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Sul cammino della consapevolezza spirituale: prima tappa, l’Innocente

di Francesco Lamendola - 05/04/2011




Lo studio della mitologia ci ha abituati a considerare la figura dell’Eroe come una figura eccezionale, unica, riservata a pochissimi personaggi che spiccano di molto al di sopra della comune umanità; una figura ammirevole, ma pressoché irraggiungibile, che si può invidiare, ma non certo raggiungere o emulare.
Ebbene, sul piano della concreta realtà esistenziale, questa impressione è fondamentalmente erronea e fuorviante, perché fa velo alla verità più autentica che giace nel profondo di noi stessi: ossia che l’Eroe non è altro da noi, perché egli è in ciascuno di noi.
E non bisogna pensare, per forza, a delle circostanze particolarmente drammatiche, patetiche o eccezionali, quali un marito che assiste la moglie gravemente malata, per anni ed anni, credendo nella sua guarigione, contro tutto e contro tutti; oppure una madre che segue un figlio o una figlia “difficili”, che condivide con essi le cadute, le amarezze, i dolori, senza mai perdere la speranza, senza mai interrompere il dialogo, là dove chiunque altro getterebbe la spugna e li lascerebbe andare incontro al loro destino, quale che esso sia.
No: anche nelle circostanze cosiddette ordinarie, anche nella vita di ogni giorno, l’Eroe giace al fondo di noi stessi; non sempre è desto e consapevole, anzi, il più delle volte non lo è affatto e si tratta appunto di risvegliarlo, di fargli comprendere la sua forza e le sue potenzialità, di mostrargli la strada da percorrere per la propria realizzazione.
E, naturalmente, non è soltanto maschio né soltanto bianco, ma anche femmina e appartenente ad ogni popolo e cultura.
Il cammino iniziatico attraverso le varie tappe della realizzazione dell’Eroe interiore è stato efficacemente delineato dalla psicologa analista e scrittrice Carol S. Pearson nel suo libro «L’eroe dentro di noi» (titolo originale: «The Hero within. Six archetypes we live by», San Francisco, Harper & Row Publishers, 1989; traduzione italiana di Paola Chiesa, Roma, Astrolabio, 1990), al quale ci ispiriamo liberamente, riconoscendo il nostro debito nei suoi confronti per la chiarezza con la quale ha espresso concetti che appartengono da sempre al sapere iniziatico, anche se non ci sentiamo di condividere tutte le sue posizioni e anzi ne rifiutiamo alcune, alla ricerca di una nostra via personale sul percorso dell’eroismo quotidiano.
Scrive, fra l’altro la Pearson (op. cit. pp.  24-25):

 «Aprono la scena l’Innocente e l’Orfano. L’Innocente vive nello stato di grazia “prima della Caduta”; l’Orfano affronta la realtà della Caduta. Gli stadi che seguono sono strategia per vivere in un mondo caduto, il Viandante inizia il compito della separazione dagli altri; il Guerriero impara a combattere per difendersi e per cambiare il mondo secondo la sua immagine; il Martire impara a donare, a impegnarsi, a sacrificarsi per gli altri. La progressione è quindi dalla sofferenza, all’autoaffermazione, alla lotta, all’amore.
Mi era chiaro che l’eroismo del Viandante non prende forma attraverso il combattimento. È nell’atto sesso di lasciare una situazione oppressiva e nell’andare da solo ad affrontare l’ignoto che consiste nell’azione eroica del Viandante, uomo o donna che sia.
Ma all’inizio non riuscivo a individuare l’eroismo del Martire, visto che per lo più la moderna letteratura esalta la liberazione dal vecchio ideale di sacrificio. Lo spirito del’antimartirio è particola rete forte nella letteratura contemporanea riguardante le donne, perché l’educazione femminile e le norme culturali hanno rinforzato il martirio e il sacrificio per le donne fino al ventesimo secolo compreso. Le donne sono state imprigionate dal ruolo di Martire ancora più di quanto i maschi bianchi lo siano stati da quello esclusivo del Guerriero. Riconsiderando l’archetipo del Martire, comincia a rispettare il suo potere e a vedere perché, ad esempio, il Cristianesimo, con la centralità dell’immagine di Cristo che subisce il martirio sulla croce, ha avuto un così rande richiamo sulle donne  e le minoranze, e anche perché la sofferenza e il martirio hanno avuto tanta importanza nel Giudaismo, in particolare nei tanti tempi e luoghi segnati dall’antisemitismo.
Ho scoperto l’emergere di un antico archetipo fino ad oggi riservato ad ancor meno perone di quanto sia stato per il Guerriero:, e che oggi sta ridefinendosi come modello di eroismo valido per tutti. In questo modello, l’Eroe è il Mago, o lo Sciamano. Dopo aver appreso a cambiare il proprio ambiente con grande fatica, volontà e disciplina, il mago impara a sintonizzarsi con l’energia dell’universo e ad attrarre ciò che serve con le leggi della sincronicità: così che la facilità d interazione del Mago con l’universo appare quasi magica. Avendo imparato a fidare sul Sé, il Mago fa il giro completo e, accettando di fidarsi, torna allo stadio del’Innocente.
Ciascuno degli archetipi contiene in sé una visione del mondo e con questa diversi traguardi di vita e diverse teorie su ciò che dà un senso alla vita. L’Orfano cerca la sicurezza e teme l’abbandono e lo sfruttamento, il Martire vuole essere buono e vede il mondo come un campo di battaglia fra il bene (amore e responsabilità) e il male (egoismo e sfruttamento). Il Viandante vuole l’indipendenza e teme l’obbedienza alle regole. Il Guerriero lotta per essere forte, per agire sul mondo e superare lì’inefficienza e la passività. Il Mago mira a essere fedele alla sua luce interiore e in equilibrio con le energie dell’universo, e cerca di evitare l’inautentico e il superficiale.»

Significativamente, dopo aver ammesso di non riuscire a capire il significato profondo della figura del Martire, anche perché suggestionata dal femminismo e dalla generale rivolta contro lo spirito di sacrificio che è propria della società moderna, la Pearson si dimentica addirittura di essa nel ricapitolare gli stadi sulla via dell’eroismo, che si riducono, così, a cinque (anche se poi la riprende e la reintegra nel proprio schema).
Un’ultima osservazione preliminare.
Il percorso dall’Innocente al Mago (o allo Sciamano) non è necessariamente lineare; può presentare  inversioni, ritorni, cadute, contraddizioni; però, in linea di massima, indica la direzione generale da uno stato di inconsapevolezza ad uno di consapevolezza spirituale.
Ed eccoci alla prima tappa, la tappa originaria: quella dell’Innocente.
L’Innocente è tale perché non ha fatto ancora, nella propria vita, l’esperienza della Caduta; ancora non sa cosa significhi mangiare, metaforicamente, il frutto dell’albero della Conoscenza del Bene e del Male.
L’Innocente per eccellenza è il bambino, ma il bambino piccolo: perché in età scolare, ad esempio, il passaggio è già stato effettuato e, se gli adulti continuano ancora a parlare della sua “innocenza”, lo fanno solo in senso retorico, oppure apertamente in malafede. E abbastanza presto il bambino, allorché ha compreso l’equivoco, lo sfrutta istintivamente, agendo come se in lui vi fosse ancora quella innocenza, allo scopo di piegare i grandi ai propri desideri. Così, ad esempio, si vede un bambino di quattro anni che pesta i piedi e fa i capricci, finché la mamma acconsente a farlo salire sul carrozzino del fratello più piccolo: così si evita la fatica di dover camminare ed ottiene lo stesso gradi di “attenzioni” dell’altro, ma in perfetta cattiva coscienza.
Un altro esempio di falso Innocente è il “buon selvaggio” del mito letterario illuminista e pre-romantico: tutti questi ambasciatori persiani, tutti questi Atala e questi René, questi Paul e queste Virginie, che, pur venendo da Paesi lontani o muovendosi nello sfondo di sconfinate foreste primigenie, possiedono modi e sembianze molto europei, anzi, molto parigini, tanto che non sfigurerebbero nei migliori salotti della buona società francese.
Una versione più recente e molto più credibile del “buon selvaggio” è quella rappresentata da Dersu Uzala, il piccolo cacciatore delle grandi foreste siberiane, così come esso appare sia nel libro di Vladimir K. Arsen’ev, sia nello stupendo film di Akira Kurosawa.
Sempre restando nell’ambito della letteratura, ma avvicinandoci un poco alla realtà psicologica e morale dell’Innocente, potremmo assimilare questo tipo umano a Minnie la Candida di Massimo Bontempelli; al Buon Soldato Sc’vejk di Jaroslav Hašek (non sena qualche sospetto di nascosta furberia o, al contrario, di idiozia congenita); ad Alioscia Karamazov di Dostojevskij; a Donatello di Hawthorne (nel romanzo «Il fauno di marmo»); e, soprattutto, al principe Myškin, il protagonista di un’altra grande opera di Dostojevskij, «L’Idiota».
Volendo, l’elenco potrebbe continuare; crediamo che questi riferimenti, fra loro così diversi, possano dare una idea della notevole ricchezza e della mancanza di omogeneità della figura dell’Innocente, che oscilla, almeno allo sguardo di un osservatore esterno, fra i due estremi della assoluta santità e della assoluta stupidità. E che altro è il santo, del resto, o, almeno, un certo tipo di santo, se non una specie di bambino che non ha ancora mangiato il frutto proibito, e per il quale «omnia munda, mundis», cioè «per il puro, tutte le cose sono pure»?
In effetti, come aveva intuito il geniale Dostojevskij, la distanza che separa l’Innocente dall’Idiota è molto sottile; intendendo per idiota, si capisce, non chi lo è realmente, ma chi appare tale agli occhi di una umanità avida, egoista, calcolatrice, per la quale la vita è una eterna contesa di tutti contro tutti e nessuna occasione deve restare sprecata, quando offra la possibilità di scavalcare, ingannare e strumentalizzare il prossimo.
In un simile contesto, colui che non segue l’andazzo corrente, ma che vive di pura contemplazione, di spassionato stupore davanti alla meraviglia del mondo, di fiducia nei confronti degli altri, per quanto astuti e maliziosi essi siano, fa, inevitabilmente, la figura dello stupido o del folle; oppure, ma il passo è più breve di quel che non s’immagini (e bene lo aveva intuito Ugo Foscolo, nella «Lettera da Ventimiglia» ne «Le ultime lettere di Jacopo Ortis»), egli viene riconosciuto come un mistico, come un santo, come colui che è nella vera grazia di Dio.
La figura di Padre Pio da Pietrelcina, per fare un esempio concreto, crediamo possa rientrare in questa categoria; e sia la reazione invelenita di certi “pezzi grossi” della Chiesa cattolica (pensiamo a padre Agostino Gemelli, lo scienziato francescano fondatore dell’Università Cattolica di Milano), sia quella ammirata e affascinata dei contadini e delle massaie di San Giovanni Rotondo, testimoniano la duplicità di atteggiamenti che simili personaggi, immancabilmente, destano fra quanti li attorniano.
Anche il poeta autentico, secondo la concezione di Pascoli, è un eterno fanciullo, che sa vedere e ammirare il modo con lo sguardo colmo di incantato stupore di chi vede ogni cosa come se fosse appena uscita dalla mano del Creatore. E può darsi che alcuni artisti siano stati veramente dei fanciulli di questo genere: a cominciare da Vincent Van Gogh, colui che sapeva dipingere un paio di vecchi scarponi da contadino con lo stesso amore, con lo stesso incanto di un magnifico prato fiorito; e che, nella sua vita privata, visse con candida innocenza l’amore struggente per gli uomini e per il mondo, fino a prendersi in casa una povera prostituta, malandata e dal carattere difficile, al solo scopo di renderle la dignità perduta, senza nulla domandarle in cambio.
La domanda se una vera innocenza sia possibile nell’età adulta è, comunque, una domanda oltremodo difficile.
Crediamo che, alla resa dei conti, la risposta possa essere affermativa, ma solo in un numero limitatissimo di casi, peraltro assai difficili da accertare. Gli autentici Innocenti, insomma, sono pochissimi; vi è, invece, un discreto numero di quelli che, proprio come i bambini già grandicelli, simulano l’innocenza originaria, vuoi per ricavarne qualche vantaggio, vuoi per timore di entrare nell’arena della vita “vera”, ove gli adulti si scambiano ogni sorta di colpi proibiti, pur di realizzare i propri obiettivi.
Il movimento spirituale logico e naturale è quello che va dall’Innocenza alla Caduta e alla Ripresa; di norma, coloro i quali non vivono il dramma della Caduta, non riescono ad evolvere spiritualmente, perché solo la Caduta, con tutte le sue amare conseguenze, attiva la consapevolezza di dover risvegliare, in sé stessi, le qualità migliori, quelle che consentono di affrontare la vita in maniera “eroica”.
Perché il vero eroismo, ci piace ripeterlo, è quello, umile e silenzioso, dell’esistenza quotidiana…