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La scacchiera levantina

di Giacomo Gabellini - 30/03/2011



Il cruciale quadro geopolitico che si estende dalle coste occidentali dell'Africa fino alle ricche terre che lambiscono il mar Caspio sta colorandosi di tinte sempre più fosche, rendendo sempre più arduo il compito di leggere obiettivamente la situazione. Nel contesto caotico e particolare che vede l'archiviazione momentanea delle questioni tunisina ed egiziana e lo stallo imbarazzante della sciagurata crociata mossa dalla "coalizione di volenterosi" contro Gheddafi, si stagliano ora la singolare risoluzione del Consiglio dei Diritti Umani dell'ONU, finalizzata a "far luce" su presunte violazioni dei diritti umani perpetrate in Iran e le turbolenze scoppiate in Siria di cui il presidente in carica Bashar Al Assad sta tentando di scoprire l'origine. La risoluzione ONU, fortemente sponsorizzata dagli Stati Uniti, è passata con ventidue voti favorevoli e sette contrari (quattordici le astensioni), tra i quali spiccano quelli cinese e russo. Cina e Russia sono tornate quindi a digrignare i denti dopo aver inconcepibilmente scelto la via dell'astensione quando si era trattato di valutare ed eventualmente strozzare sul nascere le manie di grandezza francesi e, più sotto traccia, statunitensi, mentre gli USA, dal canto loro, si sono improvvisamente riscoperti estimatori di quelle Nazioni Unite cui non hanno mai riconosciuto piena legittimità e conseguentemente erti a paladini dei diseredati, brandendo la spada dei diritti umani malgrado di essi siano incalliti, aperti e riconosciuti violatori (Guantanamo, Abu Ghraib, discriminazione delle minoranze entro i propri confini nazionali). Niente di nuovo, poiché costituisce una costante storica il fatto che gli USA riconoscano legittimità a organizzazioni sovranazionali come le Nazioni Unite solo ed esclusivamente laddove la tutela degli interessi di Washington coincida con le finalità che i secondi si prefiggono di perseguire. Degno di nota è invece il fatto che il mai troppo amato Barack Obama sia tornato a tendere la mano ai diffidenti sionisti di Israele, che solo qualche giorno prima avevano espresso, tramite il premier Benjamin Netanyahu, l'auspicio che il medesimo trattamento applicato alla Libia venisse riservato anche al regime islamico degli Ayatollah, in forza della "sanguinosa" repressione con cui i Pasdaran avevano piegato, tempo addietro, la riottosità dei "manifestanti" adepti della sedicente "onda verde". La storia insegna che l'esasperazione dei toni con cui sono soliti esporsi i vertici di Tel Aviv corrisponde assai fedelmente al livello di isteria che sepreggia in seno alla società israeliana, che mai come ora è apparsa tanto intimorita. Nell'arco di pochi mesi Israele ha visto cadere un vicino e affidabile alleato come Hosni Mubarak, i potenti e agguerriti adepti di Hezbollah puntellare le proprie posizioni in Libano, Cina ed India avvicinarsi sempre più all'irriducibile "satana" iraniano e soprattutto la Turchia smarcarsi dal suo storico ruolo di bastione laicista, garante dell'atlantismo. L'umiliazione pubblica di Shimon Peres ad opera di Recep Erdogan all'indomani dell'eccidio di Gaza del dicembre 2008 e la ferrea condanna turca della condotta israeliana in relazione alla turpe vicenda della Freedom Flotilla hanno preluso all'apertura di Ankara nei confronti di Teheran e dell'altro "paese canaglia", la Siria guidata da svariati decenni dal casato Assad, prevalso nel 1970 dopo anni di faide intestine al partito Baath, lo stesso di Saddam Hussein. Il tritacarne mediatico sta, come al solito, cercando di distruggere pubblicamente l'immagine del Baath e del suo leader Bashar Al Assad, così come era accaduto nel 2003 alla vigilia dell'aggressione all'Iraq. Risponde indubbiamente al vero il fatto che tanto la Siria quanto l'Iraq siano o siano stati tenuti in pugno da regimi personali, ma ciò - a meno che non si voglia cadere nell'occidentalismo spicciolo tipico degli statunitensi e dei "nouveaux philosophes" Bernard Henry - Levy e André Glucksmann - non costituisce un argomento valido per approcciare efficacemente alla complessa realtà vicinorientale, estremamente diversa da quella europea e americana. Il Baath è un partito di vocazione socialista nato da due rivoluzioni - quella siriana e quella irachena, per l'appunto -  i cui capisaldi collimano con le principali indicazioni impartite a suo tempo dall'ideologo siriano Michel Aflaq, secondo il quale la legittimità di coloro che esercitano il potere debba essere soggetta al vaglio di un consiglio rivoluzionario, una sorta di Politbjuro incaricato di fregiare il governo dei crismi di legittimità necessari. La struttura portante del Baath risente dell'influenza di numerose ideologie europee - il marxismo di Lenin, le teorie risorgimentali di Mazzini, il nazionalsocialismo di Hitler - e risponde in pieno a una forte vocazione modernizzatrice, che però è risultato arduo mettere in pratica in virtù delle fortissime divisioni che sono maturate inesorabilmente in seno a un partito tanto variegato e onnicomprensivo, fintanto che dalle numerose faide intestine che lo dilaniavano non sia sorta una forza preponderante sulle altre - Hafez Al Assad in Siria, Saddam Hussein in Iraq - in grado di governare il paese. Tanto Assad quanto Hussein compresero però che era insufficiente contare unicamente sul partito per restare in sella, e decisero di appoggiarsi l'uno sulla cospicua minoraziona alauita, l'altro sui clan stanziati lungo la natia regione di Tikrit. Per ovvi motivi una simile impostazione di base non può che favorire il clientelismo e appoggiarsi su una nomenklatura tribale che amministra lo Stato principalmente nell'interesse esclusivo dei suoi membri. Sembra che questi nodi abbiano suscitato fastidi ad alcune componenti della società siriana, che sono scese in piazza a manifestare pretendendo che il paese superi le proprie divisioni per attuare alcune riforme vitali in chiave modernizzatrice. Il presidente Assad ha immediatamente riconosciuto la legittimità di tali proteste, e ha riferito che farà il possibile per venire incontro alle rivendicazioni della frangia manifestante della popolazione, sollecitato, tra gli altri, dal primo ministro turco Recep Erdogan. Erdogan ha infatti rivelato di essersi più volte sentito con Assad, e di esser certo che quest'ultimo procederà nell'abrogazione delle leggi speciali che vigono da quasi cinquant'anni. La Turchia si è dunque mostrata sensibile alle difficoltà incontrate dal presidente Assad, ed ha agito con cautela, nel rispetto della sovranità siriana, non mancando di sottolineare l'importanza di mantenere i rapporti di "buon viciniato" ottenuti in questi ultimi anni per merito principalmente di quell'abile tessitore di trame diplomatiche che risponde al nome di Ameth Davutoglu, ministro degli Esteri del governo di Ankara. Fin qui, nulla di particolarmente grave. Ad allarmare il presidente Assad e il primo ministro Naji Al Otari sono state infatte le insurrezioni armate di Daraa, su cui aleggia l'ombra del Mossad e dei servizi segreti giordani, contro i quali il governo di Damasco ha pubblicamente puntato il dito, subito dopo aver sedato il tutto. Immediatamente la canea mediatica si è scatenata ad arte contro Assad, ingigantendo a dovere la "sanguinosa repressione" governativa prendendo per oro colato i resoconti postati su internet per mezzo dei soliti social network come Twitter e Facebook, da parte di alcuni "manifestanti" antigovernativi la cui obiettività non è stata minimamente messa in discussione. Le emittenti arabe vicine ad Al Jazeera hanno svolto, come sempre, il compitino loro assegnato, portando acqua al mulino dei sedicenti "oppositori" sulla falsariga di quanto avevano già fatto nei confronti della Libia, senza che nessun "autorevole" osservatore sollevasse alcun tipo di obiezione al riguardo. Nel frattempo, Hillary Clinton ha fatto sapere che gli USA considerano Assad un "riformatore" e in virtù di ciò non interferiranno negli affari interni della Siria, mentre i vertici di Tel Aviv, chiamati direttamente in causa da Assad e dal primo ministro Al Otari, continuano a trincerarsi dietro una coltre di silenzio assordante, diversamente da quanto avevano fatto nei confronti dell'Iran. L'impressione è tuttavia un'altra, ovvero che all'interno del Levante si combatta una battaglia cruciale per la ridefinizione dei rapporti di forza internazionali. Il paese perno dell'area è indubbiamente la Turchia, che si sta infatti inserendo prepotentemente nella guerra civile libica proponendosi come la sola forza mediatrice in grado di scongiurare la possibilità che un nuovo Iraq si profili all'orizzonte, ridimensionando così le sconsiderate e superficiali ambizioni di "grandeur" francesi e mettendo i facinorosi falchi di Washington di fronte alle proprie colossali inadeguatezze mostrate solo pochi anni fa nella gestione del caos iracheno. Tendendo la mano all'arrancante presidente Assad, Erdogan si è mostrato bendisposto nei confronti di uno "stato canaglia" come la Siria, legato a doppio filo ai potenti miliziani Hezbollah, alleato di ferro della Russia e dell'altro grande attore vicinorientale, l'Iran. Negli ultimi anni si è tentato in ogni modo di rovesciare il governo presieduto da Mahmoud Ahmadinejad, sia dall'interno che dall'esterno, con la "Twitter - revolution" del dopo rielezioni del giugno 2009 e con il ridicolo piagnucolio mediatico "internazionale" a corrente alternata e geometria variabile scatenatosi attorno a Sakineh. Tutte operazioni dietro le quali si è vista pesantemente la mano della CIA, delle varie fondazioni per i diritti umani finanziate direttamente da Washington o da George Soros, e dell'eminezia grigia che si celava dietro l'irrilevante Mir Hossin Mousavi, ovvero il ricchissimo Ayatollah Akbar Rafsanjani. Il pomo della discordia era la linea di politica estera tracciata da Mahmoud Ahmadinejad, che si era posto in radicale opposizione agli USA e ad Israele, avvicinandosi nel contempo a pericolosi giganti come la Russia e la Cina. Come è noto, Ahmadinejad è ancora in sella, e può contare sull'effettivo appoggio della Turchia, che si è mostrata sempre più legata all'Iran sia per quanto riguarda le questioni energetiche (si pensi agli accordi stretti assieme agli alleati sudamericani Venezuela e Brasile) sia per quanto concerne l'appoggio concesso a Teheran in sede ONU (la Turchia votò contro l'inasprimento delle sanzioni e ha votato contro l'invio di un commissario per i diritti umani in Iran). Ciò non può che spaventare Israele, che, perdendo un affidabile comprimario come Mubarak, si trova accerchiata da una costellazione di paesi vicini ostili che stanno ottenendo anche, come spiegato in precedenza, l'appoggio di uno storico e vitale alleato come la Turchia. E' in questo complesso mosaico che vanno inserite le due tessere in questione, ovvero la guerra diplomatica contro l'Iran e i subbugli siriani. Dal canto suo, Israele ha tutto l'interesse a rompere il pericoloso accerchiamento regionale che va delineandosi da mesi, mentre agli Stati Uniti occorre evitare che la Russia si appoggi a un minaccioso e influente alleato levantino come la Siria per insinuarsi efficacemente tra le maglie delle rivolte che stanno destabilizzando pressoché l'intera area che dalla Libia, passando per lo Yemen arriverà con ogni probabilità al Pakistan, tutte polveriere sulle cui rispettive deflagrazioni gli USA hanno grosse responsabilità. Ora che gli interessi degli Stati Uniti sono tornati parzialmente, dopo un periodo di relativa freddezza, a combaciare con quelli di Israele, un Obama improvvisamente immemore dello schiaffo ricevuto pochi mesi fa da Netanyahu in occasione del sedicente “processo di pace” si affretta ad esprimere “preoccupazione” per i “lanci di mortaio e di razzi Qassam” dalla striscia di Gaza e ribadire “l’impegno incrollabile degli Stati Uniti per la sicurezza di Tel Aviv”, facendo tirare un liberatorio sospiro di sollievo agli ansiosi sionisti di Tel Aviv.  In sintesi, la torre israeliana, avvertiti i segnali di arroccamento lanciati del re statunitense, ha riacquistato la fiducia necessaria per alzare la posta in gioco e rispolverare il proprio gergo di guerra, mentre Siria ed Iran sembrano aver tratto i debiti insegnamenti dalla lezione libica, e di fronte ai primi segnali di pericolo hanno serrato i ranghi diplomatici trincerandosi dietro l’ambiziosa Turchia di Recep Erdogan, che se continuerà a giocare le proprie carte con tanta abilità e scaltrezza riuscirà senza ombra di dubbio ad estendere non al solo Levante, ma all’intero nordafrica la propria egemonia. Cina e Russia stanno alla finestra in silenzio, evitando con accuratezza, come rientra nel loro classico modus operandi, di scendere direttamente in campo laddove non sono direttamente provocate. Ma gli Stati Uniti (ed Israele) farebbero bene a non alzare troppo il tiro, e a ricordarsi cosa accadde nell’afoso agosto 2008, quando sfidarono apertamente la Russia tentando di impantanarla nella palude georgiana. Traendone le debite conclusioni.