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Sul cammino della consapevolezza spirituale: seconda tappa, l’Orfano

di Francesco Lamendola - 06/04/2011




Ed eccoci alla seconda tappa sul cammino della conquista della consapevolezza spirituale: dopo l’Innocente, l’Orfano.
L’Orfano è l’uomo che ha fatto l’esperienza della Caduta: è Adamo che, insieme ad Eva, ha mangiato il frutto proibito dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male e perciò ha perduto, insieme al Paradiso terrestre in cui viveva, tutti gli altri privilegi legati alla sua condizione di innocenza, da quello di non dover lavorare (come avviene, solitamente, per i bambini) a quello di non doversi vestire, perché la sua nudità non gli era motivo d’imbarazzo davanti alla sua compagna, né lo era quella di lei davanti a lui.
In moltissime mitologie, di ogni tempo e di ogni luogo, ricorre il motivo della Caduta, così come nel sapere tradizionale: vi è stato un evento, in tempi antichissimi, che ha cambiato l’assetto del mondo, che ha spostato l’«axis mundi» e che ha radicalmente modificato la condizione dell’uomo, rendendolo imbelle e indigente, mentre prima era meravigliosamente dotato ed armoniosamente inserito nel contesto di una natura amica; per cui, da quel momento, egli ha dovuto risalire faticosamente, un gradino dopo l’altro, la difficile scala del ritorno.
Il mito greco delle quattro età della Terra, ad esempio - quella dell’oro, poi dell’argento, indi del bronzo e da ultimo del ferro - è una maniera simbolica di esprimere il medesimo concetto, ma in forma graduale anziché in quella di un singolo e brusco evento decisivo.
Ma non vi è contraddizione tra le due forme, sempre che si tenga ben presente che la Caduta originaria, anche quando venga descritta - come nell’Ebraismo e nel Cristianesimo - come un singolo evento altamente drammatico, non deve essere confusa con le cadute di tipo storico, quali il Diluvio universale o la sommersione di Atlantide, poiché essa si colloca in un tempo prima del tempo storico, in un tempo primordiale nel quale le condizioni dell’essere umano erano molto diverse da quelle che conosciamo oggi.
Si faccia attenzione che “mitologia” non è sinonimo di credenze superstiziose e infantili, perché il mito, nella sua autentica dimensione, così come lo intendeva anche Platone, non è affatto un racconto leggendario, ma un racconto figurato che esprime una conoscenza vera, una sapienza vera e una realtà vera, le quali non possono venire espresse nella forma di un discorso logico e razionale, perché eccedono, di per se stesse, le capacità descrittive del linguaggio logico-razionale e quindi necessitano di altre modalità espressive.
L’Orfano, quindi, è l’uomo che ha dovuto separarsi, in maniera dolorosa e traumatica, dalla propria condizione originaria di pienezza, di armonia e di bellezza, per affrontare la dura realtà della lotta per la vita, in un mondo disincantato e sovente ostile, nel quale deve spargere il sudore della propria fronte se vuole sopravvivere ed è continuamente minacciato da mille insidie, a cominciare dalla più grande di tutte: l’oblio del proprio Sé originario.
Non è certamente un caso che tutte le filosofie antiche convergessero su questo punto: il primo e fondamentale compito di ogni essere umano che voglia avere rispetto di se stesso, è la ricerca del Sé: «Nosce te ipsum», «Γνωθι σεαυτόν», come era scritto sul tempio dell’Oracolo di Delfi e come sempre insegnava Socrate a quanti lo volevano ascoltare: non vi è compito più importante e più essenziale di questo, nella vita umana.
La condizione dell’Orfano, quindi, è quella della perdita dell’innocenza: una tappa obbligata, che ogni essere umano deve affrontare, tranne - forse - rarissime eccezioni.
Esistono svariate e apparentemente contraddittorie rappresentazioni di questo tipo umano nella letteratura: dall’Amleto di Shakespeare alla Justine di Sade; dal David Copperfield di Dickens al Remi di Hector Malot; dal Rousseau delle «Confessioni» all’Albatro di Baudelaire: sono tutti personaggi che hanno perso l’innocenza e che la vita, rudemente, si incarica di gettare nel mondo della realtà “vera” (o, almeno, in quella che quasi tutti chiamano tale), che è poi quello ove ogni anelito di bellezza e di poesia è stato spento e ove regnano la legge del pensiero strumentale e calcolante, quando non anche delle passioni più torbide e perverse.
Anche i protagonisti di alcuni racconti di Gogo’l, in particolare de «Il cappotto» e «Il re di Spagna», appartengono a questa tipologia, come pure il molto differente, estroverso e fantasioso Huckleberry Finn; e senza dimenticare, naturalmente, Hansel e Gretel, i due fanciulli protagonisti della celebre fiaba tedesca riportata dai fratelli Grimm.
Naturalmente l’Orfano, nella realtà della vita, non è necessariamente un bambino (o una bambina) che sia stato abbandonato dai genitori, o che li abbia perduti; né si tratta di un  tipo psicologico vero e proprio, ossia di una carattere “fisso”, ma piuttosto di una tappa, di un stadio sul cammino della evoluzione spirituale.
Inoltre, a differenza delle tappe successive, si può dire che quella dell’Orfano, così come quella dell’Innocente, siano praticamente delle fasi obbligate nel corso dell’esistenza di qualunque essere umano: poiché non tutti diventano Viandanti, Guerrieri, Martiri o Maghi, ma praticamente tutti hanno vissuto, se non altro nell’infanzia, una fase di beata innocenza e, poi, una di  caduta nel mondo prosaico degli adulti e di relativo disincanto.
E veniamo alla specificità dell’Orfano e della sua condizione psicologica e morale.
Che cosa provarono Adamo ed Eva, i veri archetipi di questa figura, allorché si videro cacciati fuori dal Giardino terrestre con tutte le sue delizie e dovettero affrontare la dura realtà di un mondo difficile, complesso e potenzialmente ostile? Possiamo tentare di immedesimarci nei loro stati d’animo, farci un’idea dei loro contrastanti sentimenti?
Nostalgia, desolazione, struggimento, da un lato; preoccupazione, angoscia, paura, dall’altro: non più cittadini privilegiati di un mondo rarefatto e tutto loro, ma abitanti non ancora del tutto rassegnati e decisamente inesperti di un’altra dimensione, molto più prosaica ed esigente, molto meno restia a lasciarsi plasmare secondo le loro fantasie; una dimensione ove bisogna fare i conti con l’inesorabile “principio di realtà”.
Il principio di realtà è quella cosa per cui, resosi conto che un tappeto magico non può esistere, né tanto meno trasportare il suo possessore da un regno all’altro, a volo d’uccello, Aladino incomincia inesorabilmente a precipitare verso terra; e la principessa, addormentata nel suo sonno di morte nel gelido palazzo insieme a tutti i cortigiani, invano aspetterà, un secolo dopo l’altro, che il principe azzurro venga a dissolvere l’incantesimo con un bacio appassionato.
Fuori di metafora: il principio di realtà ci dice quel che possiamo e quel che non possiamo aspettarci dalla vita; ci dice che dobbiamo imparare a contare sulle nostre sole forze; ci insegna che incantesimi e magie esistono solo nelle fiabe, così come i sentimenti puri e disinteressati, le amicizie indistruttibili, gli amori così forti da resistere a qualunque tensione e a qualunque prova, per quanto dura e spietata essa sia.
In genere, le persone tendono a farsi un’idea piuttosto chiara del principio di realtà e finiscono per non solo per non metterlo mai in discussione, ma anche per adorarlo come un feticcio crudele e geloso di qualunque altro culto; si vantano di aver fatto la pelle dura e di aver imparato a non sperare in nulla di gratuito dalla vita, in alcun dono generoso, in alcun raggio di luce che scenda a riscaldare e illuminare senza esigere qualcosa in cambio.
Le persone credono che pensare altrimenti sia una forma di debolezza o di illusione e si fanno un punto d’orgoglio nel corazzarsi quanto prima possibile contro tutto ciò che credevano quand’erano ancora “innocenti”, quando ancora i loro sogni non avevano divorziato dalla realtà, ma - anzi - s’intrecciavano con essa in un tutto unico e indivisibile, come un vecchio muro talmente ricoperto da lussureggianti festoni di edera, da non poterlo più nemmeno immaginare senza di essa.
Ora, è importante comprendere che, se è necessario un certo grado di adattamento al principio di realtà, questo non significa che lo si debba considerare sempre e comunque un dato immodificabile, sul quale non abbiamo il benché minimo potere, perché LA REALTÀ È IN LARGA MISURA QUELLA CHE NOI VOGLIAMO CHE ESSA SIA.
Senza voler creare illusioni pericolose, giova tuttavia ricordare che si sono visti regredire e scomparire del tutto dei tumori in fase avanzata di metastasi, in una maniera assolutamente inspiegabile per la scienza medica, solo e unicamente perché il malato credeva fermissimamente di poter guarire e perché lo voleva con tutte le sue forze. Del resto, non è stato forse detto: CERCATE E TROVERETE; CHIEDETE E VI SARÀ DATO; e, ancora: SE AVESTE FEDE QUANTO UN GRANELLO DI SENAPE, POTRESTE ORDINARE A QUESTE MONTAGNE DI SPOSTARSI E DI GETTARSI NEL MARE, ED ESSE VI OBBEDIREBBERO?
Perciò, lo sconforto e delusione dell’Orfano, il quale si vede sospinto in una terra dove non sembra esserci più posto per i sogni, sono in gran parte ingiustificati: i sogni possono continuare ad esistere e possono perfino trasformarsi in realtà, se noi rimaniamo ad essi fedeli; inutile dire che il confine che separa l’uomo o la donna animati da una fede incrollabile, e i sognatori velleitari e pazzoidi, è un confine sottile, che, a volte, sfuma impercettibilmente, fino a divenire indistinguibile. Sicché, a volte, l’uomo dai grandi sogni finisce per diventare un esaltato pericoloso,  magari un trascinatore di folle che egli porta con sé nel proprio disastro.
Tale risulta essere il reverendo Jocelyn nel romanzo di William Golding «La guglia»; e tale, nel mondo reale, è stato, probabilmente, il reverendo Jones, capo della setta del Tempio del Popolo, che nel 1978 compì un suicidio collettivo che coinvolse un migliaio di persone, nella foresta tropicale della Guyana.
È importante, comunque, rendersi conto che ci troviamo tutti, a un certo punto della nostra vita, e forse più di una volta, nella condizione dell’Orfano; e che tale condizione non costituisce, di per sé, come avrebbe detto Kierkegaard, una malattia mortale, a meno che noi ci abbandoniamo all’amarezza e alla disperazione.
Qualcuno ha detto che, nella vita, tutto dipende da quanto si resta delusi; e qualcun altro ha affermato che, quando ci si rende conto di come stanno le cose, non si fa altro che sognare la vendetta.
Ebbene, si tratta di conclusioni estremiste e distruttive, che possono solo aggiungere ulteriori difficoltà a quelle, inevitabili ma non, di per se stesse, distruttive, che la vita si incarica di presentarci, prima o dopo, per metterci alla prova e per stimolarci ad intensificare il processo della nostra evoluzione spirituale.
In fondo si tratta di capire che l’Orfano non è veramente tale, se sa riconoscere la bontà di quanto lo circonda e se si capacita del fatto che la vita non ci tende agguati per farci inciampare, ma che ci stimola, ci ricompensa e ci punisce, secondo le nostre stesse azioni; e che è fondamentale porsi nei suoi confronti con animo aperto e con pensieri positivi, superando la tentazione di chiudersi nella tristezza, nella diffidenza e nella paura.
In verità, l’essere umano è assai più forte di quanto non creda e non s’immagini; ma non è consapevole della propria forza: si immagina, al contrario, estremamente debole ed esposto, per cui non osa muovere nemmeno un passo, se prima non si è procurato tutte le garanzie che non rischierà di trovarsi alle prese con situazioni più grandi di lui.
L’Orfano, dunque,  non deve indulgere in atteggiamenti spauriti e vittimistici, non deve farsi schermo della propria debolezza per non affrontare con pienezza e con buona volontà l’avventura della vita; deve scuotersi dal proprio smarrimento e mettersi in cammino, con il sole o con la pioggia, trasformandosi, così, in un coraggioso Viandante.
Ahimé, la stragrande maggioranza della cultura moderna - scienza, letteratura, storia, filosofia - sembra compiacersi dello smarrimento dell’Orfano e non sa fare altro che innalzare amari lamenti per le certezze perdute, per le sicurezze smarrite, invece di affrontare con energia virile il cammino verso la realizzazione spirituale; oppure, peggio ancora, non sa fare altro che sprofondare nell’edonismo deteriore o nella abietta adorazione dell’esistente, quale che esso sia.