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Yemen: i trucchi di Saleh

di Carlo Musilli - 02/04/2011




Le sta provando tutte pur di non lasciare la comoda poltrona da dittatore. Negoziati segreti, manifestazioni, offerte di compromesso, minacce, pressioni sugli alleati esteri. Dopo 32 anni alla guida dello Yemen, Ali Abdullah Saleh sembra sempre più vicino alla sconfitta. Ma intende combattere fino all'ultimo le migliaia di manifestanti che da gennaio chiedono ogni giorno le sue dimissioni. L'ennesima proposta è arrivata mercoledì sera, quando il presidente ha incontrato Mohammed al Yadoumi, leader del partito islamico al Islah, un tempo alleato del governo ed ora capofila dell'opposizione.

Saleh ha offerto di trasferire i suoi poteri ad un esecutivo provvisorio, che avrebbe il compito di traghettare il Paese verso nuove elezioni. Ma alle urne non si andrebbe prima del 2012 e, fino ad allora, il dittatore yemenita rimarrebbe al suo posto. "Saleh moltiplica le proposte inutili e le provocazioni - ha replicato Mohammad al Qahtan, portavoce dell'opposizione - e tutti questi tentativi non hanno che un unico fine, quello di rimanere al potere. Ma il presidente ha un'unica scelta: se ne deve andare".

Non solo. Dalle fila di al Islah è arrivata anche un'accusa ben precisa. Secondo lo sceicco Sadiq al Ahmar, Saleh starebbe pensando "all'esecuzione di omicidi eccellenti come soluzione per uscire dalla crisi". Nel mirino del regime ci sarebbero personalità politiche dell'opposizione.

Fra goffi tentativi d'accordo e oscuri piani sanguinari, il capo di Stato yemenita è anche costretto ad ammettere qualche sconfitta. Di fronte ai membri del suo partito ha annunciato che almeno sei delle diciotto province del Paese sono cadute in mano agli oppositori. Una debacle che si è consumata nell'arco di poche settimane, da quando molti governatori hanno deciso di aderire alla causa dei manifestanti. Nonostante tutto, Saleh si mostra ancora combattivo: "Mi rivolgo a quelli che mi chiedono di andare via - ha detto - tocca a voi lasciare lo Yemen. Avete versato il sangue dei giovani per i vostri scopi".

Nei giorni scorsi il presidente ha ufficializzato la nomina dei nuovi generali che andranno a rimpiazzare quelli passati al fronte anti-regime. Ma l'esercito di Sana'a non fa paura tanto per il suo potenziale bellico, quanto per le funzioni che non può o non vuole più svolgere. Da tempo le truppe sono concentrate nella Capitale a contrastare la rivolta, mentre le province periferiche del Paese sono abbandonate all'anarchia. Caso emblematico del nuovo scenario è la tragedia che si è consumata lunedì scorso a Jaar, nel sud dello Yemen, dove una fabbrica di armi è esplosa.

Centocinquanta persone sono morte, più di ottanta i feriti. L'esatta dinamica dell'incidente (o attentato) rimane un mistero. C'è chi parla di una sigaretta caduta per sbaglio, chi tira in ballo Al Qaeda, chi ancora sostiene sia opera dei gruppi indipendentisti meridionali. L'unica cosa certa è che da qualche giorno l'intera area fosse nelle mani di alcuni miliziani islamici. L'opposizione ha accusato Saleh di aver ritirato l'esercito dalla zona proprio perché i terroristi se ne impadronissero.

L'ipotesi è che il presidente abbia deciso di collaborare con i gruppi fondamentalisti per ingigantire e sfruttare le paure degli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni il regime è stato alleato di Washington nella lotta contro il ramo yemenita di Al Qaeda, che ha rivendicato il fallito attentato del 2009 su un aereo diretto a Detroit e i pacchi bomba sui cargo indirizzati negli Usa lo scorso ottobre. Adesso è probabile che il dittatore di Sana'a voglia rinfrescare la memoria agli amici americani, dando loro un assaggio di quello che potrebbe accadere se davvero nel Paese si compisse la rivoluzione. Si tratta di lasciare indifeso il territorio per poi poter dire: "Dopo di me, il diluvio".

Guarda caso, giovedì gli uomini di Al Qaeda hanno annunciato la nascita del loro primo emirato islamico in Yemen. Avrà sede nella provincia meridionale di Abyen, esattamente dove si trova Jaar. Secondo quanto annunciato dagli stessi terroristi via radio, i loro gruppi armati avrebbero già occupato il palazzo presidenziale e l'area intorno alla città.

Ma non è solo il sud a doversi preoccupare. Nella provincia centrale di Maarib, ad esempio, il governatore è stato accoltellato per aver cercato di disperdere i manifestanti. Anche qui Al Qaeda è molto attiva. Secondo fonti militari, di recente i terroristi avrebbero attaccato una stazione dell'esercito, uccidendo sette soldati e ferendone altri sette. Questo dimostrerebbe che se davvero Saleh punta a sfruttare l'organizzazione criminale, quantomeno il suo piano non poggia su una vera alleanza con i miliziani.

Intanto ieri è stato un altro giorno di manifestazioni a Sana'a, dove gli oppositori e i sostenitori del presidente hanno dato vita a due diversi cortei, separati da un solo chilometro di distanza. Dopo la strage di due settimane fa, quando 52 persone furono massacrate dai cecchini in piazza del Cambiamento, era ancora grande la paura della violenza. Per questo gli organizzatori della protesta contro il dittatore hanno deciso di non marciare fino al palazzo presidenziale, come all'inizio avevano programmato. Dal canto suo Saleh ha ribadito di fronte ai suoi fedeli che intende "sacrificarsi" per il popolo yemenita "con il sangue" e con tutto quello che ha "di più caro".

Forse per dar prova di buona volontà, nei giorni scorsi il presidente ha ordinato il rilascio di decine di attivisti che da settimane erano rinchiusi in prigione. Non si sa se lo abbia fatto davvero come gesto conciliante o se semplicemente abbia voluto evitare che i manifestanti prendessero d'assalto le carceri. Fatto sta che a nessuno è venuto in mente di ringraziarlo. Sono rimasti in pochi, nello Yemen, a non saper riconoscere i trucchi di Saleh.