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Emergenza emigranti. La colpa è nostra

di Miro Renzaglia - 04/04/2011


Odio aver ragione. O meglio: odio quando sono costretto a dire “avevo ragione io”. Di più, odio quelle formulette, ancora più insulse, perché più viscide, che ribadiscono lo stesso concetto tipo: “Come avevo previsto”, “Ve lo avevo detto”, “Era chiaro che…”. Però – come si dice a Roma – quando ce vo, ce vo.

Per mesi mi sono preso addosso tutti gli sputi della destra radicale per aver sostenuto un principio semplice semplice: il problema dell’immigrazione, più o meno clandestina, è un fenomeno prodotto dalle politiche di rapina che l’Occidente capitalista compie nei paesi del terzo mondo. Pretendere di affrontare la questione con i respingimenti, con i Cie, con l’inasprimento delle pene per i clandestini, con gli accordi bilaterali con i Paesi di origine dei flussi, non serve a niente. Sarebbe come se un medico pretendesse di curare un tumore, incidendo sulle metastasi e lasciando intatta la massa tumorale: o prima o poi, la malattia riaffiora. Solo per questo, mi hanno dato del traditore, del coccola negri, fautore dell’immigrazione senza controllo, del melting pot, nemico della razza e perfino della nazione.

Vi dico la verità: avrei preferito mille volte ammettere di avere avuto torto, piuttosto del contrario. Ma ora che la guerra di Libia ha riaperto le dighe dei flussi e decine di migliaia di clandestini si sono riversati sulle nostre coste, c’è qualcuno che abbia l’onestà di ammettere che avevo ragione? C’è qualcuno che sa cogliere il nesso causa effetto fra quello che l’Occidente ha provocato in questi ultimi mesi sostenendo prima le rivolte in Tunisia ed Egitto, e quindi destabilizzando politicamente quei paesi rendendoli ingovernabili, al fine – ormai è chiaro – di isolare la Libia e poi aggredendo militarmente quest’ultima?

Io sostengo – questo sì, lo rivendico –  che l’uomo ha diritto ad emigrare. Che quella della migrazione è una sua vocazione innata. Che ha diritto a farlo, anche solo per necessità di seguire il proprio istinto, per curiosità, per spirito di avventura o per scommessa con il destino. Che il diritto non è commisurabile soltanto al fatto che le condizioni del proprio Paese divengono intolleranti per lui. Che le regole servono a disciplinare ingressi e integrazione del migrante nel paese che li accoglie sì, sì è vero. Ma se poi sono paesi terzi a provocare l’esodo di dimensioni bibliche a cui stiamo assistendo con le loro politiche annientatrici di identità, risorse economiche e di beni primari, con chi ce la vogliamo prendere? Con loro perché infrangono le nostre regole di ingresso e di soggiorno? O perché sono troppi e creano problemi di ordine pubblico? Forse è il caso di renderci conto che le prime vittime di tutto quello che l’Occidente, noi compresi, sta commettendo in maniera criminale e dissennata, sono proprio loro: i migranti. I nostri disagi, dei quali siamo – lo ripeto –  direttamente responsabili sono niente al confronto del male che facciamo ai loro popoli e alle loro terre.

Ma lasciatemi togliere anche un altro sassolino dalle scarpe. Per mesi, forse per anni, ho assistito basito al flirt che la destra radicale ha avuto con il Re dei Cachi, Silvio Berlusconi, al quale venivano riconosciuti i grandi meriti di una lungimirante politica estera, finalmente affrancatrice dalla sudditanza che pativamo e patiamo nei confronti degli Usa. Soprattutto il vincolante patto di amicizia e partnenariato con la Libia di Gheddafi e l’accordo energetico con la Russia di Putin erano la prova provata di un sussulto di sovranità nazionale.

Inutilmente mi sono provato a far riflettere questo ambiente, da sempre in affannosa ricerca del nuovo duce, che stava prendendo una colossale cantonata. La politica estera di Silvio Berlusconi – ormai dovrebbe essere evidente pure ai ciechi – non è mai esistita. Sono esistiti solo i suoi rapporti personali privilegiati con qualche capo di stato estero e con finalità che con gli interessi reali della nostra nazione avevano ben poco a che fare. C’è voluto il suo personalissimo e non richiesto revival dei fasti di Re Sciaboletta, con l’incredibile voltafaccia nei confronti di Tripoli, per far aprire – e non a tutti e non in ogni caso -  gli occhi su quale fosse la dimensione esatta del Re di Cachi. Uno, cioè, che pur avendo concesso le basi italiane per i raid aerei della Nato in Libia e partecipando militarmente alle azioni della cosiddetta “No Fly Zone”, non viene nemmeno convocato nei vertici operativi della guerra in corso.