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Riflessioni tra il sacro e il profano, vistando una chiesa di paese

di Francesco Lamendola - 12/04/2011




La chiesa è stata interamente ricostruita dopo la prima guerra mondiale, che, da queste parti, è stata come - direbbe don Abbondio - una grande scopa: ha spazzato via edifici e monumenti, senza distinguere quelli sani e quelli malati, per la gioia degli architetti che hanno potuto sbizzarrirsi pienamente, liberi dai vincoli dell’esistente.
È stata ricostruita in forme neogotiche imponenti, con una struttura verticale accentuata dalla posizione topografica, in alto rispetto alla riva del fiume: e suscita stupore che un paese, il quale contava allora non più di tremilacinquecento anime, abbia potuto impegnarsi in un’opera così grandiosa; ma la stessa cosa è avvenuta un po’ dovunque.
Architetti, scultori, pittori, erano pagati; ma i muratori lavoravano gratis, erano parrocchiani che prestavano buona parte del loro tempo, sottraendolo a se stessi e al proprio lavoro, per la costruzione del nuovo edificio sacro.
Come se non bastasse, si autotassavano: l’imponente campanile, che ricorda un po’ quello della Basilica di San Marco a Venezia (mentre il progetto originale prevedeva una costruzione cilindrica, sul modello ravennate, non adatto a queste zone pedemontane), era chiamato “il campanile delle uova” perché, per anni, le famiglie rurali vendevano le loro uova alle aziende e il ricavato era destinato alle spese per erigere il campanile.
Le famiglie più benestanti offrivano i banchi di legno, le decorazioni parietali, le costose sculture: se si osservano i capitelli delle decine di colonne e colonnine, non se ne vedono due uguali: sono tutti diversi l’uno dall’altro, rivelando una fantasia e una creatività straordinarie.
Il risultato è stato un edificio imponente, concepito in grande (che, anzi, avrebbe dovuto essere ancora più grande, dato che il transetto è stato poi alquanto ridimensionato rispetto al progetto), con tanto di matroneo al primo piano che, già allora, era stato pensato non solo in funzione di aula liturgica, ma anche in funzione museale, per ospitare degnamente le pale, gli arredi sacri, i calici, i candelabri e tutto quanto appartiene alla dotazione parrocchiale e tener vivo, così, il senso dell’identità spirituale e della continuità storica.
È passato quasi un secolo, la popolazione del paese è più che raddoppiata, sono sorte numerose fabbriche e il tenore di vita è radicalmente cambiato, passando dalla povertà e dall’emigrazione al benessere diffuso e a una consistente immigrazione straniera, che qui sfiora il dieci per cento della popolazione complessiva.
Col benessere, è cresciuta anche la richiesta di comodità: mentre nel freddo inverno i fedeli si coprivano bene e sopportavano pazientemente di tremare per tutta la durata delle funzioni, ora è stato installato un complesso sistema di riscaldamento ad aria calda.
Ora l’acqua benedetta non gela più nella vasca di marmo e non gela nemmeno il vino da messa (esisteva un apposito marchingegno per riscaldarlo e farlo sciogliere, affinché il sacerdote lo potesse bere al momento della comunione); in compenso, i muri interni si sono coperti di sporcizia, perché il calore rapprende la polvere sulle superfici, e ciò rende necessari costosi e complicati lavori di restauro periodico.
Il fervore spirituale, la fede da cui sono scaturiti edifici sacri come questo (e quella è stata l’ultima grande stagione di autentica vitalità religiosa a livello popolare), oggi non c’è più; il matroneo resta vuoto e polveroso, non è affollato dai fedeli e nemmeno è stato realizzato il museo parrocchiale; una bruttissima serie di vetrate moderne sfigura la prospettiva delle arcate; a stento la ricca comunità odierna riesce a conservare il grande edificio costruito dai bisnonni.
Ora, è ben vero che conservare è sempre più difficile e più costoso del costruire; ma ci sembra indubitabile che un cambiamento spirituale sia avvenuto nel corso degli ultimi decenni, un cambiamento di segno materialista, edonista e individualista, che ci rende difficile compiere sforzi e sacrifici i quali, ai nostri nonni, sarebbero apparsi lievi; in breve, un cambiamento che ci ha impoverito e, forse, svuotato di energie spirituali, anche se ci ha consentito di circondarci di oggetti di lusso e di macchine incaricate di renderci la vita più comoda.
Un’altra riflessione che sorge spontanea, vistando un edificio religioso costruito dalla fede e dalla buona volontà dei nostri avi, è la tirannia esercitata dalla Sovrintendenza per i Beni culturali, la quale, nel suo encomiabile impegno di salvaguardare il ricchissimo patrimonio artistico esistente nel nostro Paese, finisce per vincolare al cento per cento qualunque margine di autonomia dei soggetti sociali, al punto che un prete non è più libero nemmeno di piantare un chiodo sul muro per mettere un avviso ai fedeli; e questo mentre interi siti archeologici vengono abbandonati al degrado più vergognoso o circondati da aree residenziali di asfalto e cemento.
L’intenzione, ripetiamo, è lodevole; ma, come sempre avviene, lo spirito vivifica, mentre la lettera uccide: e l’interpretazione letteralistica finisce per paralizzare ogni attività autonoma e per gravare con una serie di vincoli asfissianti le piccole comunità, le quali, tuttavia, dipendono inevitabilmente dai finanziamenti pubblici per la manutenzione del proprio patrimonio artistico.
A pochi chilometri da qui, per esempio, c’è una chiesa medievale antichissima, un autentico gioiello romanico, con tanto di affreschi originali: essa è sede di una parrocchia di appena cinquecento anime, rigidamente vincolata da una serie di imposizioni gravanti sopra un edificio sacro di rilevante interesse storico-culturale.
La situazione dell’Italia, grazie al Cielo, è ben diversa da quella degli Stati Uniti; in essa gli edifici pubblici e privati di riconosciuto valore storico, artistico e paesaggistico sono così numerosi, che, praticamente, se ne incontra uno ad ogni angolo di strada e fin nei più piccoli borghi rurali: in tali condizioni, forse sarebbe giusto applicare i vincoli delle Belle Arti con un minino di discernimento e di elasticità, proprio per evitare che, senza peraltro riuscire a proteggere efficacemente il patrimonio artistico (tanto è vero che i furti e i trafugamenti all’estero di opere sacre e profane proseguono ogni giorno, con ritmi industriali), rendono però la vita quanto mai difficile alle persone e alle comunità locali.
La dittatura della Sovrintendenza dei beni culturali, tra le altre cose, crea un senso di onnipotenza e talvolta anche di arbitrio in coloro che la esercitano.
Può accadere che una casa privata, antica poco più di un secolo, venga vincolata da essa e che ne sia decretata la ristrutturazione e, per esempio, la riverniciatura, in una particolare tinta che essa non ha mai avuto (ma che fa tanto “colore locale”, come il rosso veneziano); e che poi quella famiglia, nonostante le promesse ricevute, si trovi a dover sostenere quasi interamente da sola una grossa spesa, per realizzare tali lavori: lavori non necessari e che essa non si era nemmeno sognata di programmare.
Con i Beni Culturali, insomma, rischia di crearsi una situazione analoga a quella di certi funzionari dei servizi sociali e di certi giudici dei tribunali minorili, i quali, sentendosi investiti di una autorità superiore e di un autentico spirito di crociata, talvolta sottraggono la patria potestà a dei genitori per ragioni decisamente opinabili, arrogandosi il diritto di stabilire che una certa coppia non è degna di allevare i propri figli; intervento che, invece, dovrebbe essere preso solo in casi assolutamente estremi, tale è il rischio, altrimenti, di compiere degli irreparabili soprusi.
In Italia, dunque, si è riusciti a coniugare il massimo dell’inefficienza nella protezione del patrimonio storico-culturale (e le recenti vicende del sito archeologico di Pompei lo hanno mostrato, impietosamente, davanti a tutto il mondo), con il massimo della rigidità, della arbitrarietà e della pratica dittatoriale da parte delle autorità preposte a tale salvaguardia.
Un risultato più unico che raro, che, crediamo, non possiede eguali negli altri grandi Paesi d’Europa e che, a quanto sembra, non sta insegnando al alcuno le riflessioni del caso.
In un certo senso, qui vediamo ben esemplificati i due peggiori difetti della politica italiana degli ultimi decenni: lo statalismo ossessivo, demagogico, soffocante, di una sinistra che sa soltanto dire “no”; e l’avventurismo, l’irresponsabilità, il disprezzo delle leggi, da parte di una destra che si occupa esclusivamente di curare gli interessi dei più ricchi.
Queste sono alcuni dei pensieri che ci si accavallano nella mente durante una visita un po’ meno frettolosa ad una chiesa che abbiamo visto già tante volte, senza però spingerci fino al matroneo e senza ammirare dall’alto, come ora, il grandioso gruppo scultoreo della Crocefissione, presso l’altar maggiore, e la fuga prospettica della imponente navata sottostante.
Se, come riteniamo fermamente, ogni luogo, sia esso naturale o artificiale, possiede un’anima, questo è un luogo che ha accumulato, nel corso del tempo, una fervida spiritualità, trasmessa ad ogni pietra, ad ogni decorazione, ad ogni vetrata dal sentimento religioso di generazioni di anime pie: non perché quei parrocchiani fossero tutti dei santi (ciò sarebbe l’ennesima, e menzognera, versione del “buon selvaggio” di Rousseau), ma perché, impegnandosi ad innalzare dal niente e con una tecnologia molto più rudimentale della nostra, queste migliaia di tonnellate di marmo, simili ad una gigantesca preghiera solidificata, la loro anima, per quanto non più devota, forse, di quella degli uomini d’oggi, si era effettivamente slanciata verso l’assoluto con mirabile trasporto.
Per contro, verso che cosa si slancia l’anima delle persone nella odierna società consumista, che non innalzano più, con la fede e la fatica di una intera comunità, luoghi di preghiera e di culto, ma quasi soltanto banche, centri commerciali, discoteche, aeroporti e parcheggi sopraelevati (o sotterranei) per attirare nei centri urbani centinaia di automobili.
Quando due persone s’incontrano, nella lingua friulana, si dicono: «Mandi», che è una contrazione - secondo una certa etimologia - della frase: «Mi raccomando nelle mani di Dio»: espressione carica di affettività e di spiritualità.
Ma oggi, in tempi di edonismo dilagante, nelle mani di chi ci rimettiamo; nelle mani di chi affidiamo le nostre vite?
Certo, queste sono riflessioni politicamente assai scorrette; sono le riflessioni, tanto vale dirlo chiaro e tondo, di un reazionario.
Oppure no?
Reazionario è chi non ama la modernità, chi non crede che sia un valore in se stessa; chi ritiene che abbiamo sbagliato strada, e da un pezzo, per cui non stiamo andando affatto verso «le magnifiche sorti e progressive», ma verso la follia, il disonore e la catastrofe.
Se pensare così significa essere dei reazionari, allora non abbiamo alcun problema a rivendicare, con fierezza, un tale appellativo; ce ne sono fin troppi di “progressisti” che sanno solo adorare l’esistente e prostrarsi servilmente davanti a tutto ciò che è nuovo, quasi che l’essere libero da ogni tradizione costituisse un valore di per sé evidente.
Il dramma del reazionario è che, anche se ci vede meglio degli altri e la sua analisi è lucida e coerente, nondimeno egli sa benissimo che le cose non potranno mai tornare come prima, perché ogni cambiamento sociale e culturale tende a scalzare i vecchi paradigmi e ad instaurarne dei nuovi, in un movimento incessante e irreversibile.
Dunque, a che pro rimpiangere un ordine di cose che non potrà mai più tornare?
Non sarebbe assai meglio venire a patti col presente, per non autoescludersi da ogni decisione significativa?
Sì, forse sarebbe meglio; e nondimeno, bisogna pure che qualcuno dica forte e chiaro che abbiamo imboccato una strada sbagliata, che ci sta portando verso il baratro; questa non è la sindrome di Cassandra, ma un atto di lealtà e di responsabilità verso le future generazioni.
Il reazionario, a certe condizioni, non è tanto colui che guarda indietro, verso un impossibile ritorno al passato; ma colui che sa vedere così lontano, da scorgere il punto in cui il futuro darà la mano al passato, in una sintesi felice che ristabilirà una sintesi armoniosa.
Perché chi adora l’esistente, non vede al di là della punta del proprio naso; ma chi si pone con atteggiamento critico verso di esso, riesce a scorgere quanto vi è di perenne nella storia, dietro la facciata dei mutamenti superficiali, delle mode passeggere, degli effimeri trionfi del presente.