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Io non sono in guerra con la Libia. E voi?

di Stefano Vaj - 30/03/2011


C’è chi pensa che i trattati internazionali siano pezzi di carta. Non è un punto di vista nuovo, anche se la cortesia, prima del diritto, internazionale imporrebbe almeno di denunciarli, cosa che in effetti storicamente hanno spesso fatto governi successivi a quello che li aveva firmati, talora dopo una rivoluzione, anche se i trattati impegnerebbero in teoria gli stati, non i governi che si trovano occasionalmente a rappresentarli.

Certo, ci sono trattati più chiari di altri. Si vedano ad esempio nel Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione Italia – Libia (2009) i riferimenti al “rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica»; al diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); all’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); all’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); alla rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); all’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).

Al di là della retorica istituzionale, perciò, non ci sono interpretazioni pelose che tengano: la violazione di quanto sopra è giustificabile unicamente in vista di considerazioni di Realpolitik o “ragion di Stato” per cui ognuno fa ciò che gli pare, se gli pare, magari invocando i “superiori interessi della Nazione” (la propria, scilicet). Naturalmente, tale invocazione è alquanto fantasiosa riguardo all’attuale politica della Repubblica Italiana, ma esiste un problema più grave, che non pare però lasciare insonni né Napolitano né i leader della “Her Majesty’s Most Loyal Opposition”.

Il richiamo con cui viene giustificato in Italia (il sostegno al)l’attacco alla Jamahiriya non è infatti nulla di tutto ciò, ma quello al “diritto internazionale”. Ora, o si accetta l’idea che curiosamente il diritto internazionale non comprenderebbe più il principio, in qualche forma comune alla maggiorparte degli ordinamenti concepibili secondo cui pacta sunt servanda, così che la Repubblica Italiana resta vincolata dagli accordi, freschi di inchiostro, che ha liberamente sottoscritto, come chiunque faccia una promessa ed assume un impegno. Oppure è necessario riconoscere che la nostra violazione dei patti  non può giustificata giuridicamente, ed è perciò semplicemente una guerra. Cioè quella cosa che gli stati fanno – per conto proprio od oggi più spesso di terzi -  per regolare mediante mezzi militari le controversie e i conflitti di interesse internazionali.

Capita d’altronde che la costituzione dello stato interessato, che folle numerose sventolano in piazza per esprimere la propria contrarietà ad una sua sia pur minima riforma, preveda all’art. 11 proprio il fatto che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Libertà che comprende verosimilmente la libertà di resistere ad insurrezioni armate sul proprio territorio, e controversie che comprendono le controversie sul regime politico che si possa ritenere preferibile a casa altrui. O almeno, pochi giuristi della Repubblica Italiana la penserebbero diversamente se dal “lato passivo” dovesse ritrovarsi quest’ultima. Pertanto, in attesa di una riforma che nessuno dei “volonterosi” nostrani si sogna di proporre, un preteso interesse nazionale per il ricorso a tale mezzo non costituirebbe in generale nel nostro attuale ordinamento una giustificazione per accorrere in prima linea – in realtà più verosimilmente come portatori d’acqua, bersagli mobili o vigili urbani – nelle avventure militari altrui. Tanto meno quando tale pur commovente buona volontà comporti la unilaterale sospensione, che non può essere appunto che “politica”, delle obbligazioni cui il diritto internazionale ci lega.

Se questo è lo scenario, anche il più fedele suddito dello stato che si afferma sovrano sulle sone nostre terre, e che ha appena finito di rivendicare una continuità centocinquantennale con la costruzione risorgimentale, resta certo soggetto in linea pratica a sanzioni qualora resista attivamente a quanto sta accadendo, o anche passivamente qualora abbia obblighi personali in contrario. Ma di sicuro è liberato, qualora intenda prendere sul serio l’ordinamento in esso vigente, da qualsiasi “pressione morale” volta a vederlo fare il tifo per l’illegittima partecipazione delle sue forze armate alle operazioni in corso.

Dopodiché, il mondo del diritto è il mondo delle fate.

Il fatto che la parte aggredita avesse stipulato un trattato di cooperazione con la Repubblica Italiana – con il senno del poi sbagliando clamorosamente partner e “padrini” – non è probabilmente estraneo ai suoi problemi attuali, insieme con il fatto di essere vincitrice sul campo, al contrario di quanto avvenuto negli stati vicini in cui i relativi governi-fantoccio sono crollati come castelli di carte, rischiando così di far terminare davvero qualsiasi “violenza“ coinvolgesse la “popolazione civile”,- violenza che per evitare di imbarazzare gli stranieri deve invece continuare per tutto il tempo necessario ad un cambio di regime che si è rivelato necessario imporre dall’esterno.

Il fatto che il governo italiano si sia precipitato a sostenere iniziative volte a mutare lo stato di fatto in senso certamente più problematico per lo stato che amministra non è frutto di un qualche occasionale tradimento da parte di qualcuno, ma espressione di una strutturale mancanza di sovranità reale, e non solo legale, dello stato medesimo che non avevamo certo bisogno di Wikileaks per scoprire. E’  ragionevole così immaginare che qualsiasi fantascientifica resistenza a tali iniziative, o anche solo più prosaicamente e realisticamente qualsiasi inerzia nel porsi a disposizione, avrebbe semplicemente portato alla sostituzione immediata della attuale “leadership” da parte di uno qualsiasi dei postulanti che mirano alla successione, e che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno trovato in questi giorni altri motivi di critica nei confronti della sua azione se non quella di aver omesso di fare prima, di più e meglio quello che pur con comprensibile mancanza di entusiasmo sta già facendo.

Ciò tanto più che si tratta sempre più chiaramente di un governo non solo ricattato, ma in “libertà vigilata” rispetto ad altre sue possibili marachelle nel campo della politica internazionale. Un governo che è rimasto al suo posto solo attraverso un riallineamento massiccio agli interessi di forze che ormai nutrono una fiducia molto limitata nella sua fedeltà, e cui certo potrebbe essere di monito oggi l’immagine di governi di molto più lunga data che nella sponda meridionale del mediterraneo sono stati “incoraggiati” a  cadere e dismessi come altrettante paia di calzini.

Ma, ehi, io non devo restare aggrappato alla presidenza del consiglio dei ministri della Repubblica Italiana. Non devo neppure rendermi presentabile a qualcuno quale successore del governo attuale ai fini dell’amministrazione per conto terzi della medesima repubblica. E non ho alcuna simpatia per l’ennesima crociata di un sistema contro un popolo, che non mi sembra foriera di alcuna concepibile conseguenza positiva per i miei interessi personali, tanto meno per quelli delle mie idee. Non poterci fare a titolo personale granché non è di sicuro un motivo sufficiente per arruolarmi dalla parte cui ho tutte le ragioni per sentirmi ostile (o per fare sconti a chi in questi giorni scalpita nell’intero arco politico per mostrarsi il primo della classe).

Perciò, io non sono in guerra con la Libia. E voi?