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Pensieri sulla vittoria: «Anabasi»

di Gianluca Padovan - 06/04/2011

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Andiamo indietro nel tempo, a più di duemila anni fa. Eppure, a guardare bene, può essere quasi ieri perché, nonostante tutto, si è mantenuta una discreta consapevolezza su chi noi siamo e chi noi siamo stati. Tale consapevolezza abbiamo il dovere di trasmetterla, a nostra volta, alle generazioni future.
L’epopea dei diecimila opliti greci in terra anatolica, descritta nell’«Anabasi» di Senofonte, è particolarmente istruttiva ed esemplificativa, portando a considerare come l’esercito oplitico fosse particolarmente efficiente, efficace, ma anche costoso. Infatti, per mantenersi, molti erano lasciati liberi di praticare il cosiddetto «mestiere delle armi». Ma non è questo il punto, come si vedrà.
Senofonte (430-354 a.), ateniese, benestante e oplita, nel 401 a. partecipa alla spedizione di diecimila mercenari greci, molti dei quali spartani, pagati da Ciro il Giovane, fratello del re di Persia Artaserse II. Ufficialmente Ciro comunica all’esercito che si tratta di reprimere una rivolta di popolazioni montane nella sua satrapia. In realtà l’obiettivo di Ciro è di condurre le forze in campo aperto contro il fratello, ovvero il re legittimo, e impossessarsi del trono: sostanzialmente un tentativo di colpo di stato.
Il racconto è di per sé eccezionale in quanto Senofonte è un ufficiale presente sul campo, è dotato di un’ottima penna e descrive passo per passo l’intera avventura. Giunti in Anatolia, i diecimila opliti greci comandati da Clearco procedono verso l’interno assieme all’esercito persiano di Ciro. Giungono fino a un centinaio di chilometri da Babilonia e sulla piana di Cunassa, situata tra il Tigri e l’Eufrate, si schierano. Si decidono così le sorti degli eserciti e la fama imperitura dell’epica impresa compiuta dai diecimila opliti greci: «È ormai mezzogiorno e il nemico non si fa ancora vedere; verso il tardo pomeriggio appare un polverone, come una nuvola bianca, e subito dopo una massa scura nella pianura per un gran tratto. Quando è più vicina ecco improvvisamente un barbaglio metallico: sono le lance e poi le schiere che ormai si distinguono. Ecco i cavalieri dalle corazze bianche che avanzano all’ala destra del nemico (pare li comandi Tissaferne), ecco la fanteria leggera con gli scudi di vimini e poi di seguito i fanti di pesante armatura con gli scudi di legno che li coprono fino ai piedi. Sono egiziani, pare; e ancora cavalieri e arcieri. Tutti, nazione per nazione, in falangi quadrate a schieramento pieno, avanzano preceduti dai cosiddetti carri falcati dislocati a brevi intervalli gli uni dagli altri. Si chiamano falcati perché hanno delle falci che sporgono obliquamente fuori dai mozzi e altre sotto al cassone protese verso terra per tagliare a pezzi chiunque incontrino. Il loro obiettivo sono i battaglioni greci che devono travolgere e fare a pezzi. Ciro aveva convocato i Greci in precedenza per raccomandare loro di non aver paura delle urla dei barbari: ebbene, si sbagliava: quelli avanzano senza gridare, in silenzio a passo lento e cadenzato» (Senofonte, Anabasi, in Manfredi V. [a cura di], Rusconi, Milano 1984, I 8,8-11).
Gli eserciti si fronteggiano, cambiando il colore alla piana di Cunassa. La superiorità numerica a favore del re di Persia è schiacciante, tanto che questi dà inizio a un’ampia manovra per l’accerchiamento dell’esercito avversario comandato dal fratello Ciro. Nell’intento di prevenire la pericolosa mossa, Ciro stesso, con la sua guardia personale, si lancia alla carica per sfondare il centro avversario e cercare d’uccidere di suo pugno il fratello. Ma nemmeno i Greci attendono l’impatto e, intonato il peana, sferrano l’attacco sbaragliando completamente un’ala dell’esercito di Artaserse II: «Ormai non ci sono più di tre o quattro stadi tra i due schieramenti quando i Greci intonano il peana e cominciano ad avanzare contro i nemici. Mentre avanzano però una parte della falange comincia ad ondeggiare per cui le linee posteriori affrettano il passo e tutti insieme gridano come quando lanciano il grido di guerra, e insieme corrono in avanti. Pare che alcuni anche battano le lance contro gli scudi per terrorizzare i cavalli. Non sono ancora a un tiro d’arco che i barbari ripiegano e si danno alla fuga. I Greci li inseguono a tutta forza gridando gli uni agli altri di non lasciarsi prendere dalla foga ma di mantenere lo schieramento. Dei carri, alcuni finiscono addirittura, privi di guida, tra le file dei nemici; altri anche tra i Geci, ma questi, vedendoli arrivare, si aprono per farli passare. C’è anche chi ci rimane sotto, ma, d’altra parte, succede anche all’ippodromo» (Ibidem, I 8,17-20).
Le sorti parrebbero decise, in quanto una bella fetta dell’esercito avversario è in rotta. Ma nello scontro Ciro è morto e i suoi ufficiali persiani hanno fatto atto di sottomissione al legittimo re Artaserse II, passando quindi armi ed armati nelle fila avversarie. I Diecimila sono soli!
Un’ambasciata intima ai Greci la resa, ma il rifiuto è categorico: «Risponde per primo il più anziano, Cleanore di Arcadia, dicendo: “Piuttosto che consegnare le armi preferiamo morire”. Parla poi Prosseno di Tebe: “Vorrei sapere, Falino, se il Re vuole le nostre armi perché ha vinto o se vuole che gli facciamo un regalo: se pensa di aver vinto, che bisogno ha di chiedere; che venga a prendersele!”» (Ibidem, II 1,10).
Falino, consigliere greco al soldo persiano, dichiara che il Re ha vinto perché ha ucciso Ciro, i Greci sono nel suo territorio quindi gli appartengono e volendo può schiacciarli con il suo enorme esercito.
Replica Teopompo di Atene: «Lo vedi anche tu, Falino, non ci restano che le nostre armi e il nostro valore. Se teniamo le armi abbiamo la possibilità anche di mostrare il nostro valore, ma se le consegniamo, perderemo anche la vita. Non aspettarti, dunque, che vi consegniamo le uniche risorse che ci restano; piuttosto combatteremo per privare voi delle vostre» (Ibidem, II 1,12). Infine si tratta la tregua e i comandanti greci, assieme agli ufficiali subalterni, vengono invitati a un banchetto fatto appositamente imbandire da Tissaferne, comandante persiano, verosimilmente per ordine del Re. La cena si rivela essere un po’ pesante e indigesta: tutti gli ufficiali greci sono presi a tradimento e uccisi. I persiani credono così di avere ridotto all’impotenza gli opliti greci, privandoli dei loro capi. Ma qui stiamo parlando di Greci!
Gli opliti greci non si perdono d’animo, eleggono nuovi comandanti, tra cui Senofonte stesso. Essendo un contingente di sola fanteria pesante devono tramutarsi in un esercito completo a tutti gli effetti, dotandosi anche di cavalleria, arceria e reparti di frombolieri: «Mi risulta che nel nostro esercito abbiamo dei Rodii e mi dicono che quasi tutti sanno usare la fionda in modo che i loro proiettili hanno una gittata anche doppia di quelli lanciati dalle fionde persiane» (Ibidem, III 3,16).
Decidono di non percorrere l’itinerario dell’andata, ma una nuova via, perchè sanno che l’avversario si aspetta proprio che seguano la strada già nota. Per fare ritorno in patria marciano quindi per più di duemila chilometri in territorio a loro assolutamente sconosciuto, costeggiano un lungo tratto del fiume Eufrate, superano alcune catene montuose e sconfiggono l’esercito persiano ogni qual volta si presenti a sbarrare loro la strada.
Nella lunga marcia incontrano genti e usanze a loro sconosciute, che Senofonte narra nell’epopea dei Diecimila. Ecco un passo che mi ha sempre affascinato, richiamando dalle nebbie del tempo tradizioni antichissime: «Le case sono scavate sottoterra e hanno una imboccatura come quella di un pozzo ma sotto sono abbastanza ampie e hanno pure dei passaggi scavati per ricoverare gli animali mentre gli uomini scendono con le scale. In queste abitazioni ci sono pecore, capre, buoi, galline coi loro piccoli e tutte queste bestie vengono governate con il fieno che è stivato all’interno.
C’è anche del grano, dell’orzo, legumi e vino d’orzo conservato dentro a dei vasi su cui galleggiano i chicchi. Ci sono poi immerse delle canne più o meno lunghe e senza nodi e quando uno ha sete le mette in bocca e succhia. A berla schietta è una bevanda piuttosto forte ma piacevole una volta che ci si è presa l’abitudine» (Ibidem, IV 5,25-27).
I soldati greci prendono commiato da queste genti in amicizia e Senofonte, mediante un interprete, chiede al loro capo villaggio che terra sia quella: «“L’Armenia” risponde» (Ibidem, IV 5,34). «Anabasi» è un libro che va letto, che va dato ai nostri figli se a scuola non se ne fa cenno. Perché «anabasi» vuol dire salita, ma anche intesa nel senso di vittoria!