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Tutti pazzi per il talibano

di Giampiero Mughini - 09/04/2011


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Siccome conosco molto bene il mio pollo, quando ho preso in mano l’ultimo libro di Massimo Fini, Il Mullah Omar (Marsilio, pp. 162, euro 16,50), sapevo quello che mi aspettava. Tanto lo sapevo quanta provocatorietà ma anche coraggio intellettuale Fini ci avrebbe messo, in un libro in cui per tanti aspetti sembra “tifare” per i Talebani afghani e pur di dare addosso a quell’Occidente amerikanizzato che lui odia con tutta l’anima, che ho cominciato a leggerlo già dieci minuti dopo che il postino me lo aveva consegnato.
Tra parentesi, la copia mi è così dedicata: «A Giampiero, in nome di un eterno litigio». Falsissimo. Con Fini ci conosciamo da circa trent’anni, e io da liberal occidentale e che ama molto l’America non ho mai “litigato” con lui. È lui che una volta sì e l’altra pure ne dice di cotte e di crude su di me e sui miei libri e sul fatto che sono al mondo. Lo ripagherò adesso con la stessa moneta? Ma nemmeno per idea.
Per quanto uno possa essere lontano dai criteri e dai giudizi di Fini, questo libro te lo racconta a meraviglia l’inferno afghano - la “guerra sbagliata” di cui ha scritto l’americano Bing West, già autore di un magnifico libro sulla battaglia di Fallujah durante la guerra in Iraq. L’inferno delle battaglie che noi occidentali non possiamo vincere e della democrazia che non possiamo esportare; l’inferno di una paesaggio geopolitico dove ogni montagna e ogni tribù e ogni signore della guerra sono un mondo a sé e con regole loro e non ci puoi far niente, e tanto più se quello che fai di più è lanciare bombe da diecimila metri; l’inferno di costumi e credenze che i secoli hanno modellato e rispetto ai quali i valori occidentali sono purtroppo merce invendibile.
Italiani come invasori
E purtroppo non è neppure vero che i soldati italiani in particolare siano ben visti perché «brava gente», perché sono in Afghanistan a portare medicinali e accarezzare i bambini e costruire ponti e scuole. Quando lo scontro di “civiltà” è talmente aguzzo e devastante, non ci sono più sfumature né terreni di mezzo né carezze ai bambini che tengano. Agli occhi della buona parte della gente afghana, i nostri soldati appaiono degli invasori. Né più né meno dei soldati americani e, prima di loro, dei russi.
Fini racconta un episodio agghiacciante. Il 26 settembre del 2006 tre nostri Puma vennero centrati dall’esplosione di un ordigno che era stato nascosto dai Talebani in un canale di scolo. I nostri soldati vengono scaraventati via dal botto, il caporalmaggiore Giorgio Langella muore sul colpo, la soldatessa Pamela Rendina si contorce per terra gravemente ferita. Dalle case del villaggio lì vicino escono a decine degli afghani, nessuno dei quali aiuta i nostri soldati. «Al contrario, la folla canta, balla, urla di gioia, sghignazza», scrive Fini. Leggere questa parole è come una medicina che ti fa schifo solo a vederla, e che però il medico ti ha raccomandato perché indispensabile a guarire la tua malattia. In questo caso l’illusione che prima o poi noi occidentali la guerra in Afghanistan la vinceremo e placheremo le febbri di quel Paese a noi remotissimo ed esporteremo la democrazia al modo nostro. Un’illusione che non ha né capo né coda. E dunque, grazie al medico Fini.
Lasciamo stare i passaggi del suo libro che a leggerli hai un sussulto. A esempio quello in cui è lì lì per scrivere che l’attentato dell’11 settembre 2011 lo ha organizzato la Cia con la complicità di Osama bin Laden. Ho detto “lì lì”, perché in verità Fini arriva sulla soglia di questa voragine intellettuale e poi si ritrae: non di molto, ma si ritrae. Lasciamo stare le tante pagine in cui Fini non la smette di dire che la gente afghana ha i suoi valori e di quei valori vive e quei valori sono migliori della paurosa assenza di valori della società occidentale. Che appaia come un valore che le donne malate debbano essere curate solo da medici donne e giammai da medici uomini, oppure che le donne non debbano andar a scuola, queste sono porcate che non ingoierò mai.
Sono porcate, non valori: porcate che fanno male a loro, alle loro donne innanzitutto.
Così come neppure un solo minuto della mia vita rinuncerò a credere che l’avventura della mia generazione - l’avventura la cui architrave portante era l’esibizione e la messa in valore del corpo femminile - sia stata un’avventura di felicità e di libertà per tutti, una felicità e una libertà che ha migliorato la vita di tutti. E me ne strainfischio altissimamente di tutte le «donne senza dignità» che oggi usano in Italia e altrove il loro corpo a far reddito e carriera. Mai e poi mai scambierò lo scorcio di una strada occidentale con i suoi negozi e le sue minigonne e le sue libertà e le sue razze e religioni mescolate e fuse assieme, voglio dire uno scorcio di Parigi o di Zurigo o di Amsterdam o di New York o di Milano, con null’altro al mondo.
Il Male assoluto
Ma non è questo il punto. Fini ha fatto benissimo a scrivere questo libro e a intitolarlo a un personaggio che nel sentire corrente di noi occidentali appare come «il Male assoluto». Ossia il Mullah Omar, l’orbo su cui pende una taglia di 25 milioni di dollari. Solo che quando la metti sul piano del Male assoluto, finisci col non comprendere nulla. Non comprendere nulla del Paese dove sei e combatti, della gente che ti sta attorno, di quello che puoi fare o non fare con loro e per loro.
Male assoluto o no, nell’Afghanistan di domani i Talebani dovranno avere un loro posto e un loro ruolo. E questi accordi prima si faranno e meglio è, e meno morti massacrati ci saranno stati. A quel punto un qualche alto ufficiale americano o altro si troverà di fronte il Mullah Omar, e meglio per lui se saprà con chi ha a che fare, se di quel suo interlocutore conoscerà non solo il fanatismo, ma anche il curriculum e il coraggio e il suo radicamento nella storia recente dell’Afghanistan e della sua gente. Solo da quel contatto e da quel rapporto e da quella conoscenza reciproca potrà nascere qualcosa di non belluino. Non certo dalle bombe scaraventate da diecimila metri.