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Hybris

di Giacomo Gabellini - 12/04/2011



 Quando il giovane e rampante Carl Schmitt ebbe l’ardire di reclamare l’istituzione di limiti atti a garantire la salvaguardia di uno “spazio tedesco”, molti credettero  di ritrovarsi in presenza di una mera rivisitazione della vecchia “Dottrina Monroe” - “L’America agli americani” -  varata nel 1823 dal presidente statunitense James Monroe (che aveva a sua volta attinto alle fonti teoriche di John Quincy Adams). La rivendicazione di Schmitt affondava però le radici in una considerazione radicalmente diversa dello spazio rispetto a quella che aveva animato la “Dottrina Monroe”. La concezione schmittiana dello spazio è infatti indissolubilmente legata al concetto romano di “limes”, il confine che separa distinte entità territoriali nell’ambito delle quali si rendono attuabili precise e rigide costruzione giuridiche e politiche. Il presidente Monroe era invece a capo di una emergente potenza talassocratica, destinata inesorabilmente ad ereditare il primato dal declinante Impero Britannico. Le potenze talassocratiche sono generalmente portatrici di una concezione dello spazio legata al mare, regno per eccellenza del caos, inadattabile ad ogni tipo di regolamentazione in forza della sua intrinseca allergia strutturale a tutto ciò che concerne confini e delimitazioni e, di conseguenza, immune all’autorità di qualsiasi Stato. Al lento declino dell’Europa e alla speculare ascesa della superpotenza statunitense è dovuta, secondo Schmitt,  la distruzione dello “jus publicum europaeum” , una forma di diritto internazionale fortemente intrisa di ideali nati per lo più nel tardo Medioevo, sviluppatisi nei secoli e cristallizzatisi definitivamente nelle norme contenute nel Trattato di Westfalia (1648). Quello storico accordo di pace pose la pietra tombale sulla sanguinosa Guerra dei Trent’Anni, una guerra architettata a tavolino da particolari oligarchie transazionali, che sfruttarono le divisioni religiose e sociali che serpeggiavano in seno ai vari paesi europei per dar luogo a un duro ed estenuante conflitto finalizzato a disintegrare l’istituzione dello Stato Nazionale edificata durante il Rinascimento. Le nazioni però resistettero, e sottoscrivendo quel particolare patto gettarono la basi del diritto internazionale, un nomos della terra fondato proprio su principi tellurici quali, ad esempio, l’inviolabilità dei territori nazionali e la tutela della sovranità di ogni singolo stato nazionale. Con la ratifica del trattato in questione i paesi coinvolti tentarono di favorire una composizione diplomatica dei conflitti, e di stimolare la solidarietà reciproca a discapito delle divisioni interstatali. Una fondamentale obiezione all’istituzione di un diritto internazionale atto a regolamentare il comportamento dei singoli stati la mosse Georg Wilhelm Hegel, il quale sottolineò l’irrilevanza di una forma di diritto qualsiasi in assenza di un potere, di un’autorità superiore in grado di farne rispettare i vincoli. Laddove un potere sovranazionale non esista o non disponga di forza sufficiente, si vengono inevitabilmente a creare le condizioni fondamentali dello stato di natura, regno per eccellenza dell’”homo homini lupus” in cui l’unica legge valida è quella del più forte, che trionfa in quel “bellum omnium contra omnes” così lucidamente descritto, a suo tempo, da Thomas Hobbes: “L'uguaglianza naturale fra gli uomini fa in modo che tutti vogliano le stesse cose, che tutti tendano alla propria conservazione, alla propria sicurezza, e che di conseguenza vogliano sottomettere gli altri. Da questa situazione nascono la competizione, la diffidenza, il desiderio di gloria, la guerra di tutti contro tutti”. Conflittualità e rivalità sono effettivamente condizioni preponderanti nell’ambito delle vicende umane, rare e particolari sono invece pace e armonia. Hobbes individuò nel sovrano quella figura suprema capace di impedire il pieno dispiegamento del “bellum omnia contra omnes”, e nello Stato quell’istituzione in grado di affermare una legge propria invalidando quella del più forte. La ricetta di Hobbes si è dimostrata valida alla prova dei fatti, poiché l’obiettivo che si era prefissato era quello di limitare i conflitti all’interno dello Stato. Ma se nella competizione tra individui lo Stato può effettivamente far ricorso a determinati strumenti in dotazione per far valere la propria autorità, non esiste alcuna istituzione sovranazionale in grado di arginare i rischi potenzialmente esplosivi che comporta la conflittualità interstatale. Nel caso specifico, ciò che era valido e applicabile per gli uomini si è verificato inadeguato e inadattabile alle nazioni, che regolano i loro comportamenti reciproci mediante accordi e trattati di facciata che non vincolano in realtà nessuna delle parti sottoscriventi. E’ proprio prendendo atto della oggettiva fondatezza di simili considerazioni che Carl Schmitt si espresse in favore della creazione di un’istituzione suprema incaricata di regolare i rapporti internazionali basandosi sui canoni di un specifico ordinamento, uno “jus publicum europaeum” vincolante imperniato sull’area territoriale europea teso a porre limiti e regolamentare la conduzione della guerra. La guerra, come concetto, ha iniziato ad assumere una dimensione giuridica solo a partire dal Rinascimento, a coronamento dei titanici sforzi profusi da illuminati giuristi (Grozio) e filosofi (Hobbes) che si erano presi la briga di sottrarlo alla sfera teologica che si occupava - ponendosi nel solco tracciato da Agostino – di coglierne unicamente l’eventuale “giustizia” (o “santità”, se si considerano le Crociate). Se la guerra è “giusta” (o “santa”) , l’avversario si fa nemico assoluto e la posta in gioco, capitale, non può che coincidere con la sua distruzione. Ma chi si occupa di individuare e stabilire l’eventuale “justa causa” che motivi la guerra? Quale istituzione, in poche parole, può essere posta nelle condizioni di decidere? Non c’è risposta a questa domanda, né potrebbe mai esistere. L’unica ferma posizione che Schmitt si sente di assumere al cospetto di tale rompicapo è legata al riconoscimento dei numerosi pregi propri al vecchio “jus publicum europaeum”; un ordinamento che aveva preso realisticamente atto dell’ineliminabilità  della guerra in quanto fattore di risoluzione delle vicende umane, e, in forza di ciò, riconosciuto ad ogni stato lo “jus ad bellum”, rendendo, in tal modo, irrilevante ogni tipo di considerazione relativa ad una sedicente “justa causa”. Quello che superficialmente poteva apparire uno sconsiderato passo indietro o una esaltazione della guerra, è stato in realtà un enorme passo avanti, in quanto lo “jus publicum europaeum” sostenuto dai solidi pilastri appena considerati ha garantito un effettivo contenimento della guerra. Nei quasi tre secoli (1648 – 1914) in cui ha tenuto banco, lo “jus publicum europaeum” è riuscito a porre forti limitazioni alla guerra, non solo alla luce del riconoscimento della legittimità della guerra ma grazie anche all’introduzione e al costante sviluppo di un codice specifico di gestione e conduzione delle operazioni militari  (“jus in bello”). Se ogni stato è titolare del diritto di far ricorso alla guerra – di qualsiasi natura essa sia (sia difensiva che offensiva) – non esistono paesi “giusti” e “sbagliati” (o “canaglia”…) nell’ambito del conflitto. Esistono soltanto due o più fazioni che si combattono tra loro, in un conflitto cui possono prender parte anche paesi esterni, i quali hanno diritto ad allearsi con questa o quella compagine e contro l’altra o le altre in base valutazioni fatte autonomamente. In uno scontro in cui ognuna delle parti in causa ha diritto a tutelare i propri interessi anche facendo ricorso alla forza nessuno può porsi nelle condizioni di brandire la spada della giustizia. Queste conquiste, come è noto, andarono in frantumi in occasione della ratifica del trattato di Versailles (1919), che segnò tanto l’epilogo della Prima Guerra Mondiale quanto la disintegrazione del classico “jus publicum europaeum”. In quella sede si stabilì di disseppellire la vecchia nozione premoderna della “justa causa” (poi rivisitata e corretta), caricando così il concetto di guerra di un’inedita connotazione discriminatoria. Si condannò Guglielmo Secondo come criminale di guerra, si criminalizzò la guerra di aggressione  e si violò l’integrità territoriale tedesca, cui furono sottratte le regioni di Alsazia e Lorena. Da quel momento in poi si è instaurata la tendenza, da parte di ogni Stato, a reclamare la legittimità di intervenire con la forza non più soltanto nella tutela dei propri interessi, ma soprattutto in nome di concetti vaghi e arbitrari fatti forzosamente e illogicamente combaciare con le più alte finalità proprie alla comunità interstatale. Il concetto di guerra, in forza della  suo carattere discriminatorio,  si è reso inadattabile all’interno del diritto internazionale dal vocabolario del quale è stato gradualmente espunto e sostituito con altri edulcoranti neologismi. Il vecchio “jus publicum europaeum”, riconoscendo legittimità alla belligeranza, aveva permesso che la guerra venisse assunta come un concetto giuridico non discriminatorio e regolamentabile. Un nuovo ordinamento giuridico incaricato di individuare la parte “giusta” e quella “sbagliata” all’interno di un conflitto armato, non può che riconoscere come legittimo l’intervento di un’unica parte e inquadrare come fuorilegge e criminale quella opposta.  Non si può più parlare di guerra a questo punto, ma di repressione di un crimine, una mansione di cui normalmente è incaricata la polizia. Si rende così possibile considerare uno stato alla strenua di un vero e proprio criminale, un nemico assoluto per tutti gli altri stati dalla fedina penale pulita. Qualcosa di molto simile a un pirata, figura contemplata dal classico “jus publicum europaeum”. Le campagne contro la pirateria non erano infatti considerate come azioni di guerra, ma come operazioni di polizia atte a ripulire i mari. Siccome i pirati (a differenza dei corsari) attaccavano le navi commerciali senza badare a quale bandiera battessero, essi non venivano considerati come “justis hostis” bensì come nemici dell’intera comunità internazionale. In assenza dell’opposizione amico/nemico dovuta al loro mancato riconoscimento come “justis hostis”, la repressione contro i pirati era considerata priva di qualsiasi connessione con la politica, così come nei conflitti di oggi la degradazione a “stati canaglia” di nazioni considerate alla strenua di nemiche assolute (i sedicenti “nemici dell’umanità”) non ha nulla  a che vedere con il “politico”, nel senso schmittiano del termine. Il mancato riconoscimento del nemico come “justis hostis” e  il suo conseguente inquadramento come “nemico dell’umanità” è un’operazione pericolosa e sconsiderata, finalizzata ad appropriarsi di un concetto astratto e universale come l’umanità, sottraendolo alla controparte. Se la posta in gioco è la salvaguardia dell’umanità, significa che esiste un nemico che non solo non rientra in essa ma che intende distruggerla. Tanto più sia ha da perdere, quanto più si alza il livello dello scontro, e l’avanzare della tecnica è proceduto di pari passo con questo pericoloso trend. Il vecchio “nomos della terra” è tramontato e un nuovo “nomos del mare” di tempra statunitense, incardinato sui dogmi del libero mercato e dell’occidentalizzazione del pianeta, ne ha preso il posto. La criminalizzazione di intere nazioni non allineate a tali imperativi ha determinato il profilarsi di scenari a dir poco inquietanti, come la possibilità, solo ventilata per ora, di far ricorso ad ordigni atomici per piegare l’Iran o come gli interventi militari scatenati contro Iraq e Libia. Il diritto internazionale, che normalmente si prefigge l’obiettivo di contenere la guerra, ha definitivamente perso la propria ragion d’essere. Spetta all’Europa rispolverare il proprio glorioso passato, riaffermare la supremazia del vecchio “jus publicum europaeum”  rispetto alla megalomane dottrina contemporanea che ignora ogni limite, e restituire alla guerra quella legittimità che attualmente ci si ostina cocciutamente e buonisticamente a negarle. La ricerca del limite diventa così un fattore cruciale, da opporre al delirio di onnipotenza, alla “hybris” che affligge questi nuovi aspiranti dominatori del mare. Riscoprire il ruolo centrale del “politico” tracciando nuove linee di demarcazione che separino gli amici dai nemici e consolidare il concetto nodale di Stato sono le strade da percorrere per un’Europa in evidente crisi di identità.