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Bombe illegali

di Claudio Martini - 30/03/2011


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Con questo scritto cercherò di sintetizzare i motivi per cui l'attacco contro la Libia viola la legalità internazionale e come le principali forze politiche italiane stiano, in questo momento, calpestando la Costituzione italiana.
Cominciamo dalle irregolarità nell'ambito normativo interno. Il governo italiano sta violando, o ha violato, gli articoli 10, 11, 78 e 80 della carta costituzionale.
Iniziamo dalla violazione più ovvia, quella dell'art 11. Esso stabilisce un principio fondamentale, di natura assiologica/valoriale: il "ripudio" da parte dell'intera collettività nazionale di una particolare manifestazione dell'attività umana, la guerra. Questa norma parrebbe dunque di carattere indicativo/ programmatico, ma il secondo passaggio chiarisce che essa va intesa anche come disposizione immediatamente precettiva. La lettera della legge infatti consta di una determinata casistica nella quale il ripudio, da mero orientamento, diventa esplicito divieto di rango costituzionale: vengono menzionate "l'offesa alla libertà degli altri popoli" e "la risoluzione delle controversie internazionali".
Nel nostro ordinamento non vige pertanto il principio del paficismo, che si scontrerebbe con l'art 52 della carta ("Il servizio militare è obbligatorio" "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino".) ma il principio, e la regola, del rifiuto dell'imperialismo e del concetto di "polizia internazionale", noto nell'800 col nome di "diplomazia delle cannoniere", fenomeni entrambi inscindibili dalle guerre d'aggressione. Si può affermare che l'italia abbia violato il primo divieto nel caso dell'occupazione dell'iraq e dell'Afganistan, e il secondo nel caso del conflitto serbo-bosniaco del 95, di quello del kosovo del 99 e del Libano nel 2006.
Gli avvocati dell'imperialismo in genere argomentano agitando la seconda parte dell'art 11,nella quale si troverebbe, a parer loro, una norma che fa esplicita eccezione ai divieti di cui abbiamo appena parlato, permettendo così all'italia impegni militari altrimenti non consentiti. Ciò è da escludere alla luce del testo costituzionale. In esso si dice infatti che l'italia  "consente, in parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni." Soprassediamo sull'effettivo rispetto della condizione, prevista dalla legge perchè vi possano essere limitazioni di sovranità, nell'ambito delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte: lascio la questione al giudizio dei lettori.
Le legge funzionalizza la limitazione di sovranità alla costruzione di un ordinamente internazionale con date caratteristiche; qui si parla, ovviamente, della propria sovranità, non di quella degli altri; eppure tutti i recenti interventi militari hanno visto una proiezione della forza statuale italiana all'interno delle sfere di competenza di altri ordinamenti. L'art.11 della nostra Costituzione non serve, come vogliono farci credere, ad autorizzare le guerre, ma a consentire all'Italia di adempiere ad obblighi internazionali liberamenti assunti, come quelli derivanti dall'adesione all'ONU (il cui art 43, per esempio, impone agli stati parte del trattato di mettere a disposizone del consiglio di sicurezza proprie truppe).
Passiamo all'art 10, il quale stabilisce che l'ordinamento giuridico italiano "si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute". Essa è l'unica norma generale, nel nostro ordinamento, di adattamento del diritto internazionale, tanto che  stata addiruttura definita "l'adattore permanente".   Per "norme del diritto internazionale generalmente riconosciute" devono intendersi non l'intero corpus della legalità internazionale, ma soltanto le norme che hanno come fonte la consuetudine, ossia quelle regole che sono state riconosciute (latu senso "approvate") dagli stati in virtù della loro idoneità a regolare la convivenza dei popoli del mondo. Si tratta, inevitabilmente, di norme di carattere generale e di principio, frutto di un elaborazione antica quanto il diritto. Uno dei principi essenziali dell'ordinamento internazionale è quello espresso dal brocardo latino pacta servanda sunt, come ribadito dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, ratificata sia dalla Libia sia dal nostro paese. Esso costituisce un una fondamentale garanzia di tutela dell'affidamento, in quanto la licenza di disattendere gli obblighi liberamente assunti nelle relazioni fra gli stati comporterebbe il venir meno della certezza del diritto di fonte pattizia. Ora, si dà il caso che il nostro paese abbia stretto con il governo libico un trattato, detto, trattato di Bengasi (che ironia!) ratificato dalle camere il 9 febbraio 2009, al cui art.4 leggiamo: "1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell'altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato. 2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l'Italia non userà, ne permetterà l'uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l'uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l'Italia."
Il nostro comportamento aggressivo è stato attuato in aperta violazione di un trattato internazionale, cosa che è inamissibile secondo la consuetudine generalmente riconosciuta dalla comunità internazionale, fonte che la nostra costituzione riconosce come idonea a produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento; in conclusione, l'atto che autorizza tale comportamento aggressivo è in contrasto con l'art 10 della Costituzione, è pertano è illegittimo.
Cosa avrebbe dovuto fare l'Italia per annullare gli effetti del trattato di amicizia di Bengasi? Avrebbe dovuto seguire la procedura indicata all'articolo 67 della sopracitata Convenzione, denunciando il trattato e comunicando per iscritto la decisione al governo libico, allegandovi le motivazioni; tale decisione avrebbe dovuto in seguto essere approvata dal parlamento con procedura ordinaria, secondo quanto stabilisce l'art 80 Cost. (Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi.)
E veniamo alla violazione apparentemente più lieve, quella dell'art 78, il quale nell'unico comma recita: "le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari." Questo articolo stabilisce che  il parlamento, nella formazione di un particolare atto avente valore di legge, non possa seguire la procedura cosiddetta "speciale". La ratio è una evidente esigenza di democraticità in un ambito così delicato come quello bellico. Ebbene, per sei giorni il nostro parlamento ha conferito al Governo i "poteri necessari" per l'intervento armato con un semplice voto delle commissioni Esteri e Difesa di ambo le camere, che si sono così riunite in sede "deliberante", scavalcando l'assemblea: le Camere hanno insomma seguto l'iter esplicitamente vietato (interpretando a contrario) dalla Carta Costituzionale.
Le stesse Camere si sono riunite in data 24 marzo (settimo giorno di bombardamenti!) votando, questa volta con procedura ordinaria, un impegno al governo alla piena attuazione della risoluzione ONU n.1973. Senonché nemmeno in questo caso il dettato costituzionale è stata rispettato. Per un imprescindibile esigenza di chiarezza, il legislatore del 48 ha parlato esplicitamente di "stato di guerra"; affinché le forze che si occupano di dare un indirizzo politico alla nostra società si assumano responsabilità chiare nei confronti della cittadinanza, è indispensabile, secondo Costituzione, che si parli chiaro. Nemmeno questo dovere è stato ottemperato.