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Sul cammino della consapevolezza spirituale: terza tappa, il Viandante

di Francesco Lamendola - 07/04/2011



Dopo quelle dell’Innocente e dell’Orfano, siamo arrivati a parlare della terza tappa nel cammino della consapevolezza spirituale: quella del Viandante.
L’essere umano è, in quanto tale, fondamentalmente un «homo viator»: così lo vedevano i grandi teologi del Medioevo, un viandante in cammino lungo le strade del mondo, alla ricerca della sua vera patria, la celeste Patria perduta.
Così lo descrive anche Dante nel suo immortale poema: un uomo che vaga nella selva oscura, di notte, pieno di sgomento, per poi affrontare un cammino lungo e difficile, pieno di pericoli e di angosce, ma sorretto dalla speranza di uscire a «riveder le stelle».
Anche nei romanzi medievali del ciclo arturiano, particolarmente con la figura del Cavaliere alla ricerca del Santo Graal, noi vediamo agire questa forza poderosa di natura trascendente, che spinge gli uomini alla ricerca di qualche cosa che non  si trova quaggiù, o che quaggiù può trovare solo un simbolo, un richiamo allusivo della sua realtà vera; di fatto, senza il concetto della ricerca del Graal, non è possibile capire nulla della civiltà medievale e dei suoi valori.
Con l’affermarsi del nuovo paradigma della modernità, l’uomo occidentale smette di sentirsi un viandante, incomincia a insediarsi nel mondo da padrone pago e soddisfatto, benché gli morda il cuore un’ultima inquietudine, quella della propria mortalità; il movimento era già iniziato con l’Umanesimo e il Rinascimento, ma è solo con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVIII secolo che si afferma pienamente e prosegue, poi, fino ai nostri giorni.
Anche nella cultura antica esisteva la figura del viandante, ma era un viandante d’altro genere: Odisseo, ad esempio, si affatica per ritrovare la strada d casa, ma si tratta della sua casa terrena, non di una casa celeste; è solo con Platone che compare, nel mondo greco, l’idea di una patria originaria che non è di questo mondo, e di una ricerca che non si risolve entro l’orizzonte delle cose umane, ma che tende verso la dimensione dell’infinito.
Nella cultura moderna, la nostalgia per la dimensione perduta dell’Innocenza, che è una manifestazione della nostalgia per la Patria perduta, fa capolino già all’epoca dell’Illuminismo, con il mito del “buon selvaggio”; per poi manifestarsi pienamente con la figura dell’eroe romantico, sempre irrequieto e in lotta contro tutto, inseguito da un sogno di pienezza e di felicità che non ha niente a che fare con l’«oggetto del desiderio» di cui parlava Ariosto, perché non è un oggetto terreno, bensì ultraterreno.
Uno dei pochi filosofi moderni che hanno ripreso il concetto e il termine, tipicamente medievali, di «homo viator», è stato Gabriel Marcel, nell’ambito del cosiddetto esistenzialismo cristiano; ma si tratta, appunto, di una rarissima eccezione, perché, in linea generale, la filosofia moderna, dimentica della metafisica e dell’Essere, ha obliato anche la nozione di Viandante, anche se non ha potuto impedire che l’inquietudine, cacciata dalla porta, rientrasse dalla finestra.
Perché il Viandante è un personaggio inquieto?
Perché lo muove il desiderio di più vasti orizzonti che non quelli terreni e perché avverte la pungente nostalgia di una Patria lontana, di una Patria perduta, che egli aspira a ritrovare e alla quale vorrebbe fare ritorno.
Non è, dunque, una inquietudine dovuta alla mancanza di qualche bene terreno, non ha a che fare con il regno della quantità, ma con quello della qualità: è l’espressione di una nostalgia dell’essere, non dell’avere e tanto meno dell’apparire.
Significativamente, la letteratura europea moderna è piuttosto povera di figure del Viandante, anche se essa si apre con un romanzo che ne presenta una sorta di caricatura nel personaggio, fra il tragico e il grottesco, di don Chisciotte della Mancia, smarrita ed alquanto stranita controfigura del cavaliere medievale senza macchia e senza paura.
Così come galleggia fra il banale ed il grottesco l’altra grande controfigura del Viandante di antica memoria, quel Leopold Bloom dell’«Ulysses» di Joyce, che, vagando per le strade di una Dublino che rappresenta l’anonima città moderna, alla ricerca della moglie e del “figlio” (che in realtà non ha mai avuto), ricalca, capitolo per capitolo e ogni volta con una diversa tecnica narrativa, i ventiquattro canti dell’«Odissea» omerica
Comunque, a ben guardare, la figura del Viandante non è realmente scomparsa dall’orizzonte della letteratura moderna, quanto piuttosto si è mimetizzata, assumendo, volta a volta, le sembianze di qualche altra figura tipica della modernità, ma conservando le caratteristiche essenziali della sua struttura originaria: il senso dell’inquietudine, il bisogno di dare forma all’informe e ordine al disordine, di individuare una vasta rete di significati di cui la sua vita sia parte.
In questo senso, non ci sarà difficile scorgere la figura del Viandante fare capolino, più o meno travestito sotto mentite spoglie, in moltissime opere narrative moderne, dal dottor Faust di Goethe, al Seduttore di Kierkegaard, allo Zarathustra di Nietzsche e perfino dietro il fu Mattia Pascal di Pirandello, l’Antoine Roquentin di Sartre (ne «La nausea»), Emma Bovary di Flaubert, per non parlare di molti indimenticabili personaggi dostoevskiani, primo fra tutti Ivan Karamàzov, che finisce per impazzire a causa della sua incapacità di trovare un senso all’esistenza; e senza scordarsi del professor Aschenbach di Thomas Mann (ne «La morte a Venezia») o del Narratore della «Recherche» proustiana.
Perfino nelle carte dei Tarocchi, pallido riflesso di un sapere tradizionale molto più augusto e più antico, a tutta prima si resta interdetti su quale degli Arcani Maggiori possa venire accostato alla figura del Viandante; a nostro parere, quella che più gli si avvicina è la figura del Matto, che non solo è spesso rappresentata con il bastone da viaggio, come un tipico pellegrino, ma che, soprattutto, inizialmente era identificata con il numero zero e, quindi, corrispondeva all’Arcano senza numero: come dire che nel Matto esistono tutte le possibilità, senza che alcuna sia attualmente definita; e tale è, appunto, la condizione del Viandante.
Il Viandante è colui che può diventare qualsiasi cosa, l’angelo o la bestia, con tutte le possibilità intermedie; egli è alla ricerca di un senso nel mondo e, di conseguenza, è anche alla ricerca di una identità, essendosi reso conto di non averne alcuna (proprio come il fu Mattia Pascal pirandelliano). Il Viandante, dunque, è l’Orfano che si è reso conto di essere tale e che va tenacemente alla ricerca di una verità, anzi, della Verità, affinché essa dia un significato nuovo al suo essere nel mondo e guidi con sicurezza i suoi passi nella polvere d’infinte strade.
Dicevamo che quella del Viandante, a differenza dell’Innocente e dell’Orfano, non rappresenta una tappa “obbligata” nel percorso esistenziale degli esseri umani; infatti, non basta essersi smarriti per divenire, con ciò stesso, dei Viandanti; manca ancora la cosa principale, senza la quale non si ha un peregrinare, ma un girare a vuoto: ossia la consapevolezza dello smarrimento e, allo stesso tempo, una profonda insoddisfazione per ciò che esso comporta.
In altre parole, il Viandante è un uomo (o una donna) in cammino, alla paziente ricerca di qualcosa: egli sa di aver perduto la strada e sa di rischiare il disastro, per cui il suo vagabondare non è casuale e non è spensierato, ma, al contrario, terribilmente serio, per quanto possa, talvolta, camuffarsi dietro la risata o dietro lo scherzo.
In questo senso, benché l’intellettuale moderno sia, spesso, uno “spostato” e un declassato rispetto all’ordine sociale vigente, e quindi - inevitabilmente - uno scontento e, talvolta, un buffone, nondimeno nulla è più lontano dall’autentico Viandante di figure come quella del Perdigiorno dello scrittore romantico Joseph Freiherr von Eichendorff o come quella dello Scaramouche di Rafael Sabatini; semmai lo si potrebbe avvicinare all’Uomo Senz’Ombra di Adelbert von Chamisso ed anche, perché no, al Grande Meaulnes di Alain Fournier, senza dimenticare il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry.
Se ci è concessa una brevissima digressione personale, dobbiamo dire di aver incontrato l’archetipo del Viandante, un giorno, in carne ed ossa - o, almeno, tale era la sua apparenza. Fu molti anni or sono, alla periferia un paesino dell’interno del Brasile, precisamente nello Stato del Goiás, su una di quelle strade polverose di colore rossiccio, che spiccano così caratteristicamente sullo sfondo della verde boscaglia tropicale.
Era di primo mattino, le vie erano ancora deserte ed ecco, non si sa da dove provenisse, ci sfiorò un giovane dal sorriso enigmatico, che guardava dritto avanti a sé con aria intenta. Camminava spedito, a grandi passi, eppure leggero, come se danzasse; per tutto bagaglio portava uno zainetto sulle spalle, ma si capiva che doveva aver percorso una strada lunghissima, e che una forse ancor più lunga lo aspettava.
Non è facile riportare alla memoria tutti i particolari, a una così grande distanza di tempo, ma una cosa è certa: vederlo passare e scomparire fu tutt’uno, come se fosse stata una visione; e al tempo stesso, la sua fuggevole presenza aveva portato con sé una strana ventata di aria fresca, come di liberi orizzonti che, per un istante, si fossero spalancati, dischiudendo prospettive di inaudita profondità e mai prima neppure sospettate.
Non siano inclini alle fantasticherie sulle apparizioni angeliche o suoi dischi volanti, ma quella volta, lo sentimmo con viva intensità, percepimmo di essere stati sfiorati dal Mistero, come se la sua ala evanescente ci avesse toccati per un attimo, al preciso scopo di suggerirci un indizio di infinito.
Non stiamo dicendo che quel giovane fosse qualcosa di diverso da un normale essere umano, anche se il suo apparire fu tanto misterioso quanto il suo allontanarsi e se, mentre ci passava accanto, avevamo percepito un non so che di diverso, come un’atmosfera trasognata, allorché - stando a quel che si dice - la realtà ordinaria appare sospesa, quasi attendesse una rivelazione arcana.
Tutto quel che sappiamo e che possiamo dire, è che un alito di mistero ci passò accanto con quel suo passo elastico, con quel suo sorriso assorto; e che quella strana scena, da allora, ci è rimasta impressa ben viva nella mente, per tutti questi anni.
Ecco: così ci piace immaginarlo, il Viandante: come un giovane uomo in cammino lungo le interminabili, polverose strade del mondo, con un piccolo bagaglio sulle spalle e con l’andatura decisa di chi non sta girando a vuoto, ma sta andando alla ricerca di qualcosa di ben preciso, anche se non facile da trovare; qualcosa che può giustificare qualunque fatica e qualunque sacrificio, perché potrà dare un senso nuovo a tutta l’esistenza.
Il Viandante è colui che non si adagia, che non si accontenta, che non prende per buone le verità prefabbricate e le formulette preconfezionate; è colui che vuole andare al fondo delle cose, a qualsiasi costo, senza risparmiarsi e senza scoraggiarsi facilmente.
È un uomo raro (o una donna rara) e, proprio per questo, tanto più ammirevole e tanto più prezioso: una persona che sa guardarsi dentro almeno quanto sa guardarsi intorno, con sguardo limpido ed acuto e con profonda onestà e verità interiori; e ciò in un mondo sempre più caratterizzato dalla finzione, dal nascondimento, dalla inautenticità.
Ma la Patria perduta di cui il Viandante è alla ricerca, la Verità per la quale è pronto a vivere e a morire, non sono tanto fuori di lui, quanto dentro di lui: il Viandante è, essenzialmente, un uomo alla ricerca onesta di se stesso; perché chi trova realmente se stesso, finisce per trovare anche tutto il resto, come naturale conseguenza.
Abbiamo bisogno di più Viandanti e di meno perdigiorno, turisti, vagabondi del non senso e cacciatori del tutto e subito; il Viandante, infatti, è paziente, dà tempo al tempo e sa che nessuna scorciatoia, nessuna furbizia sono possibili per abbreviare il percorso, per giungere alla meta prima che sia giunto il momento.
Abbiamo bisogno di Viandanti che ci aprano la strada, che ci facciano provare il desiderio di metterci in cammino: anche quando sbaglia strada, il Viandante è ugualmente un esempio da ammirare e da seguire, perché quel che conta sono il coraggio e la buona fede con cui si è messo in gioco, senza riserve.
E poi il Viandante, in fondo, non sbaglia mai strada. A volte la allunga, ma non la perde mai del tutto. Perché la meta è la strada stessa; e il senso del cercare, è nel cammino stesso….