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Il grande saccheggio. Intervista a

di Piero Bevilacqua - Paolo Bartolini - 12/04/2011


 

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In questa intervista allo storico e saggista Piero Bevilacqua continua la serie di microindagini sulle idee per la Transizione, altrettante finestre affacciate su pensieri che potrebbero accompagnarci a lungo, ora che non vogliamo attardarci con gli schemi del XX secolo: la solita destra-sinistra, le isole culturali incomunicanti, gli scontri di civiltà, il mercato delle idee funzionale alle ideologie dell'accumulazione, sullo sfondo delle possibilità autodistruttive della nostra specie. Stiamo conoscendo invece menti creative, libri davvero originali, pensieri diversi. Forse conosceremo soluzioni ai problemi generati da un cambiamento difficile.

1) Professor Bevilacqua, lei ha sostenuto che la crisi che stiamo vivendo è diversa da tutte le altre attraversate dal capitalismo storico. Può spiegarci perché?

In genere tutte le crisi cicliche del capitale sopravvengono dopo una fase di esuberanza produttiva. Durante questa fase le imprese fanno grandi profitti, grazie a un aumento straordinario della produttività (legato alle innovazioni tecnologiche), ma offrono in genere larga occupazione e anche aumenti salariali ai lavoratori. E' il tempo delle “vacche grasse”, la fase alta del ciclo e quindi, in una certa misura, anche i lavoratori traggono qualche beneficio. Ad esempio, prima della Grande Crisi degli anni Trenta la situazione industriale degli USA aveva proprio queste caratteristiche. Ma tutto questo non si è verificato prima dell'attuale crisi, né in USA né altrove.

La disoccupazione è rimasta elevata, gran parte dei nuovi lavori sono stati creati nei servizi e per lo più in forme precarie. Inoltre i redditi dei lavoratori non sono aumentati. Basti pensare che a metà degli anni 90, in USA, i bambini poveri rappresentavano oltre il 26%, la stessa cifra della Russia di Eltsin, allora in preda alle convulsioni dovute al crollo dell'URSS. Inoltre, resta da aggiungere, che la crisi economica e finanziaria avviene in un quadro di grave allarme per l'esaurimento delle risorse naturali e per il riscaldamento climatico in atto. Quindi la crisi si presenta come la sconfitta di un paradigma dello sviluppo che ha dominato fino a oggi.

 

2) Secondo lei le ragioni dell’ecologia e dell’ambientalismo possono conciliarsi con la Green Economy o esigono piuttosto un ripensamento radicale del modello di sviluppo capitalistico?

La green economy, può contribuire a far prendere al capitalismo una direzione meno distruttiva di quella attuale, offrire posti di lavoro di nuovo tipo, creare un entusiasmo culturale industriale di tipo ambientalista, favorire anche la democrazia con la creazione di una diffusione “sociale” di fonti di energia. Vale a dire dare autonomia energetica ai cittadini che dipendono sempre meno da grandi strutture centralizzate, come le società elettriche, le centrali atomiche, ecc. E tuttavia essa non può essere pensata come un modo per continuare lo sviluppo, per inseguire la crescita economica quale obiettivo generale. Perché è il cosiddetto sviluppo, la crescita illimitata dell'economia ,la nostra più grande minaccia, e la green economy non deve costituire l'alibi per continuare nella corsa.

 

3) Che ruolo riconosce alla Decrescita nella prospettiva di un superamento dell’attuale sistema economico e sociale?

La decrescita - o, forse meglio, la creazione di uno “stato stazionario”, nel quale entrate e uscite nel sistema stanno in equilibrio - è , a mio avviso , la prospettiva teorica giusta. E qui concordo con Latouche. Ma questa prospettiva ha una difficile traducibilità politica. In democrazia la lotta politica avviene secondo regole non violente che puntano a guadagnare il consenso dei cittadini. Come convinciamo i cittadini alla decrescita? Ancora non siamo riusciti a elaborare un nuova narrazione sulla decrescita che sia minimamente paragonabile a quella costruita sul “grande racconto” dello sviluppo. Sotto il profilo politico io credo che il tema dei beni comuni abbia una più grande capacità comunicativa, all'altezza dei problemi ambientali che abbiamo di fronte e in grado di creare convinzioni profonde nei cittadini, reale egemonia.

 

4) Qual è la sua opinione sulla finanziarizzazione dell’economia globale? Possono ancora esserci dei margini di autonomia per gli Stati nazione, in mancanza di una effettiva sovranità monetaria?

La finanziarizzazione dell'economia mondiale è frutto di scelte politiche fatte dai vari governi e stati. Questi governi e stati da altri non sono stati diretti che dagli uomini politici che noi abbiamo eletto. Quindi – teoricamente – non è affatto impossibile ricondurre la potenza finanziaria sotto il controllo pubblico. Per questo è importante intervenire sul momento fondativo del potere, che nello stato di diritto è ancora quello delle rappresentanze politiche. La sinistra ha molto trascurato di studiare i modi per separare il ceto politico dal potere economico in generale, che alla fine finisce sotterraneamente o apertamente per orientare la politica di quasi tutti i Paesi. Occorre sottrarre gli eletti (sindaci, consiglieri, parlamentari, ecc) all'influenza del potere economico, rendendo egalitarie le risorse disponibili per tutti coloro che concorrono nella gara elettorale. I redditi di chi entra in politica devono diventare monitorabili costantemente dai cittadini attraverso loro strutture autonome e legalmente riconosciute. Chi viola le regole perde per sempre il diritto a candidarsi. Naturalmente ci sono molti altri punti da sviluppare, cosa che ho fatto nella parte finale del mio libro Il grande saccheggio, Ma constato che siamo molto lontani anche solo dall'avvio di un dibattito.