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E' tempo di spazzare via il Ventennio infinito

di Stenio Solinas - 06/04/2011

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Nel centocinquantesimo del­l’Unità d’Italia, si sta facendo finta che nel nostro Paese il fascismo non ci sia mai stato. Espungiamo, in prati­ca, un quarto di secolo del nostro No­v­ecento e dalla Grande guerra passia­mo al secondo dopoguerra come se niente fosse stato, derubricando il fa­scismo a mera forma senza contenu­to. Così facendo, continuiamo a fare uscire dalla finestra i nostri padri e le nostre madri, il nostro passato prossi­mo, che però poi facciamo rientrare dalla porta della stessa casa travestiti in mille modi: fascisti ignari, fascisti tiepidi, fasciati involontari, fascisti co­stretti, fascisti per caso, per necessità, per comodo, fascisti antifascisti...
Non avendo voluto definirli, sempli­cemente, italiani, siamo persino ri­corsi all’idea che fosse stato solo il fa­scismo a combattere e a perdere la guerra, un modo per dire che l’Italia in fondo non c’entrava. Al tempo, quello della resa incondizionata e dei trattati di pace postbellici, non ci cre­dette nessuno, ma il nostro è uno stra­no Paese, dove si pensa che negando ogni evidenza ci sia posto per una re­altà altra, falsa e però vera. Proprio perché negato, il fascismo resta il convitato di pietra dell’Italia re­pubblicana, antifascista e postfasci­sta, capro espiatorio su cui scaricare ogni responsabilità.
Contro ogni logi­ca, una volta costruito il fantoccio del regime ridicolo, inviso a tutti gli italia­ni, lo si agita però come spauracchio e non si capisce perché non essendo­ci stati i fascisti al tempo del Duce, ci dovrebbero o potrebbero essere i fa­scisti a duce defunto e seppellito. In quest’ottica, l’iniziativa di un gruppetto di senatori del Pdl e di un fiellino di chiedere l’abolizione della XII norma transitoria della Costitu­zione, quella che vieta «l’organizza­zione, sotto qualsiasi forma, del di­sciolto partito fascista», è l’eterna commedia dell’arte della politica ita­liana. Va da sé che se si trattasse di una norma di qualche senso compiu­to, non si capirebbe perché nell’ulti­mo cinquantennio l’etichetta infa­mante di «fascista» sia stata quella più gettonata. E va sempre da sé che, se è transitoria, è lecito pensare che mezzo secolo sia un periodo sufficien­te per poterne fare a meno. Torniamo da dove siamo partiti.
Fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 si consumò in Italia una trage­dia di proporzioni morali spavento­se: sarebbe stato necessario un esa­me di coscienza spietato, individuale e collettivo. Prevalse invece il vizio ita­lico della furbizia, trionfò il cinismo dolente di chi non ha mai saputo cre­dere in nulla. Pensammo che pochi mesi fossero sufficienti a scrivere l’er­rata corrige di una storia ventennale. Sputammo accortamente sotto ven­to per evitare di sputarci in faccia. Perché questo autoinganno avesse un senso e un valore, era necessario alterare alcune elementari verità: il crollo del fascismo non dovuto a una reazione interna e accelerato da una resa dei conti planetaria; il generale consenso al regime almeno fino allo scoppio della Seconda guerra mon­diale. Invece che riflettere su questo, e su questo magari inchiodare il fasci­smo alle sue responsabilità, si preferì avallare l'idea di un ventennale inci­dente della storia, di una presa di pos­sess­o perpetrata e perpetuata fra il di­sinteresse e l’ostilità degli italiani; di un’opera buffa prima,e poi tetra, che aveva visto tutti contro, nessuno a fa­vore, se non una piccola minoranza di comici e briganti.
«La grave colpa dell’intelligenza italiana d’oggi»,scri­verà polemicamente l’intellettuale comunista Franco Fortini ancora nel 1948, «è quella di essersi vigliacca­mente rifiutata a ogni serio esame di coscienza e di aver dato da intendere che la sua vita di quegli anni (vita lar­vale perché limitata nel proprio lessi­co) sia stata la sua “resistenza”». In realtà, come più tardi dal versan­te cattolico scriverà Geno Pampalo­ni, per quelli della sua generazione, la stessa cioè di Fortini, «il fascismo pri­ma di essere un avversario, fu una de­lusione ». La grandiosità della retori­ca delle promesse, la mitologia di un «uomo nuovo», la mistica diun’Italia rurale e guerriera si infransero contro il muro di un antico conformismo di massa, contro le miserie morali e in­tellettuali di una classe dirigente im­pari alla bisogna, contro gli errori al­l’insegna del calcolo più o meno me­schino...
Ammettere una tale delusio­n­e avrebbe però significato ammette­re le illusioni che ne erano state alla base, l’aver creduto l’aver fatto finta di credere, i secondi fini e gli entusia­smi. Avrebbe significato, altresì, il mi­surarsi, una volta per tutte, con la real­tà di un Paese che, come egli scriveva, «aspetta sempre dagli altri e da fuori benefici e favori, pronto a votarsi a chiunque prometta e dimostri di esse­re potente». Così non fu ed è su questo rifiuto che si erge il mito fondante della nuo­­va Italia: un popolo in armi, una guer­ra di liberazione nazionale, un’epo­pea di massa... Ha scritto lo storico Claudio Pavone che «ancora oggi considerare l’otto settembre come una mera tragedia o come l’inizio di un processo di liberazione è una li­nea che distingue le interpretazioni d’opposte sponde».Non è così,non è lì lo spartiacque riduttivo fra fasci­smo e antifascismo.
È fra chi si rende conto che la catastrofe abbattutasi è nazionale, morale prima che politi­ca, riguarda il carattere, incide sulla nostra immagine futura, segna il rie­mergere di vizi antichi; e chi preferi­sce, anche in buona fede, non vedere, rifugiarsi nella complicità naturale degli istinti primari, sopravvivere in­nanzitutto, riordinare i più rassicu­ranti cliché di un’italianità buona, umile, sottomessa, cui, per fortuna, sono negati destini più grandi, ma più tragici. Per cui si può dar vita a un' Odissea casareccia, come quella che racconterà Italo Calvino ancora a ri­dosso della fine della guerra. «Cos’è infatti l’“Odissea”? È il mito del ritor­no a casa, nato nei lunghi anni di “na­ia” dei soldati portati a combattere lontano, dalle loro preoccupazioni di come faranno a tornare, finita la guer­ra, dalla paura che li assale nei loro sonni di non riuscire a ritornare mai, di strani ostacoli che sorgono sul loro cammino.
È la storia degli otto settem­bre, l'Odissea, la storia degli otto set­tembre della Storia: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici». Un’interpretazione sug­gestiva, non fosse che Ulisse e i suoi intraprendono il loro viaggio verso ca­sa al termine di una guerra vittoriosa in terra altrui, il solo Ulisse si salva, e di otto settembre, purtroppo la «Sto­ria » conosce solo il nostro. Transito­rio, ancora oggi, come la XII norma della Costituzione.