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Il pensiero filosofico tra cultura e natura

di Eduardo Zarelli - 30/03/2011

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Nicola Russo, ricercatore presso l’Università “Federico II” di Napoli, con la pubblicazione di questo denso e voluminoso saggio, riempie un colpevole vuoto editoriale: una sintesi ampia, sistematica e coerente, sulle molteplici forme di pensiero, che afferiscono all’ecologia o, più genericamente, alla “crisi ecologica”.
In tal senso, la rigorosa formalità accademica, appesantisce la lettura e rimanda gnoseologicamente a una centralità dell’ermeneutica filosofica occidentale - e quindi disciplinare per l’autore - che esclude prospettive “altre” nell’interpretazione del rapporto uomo/natura. In particolar modo le forme sapienziali, sia filosofiche che spirituali, che aiuterebbero a non considerare gli autorevoli “pensatori della crisi” Nietzsche e Heidegger, forgiati nel nichilismo, quali unici esegeti del “disvelamento” dell’Essere nel richiamo alle responsabilità ontologiche nel rapporto tra cultura e natura..
Ciò detto, il libro risulta efficace perché tenta di difendere le istanze profonde dell’ecologia dalle soluzioni semplicistiche e riduzionistiche di questa scienza che, come sappiamo, è divenuta una delle posizioni culturali e politiche più controverse della società tardo industriale.   
Il lavoro di Russo è suddivisibile in tre parti sostanziali. Nella prima, passa in rassegna critica la genealogia della scienza ecologica ed il conseguente ecologismo scientista, sicuramente maggioritario e comunque distante dalle domande ontologiche poste dall’autore. Nella seconda, si confronta con l’“ecologia profonda” che, per l’ascendenza sicuramente filosofica, lo sollecita a maggior tensione speculativa. Nella terza e conclusiva parte, tramite un forte richiamo alle categorie filosofiche di Nietzsche, ma in particolar modo di Heidegger e Jonas, individua la genealogia della crisi ecologica, la presunzione del dominio tecno-scientifico e le “condizioni della responsabilità” come destino di una modernità “altra”.
Relativamente all’ecologismo scientista - che sia sistemico-relazionale (fisico), termodinamico (energetico), cibernetico (cognitivo) - è accusato di avere una origine epistemologica, che lo rende un tecnicismo funzionale al modello gnoseologico causalistico e razionalistico. In ciò l’intima contraddizione di un filantropismo della conservazione della natura, che si risolve nel metterla a disposizione della sua prevaricazione, disponendola all’usura. In effetti, se l’idolo critico di questo approccio di pensiero è il meccanicismo cartesiano, il riequilibrio ecologico, pur distaccandosi dall’atomismo deterministico, rimane legato a flussi di energia, reti relazionali di informazioni, organicismi immanenti, cognitivismi metarazionali, che animano comunque un meccanismo non meno reticente sul fondamento del vivente. Dall’orologio cartesiano alla macchina a vapore regolata dalla legge dell’entropia, il passo è breve. L’ambientalismo politico si rifà massimamente a questa interpretazione «materialisticamente “naturalista” dell’ecologia», che nel gestionalismo tecnocratico distrugge la natura animata, sostituendola con una «risorsa da non inquinare». In tal senso, le parole di Wolfgang Sachs ci sembrano definitive, quando afferma che «l’ecologia, formulata sulla base della metafora della macchina, offre un tipo di sapere, che risponde all’interesse per l’utilizzazione tecnica», e che sulla base termodinamica e cibernetica è «possibile sviluppare solo un’ottimizzazione dei mezzi atti allo sfruttamento della natura». (1) L’ecologismo scientista, in definitiva, si dimostra più un aspetto della crisi ecologica che la via d’uscita da essa.
Relativamente all’ecologismo etico-filosofico, il Russo ne individua la caratterizzante “critica alla modernità”, che generalmente rifugge da ogni rimando essenziale alla scienza e si ritiene fondamentalmente culturale. L’ambientalismo filosofico, infatti, non si interroga primariamente sull’entità delle risorse e del loro sfruttamento, sulla capacità portante della biosfera e sul calcolo delle sue soglie o sul valore del capitale naturale e sui metodi della sua contabilità, ma pone la questione ecologica nei termini generali e fondamentali dell’abitare la Terra insieme agli altri esseri viventi. La “crisi”, nonostante la sua evidenza come “degrado” ambientale e dunque crisi della natura, va compresa in primo luogo dal punto di vista del “degradare” stesso, come crisi della cultura. Conseguentemente, l’indicazione operativa di questo approccio è un radicale “cambio di paradigma”, ove l’abbandono del sistema industriale e consumistico e la riduzione ai minimi necessari dell’utilizzo delle tecnologie pesanti aprirebbero un nuovo scenario etico, politico e sociale: un «riorientamento radicale della nostra civiltà», per usare le parole di Arne Naess, padre della ecosofia e, conseguenzialmente, della “ecologia del profondo”. La critica culturale di quest’ultima si può semplificare in un confronto paradigmatico tra “antropocentrismo” e “biocentrismo” dei quali il primo rappresenta la visione del mondo occidentale degli ultimi secoli, responsabile della crisi globale in cui versa attualmente l’umanità, e il secondo la “nuova visione del mondo”, in grado di por fine alla stessa crisi con un ecocentrismo imperniato sull’autorealizzazione di ogni essere vivente. Non c’è dualismo tra cultura e natura, quindi, ogni intervento sulla natura, compresa la sua distruzione nelle modalità della crisi ecologica, è un mutamento dell’uomo, finanche la sua autodistruzione: «Noi non siamo esterni al resto della natura e, pertanto, non possiamo trattarla a nostro piacimento senza cambiare anche noi stessi».(2) Esplicito, quindi, il richiamo ad una interrelazione e identificazione profonda con la natura, che diviene una visione empatica del mondo. Coerentemente, il cambio di paradigma è soprattutto una trasformazione interiore, una presa di coscienza di questo sentimento, della “connessione del tutto”.
È a questo punto che il Russo, nella terza parte del suo lavoro, passa da una descrizione critica del pensiero ambientalista alle sue considerazioni concettuali, fondate sul pensiero heideggeriano, in ecologia. In effetti, l’autore ritiene che l’ecologia del profondo si mantenga neutrale dal punto di vista morale e cognitivo relativamente a scienza e tecnica. Questo fa sì che la “visione del mondo” ecosofica consideri strumentalmente i mezzi, facendo decadere il carattere culturale della tecnica che, al contrario, è fondativo nella critica di Heidegger al nichilismo della civilizzazione. Su questo punto ci sembra che l’autore pecchi di eccessiva astrazione speculativa, in quanto le ricadute del paradigma empatico-olistico, riattualizzate dall’ecologia del profondo, hanno dichiarato potenziale effetto gnoseologico e pratico proprio sul modello tecno-scientifico. Si pensi, ad esempio, al conflitto epistemologico sulla manipolazione genetica, in cui, chiaramente, gli unici oppositori a tutti i riduzionismi indotti dal modello tecno-scientifico sono riconducibili alle posizioni emanazionistiche spiritualiste e dell’“ecologia del profondo”.
Con Heidegger, emerge il limite di qualsivoglia critica alla “visione del mondo” dominante, che si limiti all’ideologico e non si rivolga al «pensiero» fondato sull’ «esserci» ontologico e, nondimeno, storico. È il significato stesso della tecnologia, non il suo utilizzo, che dispone alla sua destinazione in quanto verità nel senso della «disvelatezza» dell’Essere. L’avvento dell’«essente» riposa nel destino dell’Essere e all’uomo resta il non piccolo problema di trovare «ciò che conviene» alla sua essenza in corrispondenza di questo destino, perché è in conformità a tale destino che egli deve custodire, come esistente, la verità dell’Essere, quindi pensare cos’è «casa» e cos’è «abitare» sulla Terra.
Non si dà corpo al destino dell’Occidente, se non si torna nietzschianamente «fedeli alla Terra» e si compie la corretta attuazione della volontà di potenza nella messa in “forma” della tecnica quale disvelamento dell’Essere. In che senso la modernità pecchi di hybris, sia smodata e tracotante, violenta e prepotente; in che senso in tutte queste designazioni non si esprima un “di più” di potenza e dominio, ma, al contrario, un “di meno” legato al confortevole universo sensistico dell’«ultimo uomo»; in che senso la strapotenza, che adula se stessa nei simboli di Faust e di Prometeo non sia altro che impotenza; in che senso, dunque, anche oggi l’urgenza prima sia, con le parole di Eraclito, «spegnere» la hybris e non solo moderarla. La tracotanza diviene quindi una “mancanza di misura”, accezione nella quale l’accento cade non su di un eccesso, su un sovrappiù, ma proprio su di una privazione e non in termini quantitativi, ma esclusivi: non si parla di maggiore o minore misura, ma del suo esserci o non esserci, del «dimorare» nei limiti o al di fuori di essi. Ecco che allora l’uomo contemporaneo celebra l’impotenza dell’esteriorità nella crescita quantitativa ed abdica alla vera potenza interiore della delimitazione, della determinazione, della forma. La hybris è l’incapacità di contenersi entro i limiti della propria forma, come perdita di ogni sovranità su se stessi, di signoria e di libertà ascetica, in primo luogo rispetto alla tecnica.
Russo, con il «principio di responsabilità» di Jonas, conclude coerentemente che questa impostazione teorica, in termini storicamente realistici, assicura scopi sostanziali all’ecologia. Implica, in primo luogo e più formalmente, che la volontà di assumersi una responsabilità autentica, posta come funzione del potere e del sapere, è immediatamente disciplinamento della tecnica, e non contro o sopra la tecnica: un disciplinamento dell’uomo nella tecnica e non l’utopico ritorno a una naturalità pretecnologica. Si tratta, insomma, di riposizionare all’interno del limite e della misura umana la tecnica stessa, di favorire il suo stesso «ritorno alla natura» come natura dell’uomo.
   

1) Sachs W., Per una critica dell’ecologia, in “Pornoecologia. La natura e la sua immagine” (a cura di) LaCecla F., Milano, 1992
2) Naess A., Ecosofia, Como, 1994, p. 208