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Sul cammino della consapevolezza spirituale: quinta tappa, il Martire

di Francesco Lamendola - 09/04/2011

La parola "martire" viene dal greco e significa "testimone" ("mártyr") e, come tutti sanno, nei primi secoli del Cristianesimo veniva adoperata per designare chi affrontava consapevolmente le persecuzioni, le torture e anche la morte, per non rinnegare la propria fede.
Per estensione, essa è passata, nel corso del tempo, a indicare coloro i quali sono disposti a qualunque sacrificio, compreso quello della propria vita, pur di testimoniare i valori in cui credono, siano essi religiosi, politici (come nel caso dei "martiri di Belfiore" del dicembre 1852) o d'altro genere.
In una accezione ancora più ampia, si può definire martire "chi è afflitto a lungo da grandi dolori fisici e morali e anche chi è ingiustamente maltrattato" ("Il grande Dizionario Garzanti della lingua italiana"); dove, come si vede, è scomparsa del tutto la componente volontaristica e "martire" diventa chiunque, anche senza averlo voluto né cercato, si trovi a soffrire molto, peraltro non necessariamente ad opera di persone che si accaniscano contro di lui, ma anche a causa di malattie o di altre circostanze avverse.
In senso iniziatico, il Martire è colui che si rende disponibile al sacrificio di se stesso, non tanto per affermare un'idea, quanto per amore incondizionato degli altri; e ciò non sulla base di un impulso meramente emotivo e sentimentale, ma per una ferma convinzione, raggiunta attraverso un lungo cammino interiore: che al mondo c'è bisogno di vero amore, e quindi di disponibilità al sacrificio personale, per controbilanciare l'egoismo e la cattiveria così largamente diffusi.
La storia, secondo questa prospettiva, non è solamente il luogo in cui si confrontano strategie politiche, economiche, filosofiche, ma, prima di tutto, il risultato di una incessante dialettica fra il principio dell'ego, che vuole affermarsi ad ogni costo su tutto e su tutti, e il principio della gratuità, del dono, dell'offerta, che nulla chiede in cambio e nulla si attende, assolutamente libera e disinteressata.
È stato detto, un po' schematicamente, che esistono solo due specie di esseri umani: quelli che prendono e quelli che danno; e una parte di verità è certamente racchiusa in questa rozza e tuttavia efficace schematizzazione.
Chi è dominato dal principio dell'ego è sempre proteso alla ricerca della propria affermazione, non trova mai pace se non quando ha superato gli altri, li ha messi in ombra, è riuscito a primeggiare e ad attirare su di sé il maggior numero possibile di sguardi ammirati, e sia pure invidiosi; egli ragiona in base a una logica puramente oppositiva, quella dell'amico/nemico: amico è chi favorisce il proprio ego, nemico chi lo contrasta.
Per lui, la vita è un perenne campo di battaglia in cui devono esservi sempre dei vincitori e dei vinti; e, naturalmente, egli vuole trovarsi nella schiera dei primi e considera come la peggiore disgrazia quella di poter scivolare nel numero dei secondi.
Non gli viene in mente che, nella vita, possa esserci anche qualche cosa d'altro: nel lavoro come negli affetti, nella sfera privata come in quella pubblica, è sempre pronto ad attaccare, sempre sul chi va là, sempre diffidente di tutti e divorato dall'ambizione di superare ogni possibile concorrente.
Si stupirebbe molto se qualcuno gli dicesse che si può essere vincitori, anche quando si è persa una battaglia, purché si sia rimasti fedeli a se stessi e purché si sia combattuto lealmente e per una causa giusta: per lui, contano solo i risultati esteriori, conta solo il giudizio della massa; è un uomo della quantità, non della qualità.
L'altra categoria di persone è formata da coloro i quali, dopo errori e cadute, hanno compreso che nella vita si può fare qualche cosa di meglio che combattere sempre per la propria affermazione e a danno di qualcun altro; si può, per esempio, puntare alla propria realizzazione spirituale, non contro il prossimo, ma attraverso di esso, aiutandolo e sostenendolo, per quanto possibile: perché, così facendo, si finisce per aiutare e per sostenere anche la parte migliore di se stessi. 
Ecco, questo concetto ci avvicina alla figura del Martire come archetipo del cammino spirituale verso la consapevolezza: un uomo (o una donna) che si sono gettati l'ego dietro le spalle e che vivono con generosità, con disponibilità, con serenità per rispondere alla chiamata dell'Essere e per dare il proprio contributo al disegno benevolo che presiede alla vita, ben sapendo che anche il più piccolo gesto, ma puro e disinteressato, che sia fatto alla più modesta delle creature, compresi gli animali e le piante, non rimane senza effetto, ma può dare frutti straordinari, anche se chi lo ha compiuto potrebbe non vederli personalmente.
D'altra parte, vi è una differenza sostanziale, anche se talvolta più sottile di quel che non si creda, fra il vero e il falso Martire: il primo persegue il bene disinteressatamente, il secondo persegue il piacere masochista della propria sofferenza, convinto che essa sia un valore in se stessa, indipendentemente dalle intenzioni con cui la offre; l'uno ha raggiunto una tappa molto avanzata sul cammino interiore, l'altro avrebbe bisogno di consultare un bravo psicologo, per liberarsi dalle proprie oscure ossessioni e dal proprio patologico bisogno di autopunizione.
Nessuno che abbia raggiunto la vera consapevolezza spirituale affronta volentieri il martirio e nessuno lo cerca a cuor leggero: perfino Cristo, sudando sangue nell'Orto degli Ulivi, pregò il Padre suo che lo liberasse, se ciò era possibile, dall'amaro calice della sofferenza.
Affermare il contrario, ossia che l'autentico Martire non vede l'ora di gettarsi nella fornace della sofferenza, significa fraintendere completamente il senso dell'autentico martirio.
Il martirio non è lo scopo di alcunché, ma il prezzo che talvolta si deve pagare per accedere a livelli superiori di consapevolezza: perché la consapevolezza spirituale non viene offerta gratis a chiunque ne faccia richiesta, ma deve essere conquistata faticosamente, pagando di persona, senza sconti e senza scorciatoie.
Questa è la essenziale serietà della figura del Martire: egli non è un pessimista e un odiatore della vita, che affronta il dolore e la morte perché considera il vivere come un grave fardello e non desidera altro che riuscire a liberarsene al più presto; al contrario: egli ama la vita, così come ama tutto l'esistente, ma sapendo che vi è un ordine più alto, mediante il quale si riscattano le aporie dell'esistenza; e che, per raggiungere tale ordine, bisogna saper affrontare anche i più duri sacrifici.
Detta in altro modo: non tutti coloro che patiscono il martirio, offrono per ciò stesso una "testimonianza": vi è un genere di martirio che non significa nulla, se non il poco amore di se stessi e l'eterna suggestione di quelle dottrine dualiste che contrappongono il qui ed ora all'Altrove: come se non si trattasse, invece, di due polarità ugualmente necessarie per liberarsi dall'illusione di ciò che è impermanente e per accedere a un piano più elevato della realtà.
Il martire, pertanto, è - in buona sostanza - colui che si sacrifica volontariamente; ma che cosa vuol dire, di preciso, "sacrificarsi"?
Il termine, è chiaro, deriva dalla pratica delle antiche religioni, in cui qualcuno si sacrificava, o veniva sacrificato, per il bene dell'intera comunità, ad esempio per la fertilità del raccolto o per far cessare una epidemia; di tali pratiche, testimoniate nell'antico Ebraismo dall'episodio di Abramo e Isacco, vi è un ricordo anche nel Cristianesimo, ma su di un piano morale assai più elevato, nel mistero del "sacrificio dell'eucaristia".
Ora, senza tanto arzigogolare, è chiaro che ogni qualvolta si pospongono il proprio benessere, il proprio quieto vivere, e - per adoperare una parola grossa - la propria felicità, al bene di qualcun altro, ci si sacrifica per lui; ed è chiaro che tale sacrificio, che può arrivare, in casi estremi, fino al dono della vita ("Nessuno ha un amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici", dice Cristo durante l'ultima cena, nel Vangelo di Giovanni), ha valore se si tratta di un gesto spontaneo e disinteressato, che non mira ad alcun vantaggio futuro e non nasce da timidezza o stanchezza verso la vita, bensì da una sovrabbondanza di vita, una sovrabbondanza tale da non potersi limitare alla cura del proprio bene, ma da voler abbracciare il bene degli altri.
Vi sono delle persone, infatti, che si sacrificano per il prossimo, ma solo o principalmente perché, in fondo, non amano la propria vita, non sanno che farne, non osano sperare di poter essere felici: dunque, così inconsciamente ragionano, tanto vale imboccare la strada della rinuncia e del sacrificio ed assaporare così l'amara soddisfazione di sentirsi in credito verso il mondo.
È come se queste persone dicessero agli altri: "Vedete come ci sacrifichiamo? Vedete come rinunciamo alla nostra felicità, per amore degli altri?"; ma nei loro pensieri, nei loro gesti, non c'è vero amore, bensì una sua più o meno abile contraffazione.
In verità, talune di esse non amano i parenti anziani o malati dei quali si prendono cura, piuttosto li odiano: ma non osano confessare un tale sentimento neppure a se stesse, perché non potrebbero sopportarlo; allora raddoppiano di attenzioni verso il prossimo, attenzioni il cui vero scopo non è far star bene o dare sollievo agli altri, ma tacitare i propri sensi di colpa e far vedere a tutti che bravi e devoti figli o fratelli o genitori siano.
Se le si osserva con un po' di attenzione, però, non si tarda a scoprire il loro segreto: esse credono di averlo ben dissimulato, ma bastano uno sguardo, un semplice gesto, a tradire la verità di quel che hanno realmente nel cuore.
A noi, però, in questa sede, non interessa un tal genere di martire; quello che a noi interessa è il Martire vero, quello a cui la vita ha insegnato che arriva inevitabilmente il momento in cui, per procedere sulla via della consapevolezza spirituale, bisogna sacrificarsi, gettandosi dietro le spalle il fardello ingombrante del proprio ego.
L'archetipo del Martire è presente in molte opere letterarie e cinematografiche, sia pure con diverse sfumature e osservato da differenti prospettive.
Fra le prime, possiamo ricordare Lucia Mondella ne "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni, Éponine Thénardier e, alla fine della storia, lo stesso Jean Valjan, ne "I miserabili" di Victor Hugo, Sarah Miles ne "La fine dell'avventura" di Graham Green; e, naturalmente, la protagonista del romanzo di Alexandre Dumas figlio "La Signora delle camelie".
Fra le seconde, ricordiamo almeno il personaggio di Calvero nel film "Luci della ribalta" di Charlie Chaplin; il timido impiegato Baxter ne "L'appartamento" di Billy Wilder; l'extraterrestre Klaatu in "Ultimatum alla Terra" di Robert Wise; il maggiore Heyward ne "L'ultimo dei Mohicani" di Michael Mann; il reduce Walt Kowalski in "Gran Torino" di Clint Eastwood.
Nel contesto del cammino verso la consapevolezza spirituale, la figura del Martire, comunque, rappresenta solo una tappa e, quindi, una fase temporanea, dopo quella del Guerriero e prima di quella del Mago.
Il Martire è colui che ha compreso che vi sono battaglie che bisogna affrontare, pur sapendo che procureranno molta sofferenza e che saranno altri a goderne i frutti; battaglie, nondimeno, che fortificano l'anima, rendono più limpido lo sguardo e creano così le condizioni per l'ulteriore movimento dello spirito: quello per il superamento del dolore e per la sua trasformazione in fattore positivo, di crescita e di riconciliazione con il Sé e con il mondo.
Figura ammirevole, altamente spirituale, generosissima, il Martire non è un archetipo "fisso": se il suo ruolo si esaurisse nel martirio e nel totale sacrificio di sé, certo egli darebbe una nobile testimonianza di altruismo, ma non fornirebbe alcuna indicazione per il superamento delle aporie della vita, con le quali dobbiamo comunque fare i conti.
Lo ripetiamo: colori i quali si sacrificano con troppo entusiasmo, cercano in realtà di coprire una propria insufficienza: come fanno, ad esempio, le eterne crocerossine che si propongono di "redimere" degli uomini radicalmente inadeguati, dei quali tuttavia si innamorano, ma solo perché, in fondo, non credono di meritarsi nulla di meglio.
Chi ama veramente gli altri, ama anche e prima di tutto se stesso; ma si ama nel modo giusto, senza narcisismo e senza troppa indulgenza: si ama di un amore aspro e forte, che punta sempre verso il meglio di se stesso.
Solo chi è capace di ciò, può sacrificarsi davvero; per poi rinascere e riprendere a salire verso l'alto.