

La concezione che abbiamo del mondo è una concezione non solo meccanicistica, ma sostanzialmente morta nelle sue continue tensioni non catalogabili, perché forzatamente ristretta in una visione monoculare. Per dirla in termini fenomenologici, la moderna immagine è quella cartografica della mappa geografica e non quella del paesaggio stereoscopico; ed in questo modo abbiamo perduto la ricchezza personale del panorama per limitarci alla lettura della legenda della mappa. Come ha sottolineato Hillman: “Una visione che percepisce il mondo come morto, o che dichiara gli Dei proiezioni simboliche, deriva da un soggetto percipiente che ha cessato di fare esperienza in modo personizzato, che ha perduto la propria immagine del cuor”1 .

In questo senso, la malattia diffusa, che in quanto tale statisticamente si considera norma, è il concretismo.

Sembrerebbe un insulto, un epiteto squalificante, mentre in realtà è proprio un disturbo psichico, una deformazione del pensiero che non è più limitata alla patologia individuale grave come l’insufficienza mentale o la schizofrenia, ma si è diffusa come un morbo inarrestabile fino a diventare un segnale pregnante di malattia di tutta la società. Come lo stesso Hillman ha precisato, e io stesso ho riportato più volte il suo concetto: “Non è più possibile distinguere nettamente tra nevrosi dell’individuo e nevrosi del mondo, tra psicopatologia dell’individuo e psicopatologia del mondo. (…) situare la nevrosi e la psicopatologia esclusivamente nella realtà personale, si compie una rimozione delirante. (…) Oggi la patologia la si incontra nella psiche della politica e della medicina, nella lingua e nel design, nel cibo che mangiamo. Oggi la malattia è <<là fuori>>”2 .

Il concretismo è l’incapacità di astrazione, di simbolizzazione, e la conseguente ristrettezza a considerare soltanto l’aspetto materiale e pratico dell’oggetto. Nell’individuo disturbato questa alterazione può essere una difesa di fronte ad un mondo considerato troppo astratto, quindi minaccioso e ansiogeno.

Con questo deficit simbolico trasmesso a livello societario, quasi in una forma di epidemica psicosi diffusa, ogni fenomeno non aderente alla realtà misurabile, ogni livello di astrazione non riconducibile a parametri di materialità – la solidificazione del mondo di cui parla Guénon – deve essere ricondotto e abbassato alla sua percezione vegetativa e calcolabile.

Alcuni esempi più eclatanti degli innumerevoli che si potrebbero portare?

La sessualità. Questa dimensione dell’umano è sempre stata indirizzata – nella visione tradizionale – verso una trasformazione dei sessi nella trascendenza, in una dimensione “di spirito, di   archetipicità, di verità”3 , in un cambiamento comune di tipo mistico. Poi arrivò la Dea Ragione, il materialismo storico e il relativismo morale, e tutto si ridusse a biologia e a istinto, a discapito della componente animistica della questione: “Secolarizzata dall’Illuminismo, l’anima non poté più tenere insieme spirito ed eros. Lo spirito fu assunto dall’idealismo materialistico e dal progresso utilitaristico. L’eros trapassò in sentimentalismo castrato e in pornografia”4 .

La vita. L’impresa terrena veniva contrassegnata da precisi passaggi rituali, molto simili, per certi versi, a quelli della natura. Dalla fecondazione alla morte, passando attraverso le varie fasi dell’esistenza, non c’erano salti generazionali né blocchi di sviluppo, ma un regolare e cadenzato delinearsi di doveri, diritti e responsabilità. In ogni momento, ciascuno rispondeva alla comunità del proprio ruolo e delle proprie iniziative, dando così una immagine ed una forma precisa di ordine e di rigore. Ordine e rigore, per intendersi, che non avevano nulla a che vedere con una costrizione esterna o una rigidità formalistica, ma che definivano una superiore armonia di funzioni e di idee. Uomini e donne, genitori e figli, bambini e vecchi non erano semplici categorie sociologiche, ma rappresentazioni di archetipi, di valori e di funzioni.

La politica. Partendo dall’assunto aristotelico che ogni uomo è di per sé un animale politico, l’arte del governo della città era intesa come l’esercizio di una autorità capace di costruire e di far rispettare un disegno terreno che rispecchiasse un sistema superiore ed invisibile. L’obiettivo era la creazione: di un uomo, di una comunità, di un destino. Il particolare dell’egoismo individuale e delle voglie collettive si estingueva nel desiderio condiviso di una trascendente visione comune, ed ognuno interiorizzava il limite già esistente nell’esperienza di natura. La Politica assumeva la funzione di Arte Regia, con il compito di amministrare il bene pubblico all’interno di un definito mondo di valori.

Il concretismo colpì anche questi due paradigmi. E la vita diventò un solitario percorso egoistico di emancipazione da ogni legame, con la rottura traumatica di un passato sia esso personale che collettivo, e con la evaporazione di un futuro consapevole. Rifiutando qualsiasi vincolo, ritenuto limitante per una tanto vaga quanto velleitaria libertà, l’uomo scelse di vivere al momento e per sé, presentificando ogni voglia e gratificando ogni pulsione. Il risultato è stato ed è una condizione di pseudopadronanza, dove ciascuno crede di volere, mentre in realtà è costantemente scelto nelle sue decisioni da una continua mancanza di qualcosa, da un vuoto incolmabile di significati e di sensi. In fondo, ciò che il concretismo ventila come una semplice e dovuta adesione alla realtà è, nei fatti, una deriva verso la più totale e devastante illusione. La constatazione analitica secondo la quale “Se tutto sembra possibile, allora più niente è reale”5  ha confermato la sua diagnosi proprio nello sviluppo del disagio esistente. Il concretismo ha ridotto ogni legame in contratto, trasformando il vincolo di sangue e di idea in accordo di interessi e di utilità. La parola ha perduto il suo valore costruttivo di relazione simbolica per lasciare il posto al fare pratico e all’azione finalistica.

La politica è il risultato della stessa patologia. Dove c’era un disegno, c’è una programmazione; dove c’era un destino, c’è un progetto; dove c’era una creazione, c’è un’amministrazione. Dal livello simbolico di realizzazione terrena di un ordine e di una forma trascendente, la politica è diventata gestrice del caos egoistico di singoli e di minoranze, tenutaria di interessi mercantili e di convenienze momentanee e particolari. Il distacco delle funzioni si è estinto, ed è stato sostituito dalla vicinanza promiscua di ruoli intercambiabili. Anche un certo tipo di educazione permanente all’idea virile di Stato è venuta a mancare – per voluta e determinata eutanasia: tutto è stato ridotto a società, con uno pseudo-stato che rispecchia le anomalie diffuse, piuttosto che forzare all’esercizio delle virtù, una rappresentanza dei vizi della popolazione, piuttosto che un ideale verso cui attrarre il popolo, un dispositivo materno di gratificazione delle voglie, piuttosto che un ufficio paterno di riproduzione dei limiti e di esame della realtà.

Si potrebbe continuare quasi all’infinito a puntualizzare singole cadute del simbolico al concreto. Dalla scuola, già modello di elevazione culturale ora distributrice di competenze tecniche, allo sport, già fenomeno di sanità fisica e di messa alla prova di coraggio e di dedizione ora compravendita economica e trattativa miliardaria. E via via elencando.

Le conseguenze di questa concretizzazione della vita e del mondo sono due ricadute pesanti sul singolo e sul contesto di appartenenza: il cinismo e il narcisismo.

Se niente ha valore in sé, e tutto è comparabile ad un utile quantificabile e ad un interesse conteggiabile, allora solo <<Io>> ha importanza, con il risultato mentale e pratico che tutto ha un prezzo.

Questo cinismo non è quello filosofico del minimalismo dei bisogni e delle soddisfazioni, ma freddezza in ogni legame e disinteresse per qualsiasi trascendenza; è l’esasperazione delle proprie voglie a discapito di ogni responsabilità e di ogni rispetto. In contemporanea, trionfa il narcisismo, con la sua “mancanza di umanità”, “la negazione dei sentimenti”, l’assenza di rimorso, la ricerca del potere e l’annegamento nell’invidia, fino al rinnegamento dell’identità6 .

A ragione, Massimo Recalcati sottolinea il valore di un neologismo inventato da Colette Soler: il narcinismo (narcisismo + cinismo)7 . Viviamo in una società narcinistica, nella quale l’imperativo categorico è godere, divertirsi, diluire ad annullare ogni dovere ed ogni impegno; dove la felicità esteriore e materiale ha la prevalenza sulla serenità interiore e spirituale; dove il legame è vissuto come dovere soffocante e dove l’indicativo perentorio è libertà, a costo di naufragare nell’indifferenziato e nell’angoscia.

Ci si meraviglia del degrado individuale e collettivo, dello sfacelo delle famiglie e della deriva della politica, del diffondersi irrefrenabile delle droghe e della violenza, della caduta di ogni stile e dello scarso valore della vita. In realtà ci si dovrebbe meravigliare di meravigliarsi. Ma forse questa meraviglia è un segnale positivo; forse c’è ancora, in qualche recesso della persona e dell’inconscio collettivo, un piccolo barlume di indignazione e di coscienza critica, una minima volontà di potenza per esorcizzare la forza insinuante di questo Forestaro dell’ipermodernità.

 

 1 J. HILLMAN, Re-visione della psicologia, trad. it., Adelphi, Milano 1983, p. 54.

 2 J. HILLMAN, L’anima del mondo e il pensiero dell’anima, trad. it., Adelphi, Milano 2002, pp. 121 e 124.

 3 F. ANTONINI, Riflessioni sulla “metafisica del sesso” di Julius Evola in J. EVOLA, Metafisica del sesso, Mediterranee, Roma 1994, p. 12.

 4 J. HILLMAN, Il mito dell’analisi, trad. it., Adelphi, Milano 1979, p. 145.

 5 M. BENASAYAG / G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, trad. it., Feltrinelli, Milano 2004, p. 23.

 6 Cfr. A. LOWEN, Il narcisismo, trad. it., Feltrinelli, Milano 2005.

 7 M. RECALCATI, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 34.