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A Sud (ea Est?) del Mediterraneo

di Franco Cardini - 04/04/2011

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E’ presto per capire che cosa sta succedendo nel mondo arabo, a sud del mediterraneo e non solo; è
presto per rendersi conto se e in che misura quel che sta accadendo nei paesi arabi d’Africa (ma anche in
Siria) cederà il passo a nuove forme di “normalizzazione”, e di che segno esse saranno, o dilagherà nella
direzione di altri paesi musulmani; oppure in quella di altri paesi africani. L’alternativa non è priva né
d’importanza, né d’interesse. Perché nel primo caso ciò significherebbe forse che l’elemento religioso ha
comunque un ruolo primario nel vento di cambiamento che sta soffiando dal Marocco alla Siria, sia pur con
un’intensità diversa e non necessariamente nelle medesima direzioni. Nel secondo, invece, dimostrerebbe
come una volta di più i nostri media, sistematicamente trascurando di collegare le questioni del continente
africano con quelle del mondo arabo-musulmano salvo quando erano obbligati a farlo dalla drammatica
evidenza (come in Sudan o in Somalia), ci abbiano disinformato e in ultima analisi – una volta di più –
ingannato. In questo momento, la Costa d’Avorio - 21 milioni di abitanti distinti in parti quasi uguali tra
cristiani, musulmani e aderenti a “culti etnici”; e paese indipendente da mezzo secolo dalla Francia, ma
ufficialmente francofono e collegato all’antica dominatrice - rischia un’ ennesima violentissima crisi politica,
forse più forte delle precedenti, nonostante la presenza dal 2004 di un contingente di pace ONU di oltre 6000
militari. In Costa d’Avorio ci sono petrolio, gas naturale diamanti, manganese, cobalto; il PIL pro capite è di
1700 dollari (tanto per intenderci: da noi è di 29.900). Quel paese è una delle nostre pattumiere: nel 2006
una nube tossica investì la sua principale città, Abidjan, intossicando oltre 30.000 dei suoi 4 milioni di abitanti
(la compagnia petrolifera responsabile dello scarico di scorie tossiche all’origine dell’incidente è stata
condannata a un risarcimento di quasi 50 milioni di dollari, che sarebbe interessante sapere se e quando
siano stati pagati e dove siano andati a finire. Non sarebbe questo, per dirne una, un argomento per una
puntata di Porta a Porta osiamo dire più avvincente del confronto tra Alessandra Mussolini ed Emanuele
Filiberto di Savoia o delle vicende sentimentali dal “triangolo” Bocchino-Carfagna-Mezzaroma?
Cominciamo dunque da qui. Dalla disinformazione. Il nostro sistema mediatico è anzitutto dominato da
una regola infame: si parla poco di tutto quel che sarebbe importante, senza sistematicità, mischiando di solito
argomenti di grande rilievo a pure, futili curiosità; e seguendo per giunta l’antiregola secondo la quale si
discute animatamente delle cose mentre accadono e la cortina fumogena dei fatti in corso impedisce una seria
e pacata analisi, mentre si cessa di aprlarne non appena esse escono dalla contemporaneità e divengono
quindi un po’ più chiare. Il principio della “tempestività”, del “tempo reale”, soffoca quello della nacesiità
d’informazioni compiute. Ecco perché di quel che sta accadendo in Marocco, in Algeria e in Tunisia per il
momento non sappiamo nulla. L’opinione pubblica è condannata a non sapere nulla (salvo beninteso il caso
di avvenimenti esplosivi che sia impossibile celare) del fatto che in Algeria come in Giordania – paesi
rispettivamente ben “protetti” dall’”amicizia” con la Germania e gli USA – una repressione dura e sistematica
(per quanto rispettivamente diversa) ha impedito almeno fino ad oggi alle proteste di giungere a un punto tale
da minacciare i poteri costituiti: e non perché la gente ne sia particolarmente soddisfatta, bensì perché USA e
NATO, che i casi tunisino ed egiziano avevano preso nel febbraio scorso di contropiede, sono prontamente
corsi ai ripari sostenendo i governi e zittendo l’informazione in modo da non turbare un equilibrio da essi
gestito. Ciò vale ad ancor più forte ragione per l’Arabia saudita e gli emirati del golfo, nei quali la repressione
degli scontenti è stata – secondo le tre regole fondamentali della perfetta repressione – spietata, rapida e
segreta. Una segretezza favorita a dire il vero dalla consueta complicità dei nostri grandi media. Se in alcuni
casi il silenzio dei governi e dei media si spiega con la necessità di sostenere i governi repressivi ma
filoccidentali, in altri casi esso è spiegabile solo alla luce del fatto che, quando non vi siano interessi rilevanti in
corso, il celebrato generoso umanitarismo che presiede a certi pronti interventi (da quello in Iraq nel 2003 a
quello attuale in Libia) si guarda bene dallo scattare. Così il Eritrea, dove nel 2008 il consiglio di sicurezza
dell’ONU ha interrotto la missione di pace decisa un anno prima e il carattere umanitario della quale era
ostacolato dal governo, dichiarato “uno dei più repressivi del mondo” da un rapporto presentato l’anno dopo
dalla Human Right Watch. Ma l’Eritrea è un paese povero, che vive d’agricoltura a parte una buona
produzione di energia elettrica (il PIL pro capite è di 700 dollari) e che ha una disastrosa bilancia commerciale.
Evidentemente non interessa a nessuno: gli eritrei possono continuar a vivere male sotto una tirannia: è un
povero paese in quanto è un paese povero.
Circa la Tunisia, paese che si regge principalmente sul turismo, la pesca e le attività artigianali e che ha
una modesta riserva di petrolio greggio (425 milioni di barili: per farsi un’idea, le riserve libiche ammontano a
quasi 50.000 milioni di barili, vale a dire più del centuplo), le potenze continentali prese di contropiede non
hanno cero gradito la caduta del feroce e corrotto Ben Ali, ma in fondo hanno almeno per ora incassato il
colpo. Nel 2002, i servizi israeliano e tedesco attribuirono al solito capro espiatorio, al-Qaeda, un attentato a
Djerba, ma sembra che nel paese i fondamentalisti non siano stimati né troppi né troppo pericolosi. Da qui
l’atteggiamento attendista nei confronti del nuovo governo e la non remota possibilità che si consenta ai
tunisini di sviluppare un loro modesto “laboratorio di libertà civili”. Si è parlato molto, al riguardo, di “rivolta
giovanile in un paese giovane” (il che è vero), di posizioni politiche in rapida dinamica grazie all’uso del web e
del face book, e insomma di postislamismo.
Qualcuno si è fatto prendere dall’entusiasmo e si è chiesto se non si sia addirittura dinanzi a un inatteso
“Sessantotto musulmano”, che potrebbe cambiare molte carte sul tavolo da gioco del mondo.
Quel che è successo in Tunisia, certo, indurrebbe a pensar qualcosa del genere. I ragazzi (e soprattutto
le ragazze) che abbiamo visto impegnati per i diritti civili sono importanti. La maggior parte dei paesi poveri,
cioè quegli oltre quattro miliardi che vivacchiano su meno del 20% delle ricchezze mondiali (mentre noialtri
“settentrionali”, o se preferite “occidentali”, ne gestiamo più dell’80%), è fatta di men che venticinquenni. Un
miliarduccio di ricchi occidentali invecchiati, la maggior parte dei quali tra una ventina d’anni sarà
ultrasettantenne, versus oltre quattro miliardoni di poveri ragazzini magari sprovveduti e disinformati, ma
vogliosi di cambiamenti. Magari di rivoluzioni.
Interessante: ma dovremmo anche preoccuparci un po’. Invece, ci sforziamo seraficamente di
risistemare il tutto nel Letto di Procuste dei nostri vecchi schemi: e, dinanzi alle proteste giovanili che dilagano,
ci si chiede che fine farà il fondamentalismo islamico là dov’esso esercita il suo soffocante potere. Come se
fosse certo che esso sia il loro principale obiettivo.
Per esempio in Iran. Sul sistema politico iraniano da noi - e non per colpa degli iraniani -non si sa
quasi nulla: esso è comunque grosso modo pensato da tutti o quasi come una tirannia clericale. Chi conosce
un po’ l’Iran sa bene che, al contrario, la “repubblica islamica” è semmai una tumultuosa democrazia
assembleare, dove si discute e si litiga di continuo. Il fatto che il “regime” ogni tanto chiuda questo o quel
giornale d’opposizione, viene assunto da noi come una prova di tirannia. Ma vi risulta che le dittature chiudano
giornali d’opposizione? Quanti ne ha chiusi Hitler? Quanti Stalin? Nemmeno uno: non ce n’era. La chiusura
dei giornali iraniani è uno dei tanti episodi della contesa fra una ribollente opinione pubblica, abituata fin dal
’79 all’assemblearismo, e una “cupola” di teologi costituzionalmente chiamati a custodire i valori dello stato
islamico ma tutt’altro che padroni incontrastati della situazione.
Insomma, bisogna radicalmente modificare il nostro punto di vista sull’Islam e accettare una buona
volta il fatto ch’esso è una realtà multiforme e piena di potenzialità: proprio come la descrive Khaled Fouad
Allam nel suo prezioso L’Islam globale (Rizzoli). Ha bisogno di un nuovo Sessantotto, l’Islam? Forse. Come ne
abbiamo bisogno anche noi: per svegliarci dal sonno stregato dell’unanimismo, del “pensiero unico”, del
primato dell’economia, del politically correct, dell’ottimistica illusione liberal-liberista.
Comunque, ciò vale soprattutto per la Tunisia, dove si voglia o no il regime inaugurato da Burguiba
incise molto sulla “occidentalizzazione” del paese. E’ vero: queste cose non sono irreversibili: lo dimostra la
parziale retromarcia della Turchia e quella, in apaprenza quasi tortale, dell’Iran. Ma sono comunque cose
significative e destinate a segnare i paesi musulmani in modo duraturo. Diverso il discorso sull’Egitto,
anch’esso a suo tempo fortemente occidntalizzato dalla “rivoluzione araba”, ma dove oggi l’attenzione
riguradante il suo cambiamento di ergime è più viva. Ci sono il canale di Suez e la linea di confine con Israele
(il che vale anche per Giordania, Libano e Siria) a venir considerati come prioorità: basti tener presente il
problema del confine con la striscia di Gaza, un problema che Israele e quindi USA considerano innegoziabile.
L’Egitto appare oggi abbastanza saldamente tenuto sotto il controllo d’una giunta militare la fedeltà della quale
alla linea della NATO appare indiscutibile: mentre gli effettivi pericoli di una “crescita dei fondamentalisti”
appare la solita tigre di carta, visto che i Fratelli Musulmani appaiono per il momento attestati (contrariamente
a quel che i media occidentali si erano apprestati a dichiarare) su posizioni moderate e sorvegliate.
Si sta insomma imponendo, nei movimenti islamici fino ad oggi ritenuti “estremisti” (e quindi ipso facto
fiancheggiatori della solita al-Qaeda, il che non è affatto vero), qualcosa che si potrebbe definire l’influenza del
“modello turco”, un Islam “confessionale” sì (secondo il bislacco linguaggio tanto sviante quanto prediletto dai
nostri media), ma tutto sommato non incompatibile con un “possibile”, e beninteso “parziale”, “sviluppo
democratico”? E’ un fatto che la Turchia di Erdogan sta acquistando sempre più credito nel mondo araboislamico:
e che al tempo stesso ha assunto negli ultimi anni una posizione sempre più dinamica,
allontanandosi dalla tradizionale politica filostatunitense e filoisraeliana anche a causa (com’era prevedibile)
dello sviluppo dell’jndipendentismo curdo in Irak favorito dal governo collaborazionista nei confronti degli
occupanti occidentali, che peraltro non riesce a evitare che, al suo interno, sempre più peso venga acquistato
dagli sciiti che – non senza peraltro una certa ambiguità - celano a fatiche le propensioni filoiraniane; il che
non toglie che il governo d’Istanbul si sia avvicinato negli ultimi tempi a quello di Teheran (rompendo una
secolare situazione d’inimicizia politica fra chi domina la penisola anatolica e chi governa l’altipiano iranico)
data la comune preoccupazione sia nei confronti del movimento nazionalista pancurdo giudicato
destabilizzante di tutta un’area estesa fra il Tauro e l’Elburz, sia nei confronti dell’arsenale atomico israeliano
che, com’è noto ma non esplicitato da nessuno, è uno dei fatti di maggior rilievo obiettivo in tutto l’equilibrio (o
meglio, lo squilibrio) vicino-orientale: e non tanto e non solo per le centrali del Negev, abbastanza conosciute,
quanto per le preoccupazioni collegate alle testate atomiche a bordo dei sommergibili, che in caso di un
deprecabile incidente provocherebbero una catastrofe mediterranea di proporzioni inimmaginabili.
Il caso della Libia è stato poi obiettivamente d’una gravità senza precedenti: più grave, per
certi aspetti, dell’illegalità internazionale che ha presieduto all’avventura degli USA e poi della NATO in
Afghanistan a partire dal 2001 e all’aggressione dell’Iraq, nel 2003, da parte di Bush e quindi della coalizione
da lui voluta (è noto come, in entrambi i casi come nel precedente, quello serbo-kosovaro, il nostro paese
abbia avuto il disonore di partecipare alle sciagurate imprese). Nel caso della Libia, che si fosse di fronte a un
dittatore feroce, corrotto, maniacale e senza scrupoli, era cosa nota da molti anni; com’era regola non scritta,
ma sistematicamente applicata dall’Asia all’Africa all’America latina, che i “dittatori”, o coloro che quando fa
comodo vengono con tale epiteto indicati, siano sons of e bitch, but our sons of a bitch finché sono utili ai
nostri interessi, salvo diventare tiranni da rovesciare (e i loro paesi allora “da liberare”, magari con una
tempestiva “esportazione della democrazia”) quando non servono più o cominciano a disturbare. Gheddafi,
dopo una lunga fase nasseriana, una musulmano-integralista e una panafricanista, aveva adottato a partire
dal 2003-2004 una linea progressivamente filoccidentale, culminata nel 2009 in un accordo petrolifero
anglolibico (che provocò da parte britannica la liberazione dell’agente libico al-Megrahi, già condannato per
l’attentato di Lockerbie e accolto al suo ritorno in Libia come un eroe. Anche l’Italia di Berlusconi aveva
beneficiato di un accordo, a fronte del quale si era impegnata fra l’altro a non prestare mai le sue basi aeree a
chiunque avesse voluto attaccare la Libia. Ma, dai noti esempi del 1915 e del 1943, di che pasta sia fatta la
Italica fides è purtroppo nota.
E’ accaduto alcune settimane or sono che la rivolta delle tribù avverse alla dittatura personal-familiartribale
del colonnello, che si sono tempestivamente e rapidamente impadronite della Cirenaica, sia
tempestivamente coincisa (troppo tempestivamente, secondo alcuni osservatori) con alcuni passi compiuti dal
governo libico per consentire in qualche modo anche a imprese russe, indiane e cinesi di accedere al
controllo e alla compartecipazione negli affari petroliferi libici. Sono stati soprattutto i francesi, seguiti a ruota
dagli inglesi, a dir quattro senza curarsi che Gheddafi fosse davvero nel sacco: ma il fatto che l’ONU, dopo
un’iniziale esitazione, abbia ceduto all’atto di forza voluto da Sarkozy e si sia allineato sulle sue posizioni ha
determinato una situazione internazionale gravissima, segnata da un’illegalità forse mai vista finora e rispetto
alla quale il presidente Obama ha mostrato una debolezza e un’indecisione confinanti con l’incapacità. Si è
visto violare apertamente il principio della sovranità di uno stato membro dell’ONU: si è platealmente agito nel
pieno disprezzo del principio dell’autedeterminazione dei popoli ricorrendo a un “principio d’intervento”
d’infausta memoria nel nome del quale non si è nemmeno provato – nonostante alcune fiacche dichiarazioni
iniziali – a stabilire una forza internazionale d’interposizione che tutelasse i civili e al tempo stesso consentisse
una seria e decisa azione diplomatica tesa a costringere le parti a far tacere le armi e a sedere al tavolo delle
trattative. No: dopo alcune grottesche e contraddittorie dichiarazioni nelle quali si sosteneva ora che
l’abbandono del governo da parte di Gheddafi non era l’obiettivo delle pressioni militari, ora che egli doveva
comunque lasciar la guida del suo paese, si è proceduto a bombardamenti di fatto indiscriminati,
unilateralmente diretti contro le forze lealiste, che anziché tutelare la popolazione civile hanno provocato danni
e vittime di cui essa è stata invece il principale obiettivo, col dispiego di armi illecite e con l’abbondanza di casi
di “fuoco amico” e di “danni collaterali” che riconduce al tragico déja vu kosovaro, irakeno e afghano. Intanto,
la NATO rileva che nella file dei “ribelli” libici vi sarebbero elementi legati a Hezbollah e ovviamente ad al-
Qaeda, ma che al tempo stesso personaggi come il leader del “Consiglio Nazionale di Transizione” Abdel Jalil
sarebbero “affidabili”. Un aggettivo che vorrebbe essere tranquillizzante e che invece scopre brutalmente le
carte. I “volonterosi”, ai quali l’ONU si è affrettata ad affidare un mandato legittimante, e al cui interno la
frattura tra francoinglesi da una parte e americani dall’altra è evidente, non intendono affatto “pacificare” il
paese, né hanno lo scopo di tutelare un suo sviluppo “democratico”, vale a dire coerente con la volontà del
popolo libero serenamente espresso. Come nel caso dell’Egitto, si evidenzia il “rischio” che il popolo libico,
chiamato a decidere liberamente, non scelga in modo “corretto”: la democrazia è una gran bella cosa, a patto
che vada nella direzione desiderata. Se ad esempio minacciasse di virare verso lidi “fondamentalisti”
considerati indesiderabili e pericolosi, non si esiterebbe a “correggerla”. In altri termini, siamo nel
neocolonialismo più puro: un governo infame dev’essere defenestrato non per i suoi delitti contro il suo
popolo, ma per i rischi che accordi concessioni petrolifere che non piacciono ai padroni dell’economia e della
finanza mediterranea. Quanto ai movimenti popolari, essi vanno giudicati non sulla base della loro presunta e
presumibile rappresentatività nei confronti delle aspirazioni effettive dei popoli, ma della loro prossimità o
discordanza rispetto alle posizioni politiche a noi gradite. Un esempio caratteristico di ciò provenne dai tono
scandalizzati e preoccupati con i quali si giudicò qualche settimana fa una dichiarazione demagogica e
retorica formulata al Cairo da un esponente del pensiero vicino ai Fratelli Musulmani – ma con esso non
suscettibile d’identificazione – al-Qarawadi, il quale si dichiarava, applaudito, disposto a sacrificarsi per “la
liberazione di Gerusalemme”.
Va detto che Qarawadi non è un “Fratello Musulmano”, per quanto in passato abbia aderito, da
giovane, a tale organizzazione. Oggi è un pensatore indipendente che, giovandosi del suo prestigio religioso,
emette delle fatwa che non sono però vincolanti per nessuno. Egli appartiene comunque alla wasatiyya, una
corrente di pensiero islamista moderato (su cui il riferimento più autorevole è R. Baker, Islam without fear.
Egypt and the new islamists, Harvard University Press, 2003. Che i “Fratelli Musulmani” abbiano avuto in
passato e che soprattutto abbiano oggi una posizione moderata, incline al confronto con le istituzioni e
all’accettazione dei metodi della democrazia rappresentativa, è cosa ampiamente trattata e dimostrata da H.
al-Awadi, In pursuit of legitimacy. The Muslim Brothers and Mubarak, London-New York, Tauris, 2004, quindi
da B. Rutherford, Egypt after Mubarak, Princeton University Press, 2008, e recentissimamente dal
fondamentale I fratelli musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini e K. Mezran, Torino,
UTET, 2010. Ovviamente, in un’organizzazione vasta e ramificata le correnti sono molte e non mancano
quelle radicali: ma il mainstream di essa ha abbracciato una linea molto moderata, come dimostrano i due
partiti fondati dai “Fratelli Musulmani” in Egitto (“Giustizia e Libertà”) e in Tunisia, dove il leader Rashid
Ghannusi, che sotto ben Ali ha subito trent’anni d’esilio, al suo ritorno ha immediatamente costituito un partito
che sta agendo con grande correttezza, al-Nahda. Dei “Fratelli Musulmani” ha parlato con favore in febbraio
anche il quotidiano della CEI, “Avvenire”, sottolineando come essi si siano sempre opposti alle violenze contro
i cristiani copti e al trattamento discriminante contro i cristiani. Le debolezze e le contraddizioni dei “Fratelli
Musulmani” sono invece rilevate con attenzione e dottrina da A. Elshobaki, Les Frères Musulmans des
origines à nos jours, Paris, Karthala, 2009. Il riferimento di Qarawadi a Gerusalemme è certo allarmante, ma
va inteso nel contesto delle reazioni alla dichiarazione unilaterale di pieno, completo e perpetuo possesso
della Città Santa da parte dello stato d’Israele, una dichiarazione contestata dalle Nazioni Unite e dagli stessi
Stati Uniti d’America. Si può certo stigmatizzare la violenza delle dichiarazioni di Qarawadi, ma non si può
fingere d’ignorare che una delle ragioni del perdurante squilibrio della situazione vicino-orientale sta nella
mancata soluzione della crisi israeliano-palestinese; né si possono assumere tutti i segni di scontento
provenienti dal mondo arabo per tale mancata soluzione come sintomi di perdurante o di crescente
estremismo. Non è affatto strano che le scelte unilaterali dei vari governi israeliani – e basti pensare agli
insediamenti di coloni in territorio palestinese -, disapprovate dalle Nazioni Unite e portate avanti a causa del
veto americano a qualunque misura in sede di consiglio di sicurezza, vengano accolte con indifferenza
dall’opinione pubblica non diciamo araba, ma addirittura internazionale. Al di là della loro ingiustizia esse
danneggiano e compromettono tutti, a cominciare da Israele stesso, in quanto causa continua di tensioni e
d’insicurezza. Ma la questione dello statuto di Gerusalemme e quella della crisi israelo-palestinese continuano
ad essere il “convitato di pietra” di qualunque discussione sulla situazione mediorientale. Finché perdurerà tale
stato di fatto, vano sarà sperare nel raggiungimento di un’autentica pace.
In Siria, siamo probabilmente solo all’inizio di una dinamica che potrebbe condurre a una modificazione
istituzionale anche profonda e a riforme importanti: ma non è detto che la crisi “nel” regime sia ancora, con
chiarezza, la crisi “del” regime. Non c’è dubbio che la dittatura familiare appoggiata al partito unico Baath e al
prepotere della setta alawita che mantiene il controllo di esercito e di polizia sia mal tollerato da molti siriani,
come non c’è dubbio che le scelte di Assad preoccupino occidentali e israeliani per i suoi rapporti con Iran ed
hezbollah libanesi (ma non dimentichiamo che in Libano il partito Hezbollah è attualmente appoggiato anche
da parte del mondo cristiano-maronita) come per le sue permanenti rivendicazioni nei confronti del Golan. Non
è però né corretto né consigliabile svalutare in via preliminare e pregiudiziale la documentazione ufficiale
prodotta dal governo di Damasco, che ha ricevuto ampia attenzione in Francia e in Germania anche da parte
dei media mentre in Italia è apparsa taciuta o trattata con distratto disprezzo. Già alcune settimane or sono
trapelarono notizia riguardanti notevoli eventi in Iran: ma tutto si risolse con alcune manifestazioni nel centro di
Teheran, senza risonanza in altri centri. Si può accettare acriticamente il principio che se certe proteste non
conducono a risultati apprezzabili ciò dipende solo dalla durezza e dall’efficacia della repressione? E in questo
caso, perché la regola che sembra valere nei confronti dei governi siriano e iraniano non vale in quello del
governo saudita o di quelli del golfo, dove il silenzio viene fatto passare come assenza di scontento visibile?
Insomma, il quadro generale deve richiamarci a qualcosa di molto allarmante, che pregiudica non le
giovani, fragili e imperfette democrazia in atto o in fieri nei paesi arabi, bensì – al contrario- proprio la nostra.
La disinformazione, l’inadeguatezza e la mancanza di obiettività della stragrande maggioranza dei nostri
media, in evidente difficoltà nel comprendere e, peggio ancora, nel riferire e nello spiegare quanto sta
accadendo. I due elementi che parrebbero emergenti nelle interpretazioni proposte si mostrano, tradotti nel
linguaggio divulgativo con cui si cerca di affrontare la politica internazionale, contraddittori. Da una parte, si
dice, questa gente – dal Maghreb al Vicino Oriente - ha voglia di “democrazia”, di “entrare nella Modernità”.
Dall’altra, si teme ch’essa si faccia plagiare e conquistare dai “fondamentalisti” o addirittura ceda alla violenza
o al ricatto di al-Qaeda.
Al riguardo, si dovrebbe una volta per tutte far giustizia di un colossale e infondato luogo comune. “Al-
Qaeda” non esiste. Non che non ci siano – intendiamoci - maggiori o minori centrali di terrorismo nel mondo
musulmano. Il punto è che sia i musulmani più estremisti e antioccidentali, sia le fonti politiche e informative
occidentali meno inclini all’intesa o al dialogo, si sono da tempo appropriati con paradossale concordia di
questa specie di “iperleggenda metropolitana internazionale” dei giorni nostri. Nata come pura e semplice
espressione convenzionale (“al-Qaeda” significa “base”) per indicare una ventina di anni or sono, al tempo
della “prima guerra del Golfo”, qualunque gruppo o gruppuscolo terroristico in grado di appoggiare alla sua
azione militare un minimo di propaganda politica, la parola ha finito col venir usata in senso intimidatorio sia
dai terroristi per intimidire i loro avversari, sia dai fautori della repressione indiscriminata per allarmare le
rispettive opinioni pubbliche spingendole a credere che tutti i musulmani non filo-occidentali fossero dei
fondamentalisti, che tutti i fondamentalisti fossero terroristi e che tutti i terroristi fossero collegati tra loro da
un’istituzione politico-militare coordinatrice comune e da una generale concordia d’intenti. Al-Qaeda, in questa
sorta di costruzione mitopoietica, è divenuta qualcosa di molto simile all’Organizzazione Spettro dei film di
OO7 di alcuni anni fa.
Insistiamo su questo aspetto del problema. Il termine al-Qaeda, “la base”, cominciò come ho or ora
ricordato a venir usato negli Anni Novanta per indicare alcuni gruppi terroristi. Sulla scorta poi di alcuni
equivoci e di una buona dose di manipolazioni – delle quali sono responsabili anzitutto i “servizi” statunitensi –
si andò creando l’immagine di una sorta di organizzazione centralizzata, piramidale, gerarchica, con i suoi
programmi e i suoi quadri dirigenziali. All’equivoco alimentato dai servizi si aggiunsero anche quelli voluti da
molti degli stessi gruppi terroristici, che cominciarono ad arrogarsi l’etichetta “fortunata” e a rivendicare nel suo
nome attentati e azioni vari. La costruzione della mitologia alquaedista serviva e serve agli “opposti estremi”:
ai servizi e ai settori dell’opinione pubblica legata agli ambienti oltranzisti, che intendono così giustificare
misure repressive e spese del pubblico denaro; e agli ambienti terroristici – in perenne lotta tra loro, e discordi
su quasi tutto in una fitna infinita - che intendono così guadagnare credito e rendere più temibile, con tale
mossa propagandistica, la loro azione. Ciò fu già denunziato fino dal 12 gennaio 2003 in un articolo di Jason
Burke uscito sull’”Observer”, mentre il 19 luglio 2008 Marc Sageman – figlio di un sopravvissuto all’Olocausto
e tra i principali esperti del City Police Departement di New York – si esprimeva in termini analoghi in
un’intervista raccolta da Christopher Dickey su “Newsweek”. L’opinione che al-Qaeda, come organizzazione
coerente, non esista, è stata sostenuta con forti argomenti da Adam Curtis in un documentario che il 18
gennaio 2005 fu diffuso dalla BBC (cfr. news.bbc.co.uk/2/hs/programmes/3755686,stm). A tutt’oggi,
nonostante le ripetute notizie sulla cattura o l’uccisione di leaders di al-Qaida, nessuno ha mai fornito notizie e
prove obiettive a proposito dell’organizzazione, dei suoi strumenti, delle sue sedi, del suo apparato. Che
credere nella sua esistenza serva ai nostalgici di G.W.Bush jr. e agli orfanelli dell’ingegner Bin Laden, non
prova nulla. Di solito, si cita come sicura auctoritas riguardo alla “realtà” di al-Qaeda lo studio di Lawrence
Wright edito in Italia dagli Adelphi, che si regge però largamente su testimonianze insicure o sospette di
manipolazione, adotta una metodologia "nominalistica" (non basta rilevare l'uso di un'etichetta per inferirne
cose sicure sui contenuti) e in ultima analisi non riesce a darci le prove sicure, non trova "la pistola fumante"
(del resto quando ci hanno detto di averla trovata, come in Iraq, le cose sono andate come sappiamo). E'
ovvio che, mentre si può provare (o sostenere di aver provato) che una cosa esista, è impossibile provare il
contrario. Comunque, fino a quando non saranno state fornite le prove documentarie dell'esistenza di una
realtà gerarchica, organizzata, centralizzata e cosciente di esserlo, sarà corretto sostenere che i terroristi ci
sono, che al-Qaeda è una sigla abusata da loro e dai commentatori occidentali, ma che le prove della sua
realtà non esistono.
Il che – intendiamoci - non vuol dire che non ci siano i terroristi: ci sono eccome, e alcuni tra i loro gruppi
sono in cerca di alleanze tattiche o strategiche. Ma in linea generale essi fanno parte del complesso panorama
della fitna, la “guerra civile” che coinvolge da anni l’intero mondo musulmano: tra moderati ed estremisti, tra
estremisti di opposte scuole, tra sunniti e sciiti, fra tradizionalisti e fondamentalisti, fra tradizionalisti e
fondamentalisti da una parte e “progressisti-moderati” dall’altra.
E allora, noi scopriamo di essere riguardo a queste cose dannatamente ignoranti e disinformati. Eppure,
di mondo arabo e d’Islam si parla tutti i giorni, da un trentennio almeno. Che cosa ci è successo? Che cos’è
andato storto? Chi aveva il dovere di farci capire un po’ meglio le cose come stanno e non lo ha fatto?
Ma soprattutto, insomma, in questo benedetto mondo arabo che cosa vuole “la gente”? Ce l’hanno o
no con noi? E perché? E chi li guida, chi li inganna, chi li sobilla?
Si sono ribellati in tutto il Nordafrica contro regimi inetti, corrotti e violenti. Sapevamo che tali regimi
erano tali. Ciò significa che gli arabi vogliono la “democrazia”? Certo. Ma quale? La nostra? Quella che
abbiamo tentato di “esportare” in Iraq e in Afghanistan? Se si ribellano contro delle dittature in nome della
democrazia, non possiamo non riconoscerli come nostri fratelli. Il punto però è che quei dittatori che hanno già
rovesciato, come Ben Alì e Mubarak, e quello che stanno cercando di rovesciare, Gheddafi, erano da tempo
non solo nostri amici e alleati, ma perfino soci in affari: dal petrolio alle Società per Azioni alle Banche.
Qualcuno aveva perfino coniato la neoparola “democratura” per definire i loro regimi: dittature sì, ma che a
livello mondiale appoggiavano la democrazia. Stavano proprio così, le cose?
Prendiamo l’Egitto e i “Fratelli Musulmani”. Agiscono in quel paese dagli Anni Trenta; sono stati un
formidabile strumento di lotta anticolonialista, ma sostenevano la loro azione con la ferma sicurezza che solo
all’interno dell’Islam i popoli musulmani avrebbero potuto trovare la loro strada verso la Modernità. Il regime
arabo-socialista di Nasser e i dittatori militari “moderati” che gli sono tenuti dietro (“moderati” in senso
internazionale, in quanto amici dell’America e non avversari giurati d’Israele) li hanno duramente e
ferocemente perseguitati. Eppure, eravamo pronti a giocare che in fondo si trattasse di pericolosi e fanatici
“fondamentalisti”. Sono stati parte notevole delle forze che hanno rovesciato Mubarak: li abbiamo visti agire, li
abbiamo sentiti parlare, e ci siamo ersi conto che si tratta, al contrario, di una forza politica equilibrata e
ragionevole. Certo, continuiamo a sospettare di loro. Ma che cosa faremo, se alla prima competizione
elettorale seriamente libera, in Egitto, dovessero acquisire la maggioranza? Li lasceremo governare, nel nome
della democrazia? O stabiliremo che la “loro” democrazia” non è la “nostra”, e per esportare quest’ultima o
qualcosa che le somiglia cercheremo di calpestare i loro diritti e obbligarli a far come vogliamo noi? Badate: è
già successo in Algeria, ai primi degli Anni Novanta, e non è che sia andata bene.
Forse, dovremmo piuttosto cercar di capire una cosa. Per il momento, dai vari movimenti di rivolta può
uscire di tutto: potrebbero prevalere qua i “fondamentalisti”, là i “liberali” postislamici, altrove altri gruppi che
stanno ancora nell’ombra e che noi non riusciamo a decifrare. E’ ovvio che le potenze occidentali e anche le
altre – a cominciare dalla Cina, ormai profondamente radicata in Africa – cercheranno di tirar le differenti
situazioni dalla loro. Vedremo: ed è presto per azzardar conclusioni di sorta.
Una cosa però, almeno una, è chiara. Questa gente che si ribella, o che difende le sue posizioni, ci
conosce ormai bene: molti di loro hanno parenti che vivono e lavorano tra noi, quasi tutti vedono i nostri canali
TV e moltissimi navigano in internet. Ci sono molto vicini: troppo, per non rendersi conto che la nostra
prosperità, inarrivabile per loro, poggia in gran parte sulle ricchezze che noi dreniamo dal loro mondo e sul
loro lavoro come manodopera. Questo è il punto da capire e da discutere. Non il fanatismo religioso, ma la
sperequazione economica; non la libertà di pensiero, ma la ridistribuzione delle ricchezze; non l’opportunità
politica, ma l’esigenza di giustizia. Siamo maturi per affrontare questo problema in modo non miope e non
egoistico?