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Trieste o cara, vivere fra libertà e liberty

di Stenio Solinas - 13/04/2011

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Nella seconda metà dell’Ottocento, i salotti della buona borghesia triestina cominciarono a riempirsi di quadri all’insegna dell’italianità. Era un’italianità a volte deliberatamente dichiarata: i dipinti di Induno, De Albertis, Butti, dedicati all’epopea risorgimentale, a volte più pudicamente accennata, il rifarsi di pittori quali Dell’Acqua, Gatteri, Caffi all’età d’oro della Repubblica di Venezia e della Firenze dei Medici, alle rovine della Roma classica. Insieme contribuivano a delineare una passione, l’irredentismo, che soltanto cinquant’anni dopo avrebbe avuto il suo compimento, quel 4 novembre del 1918 in cui il cacciatorpediniere «Audace» attraccò al molo San Carlo con a bordo reparti di bersaglieri e di carabinieri: le prime truppe italiane a calcare il suolo di Trieste.
Nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, la città dedica a quella che fu una vocazione prima, una realtà poi e, all’indomani della Seconda guerra mondiale, una colpa e una tragedia, due mostre ambiziose e intelligenti: «Arte e Nazione» e «Il liberty a Trieste».
Ospitata al Museo Revoltella (sino al 5 giugno), la prima, curata da Maria Masau Dan, mescola le suggestioni di una sontuosa residenza ancién regime, con la rappresentazione del sentimento popolare, degli ideali e dei sacrifici che si collegavano allo sforzo degli italiani alla conquista dell’unità e permette un continuo confronto visivo tra il soggetto della lotta, i combattenti italiani appunto, e l’oggetto della sua avversione, quell’«invasore straniero» impersonato dall’omonimo proprietario di ciò che allora era una semplice dimora patrizia, il veneziano Pasquale Revoltella, fedele suddito dell’imperatore d’Austria.
La seconda mostra, a cura di Federica Rovello (sino al 19 giugno), racconta invece l’alba del Novecento architettonico cittadino e lo fa all’interno di un contenitore che è esso stesso un «pezzo» della mostra, la Pescheria, costruita nel 1911: qui, le foglie di Max Fabiani per casa Bartoli, le cariatidi di palazzo Viviani Giberti di Giuseppe Sommaruga, la torretta d’angolo di Romeo Depaoli per la casa Terni Smolars, i dadi e le scacchiere di Umberto Fonda, i mascheroni di Giovanni Maria Mosco delineano una metropoli capace di accogliere sì esperienze differenti e etnie diverse, ma anche di entrare in una modernità che il declino della vecchia città imperiale consegnava di fatto a un’esplosione della cultura e del gusto italiani. Sono gli anni in cui la Società Ginnastica Triestina diventa una fucina di patriottismo, c’è il proliferare delle testate giornalistiche in lingua, L’Indipendente, Il Piccolo, Il Lavoratore, lo sviluppo demografico disegna sempre più i contorni di un’italianità non comprimibile (180mila abitanti a fronte di una popolazione di 235mila nel giro di secolo fra Otto e Novecento).
Tenacemente volute dall’assessore alla Cultura Massimo Greco, al quale si devono fra l’altro in questi anni il recupero doveroso dello scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini, gli omaggi alla figura e all’opera di Tullio Kezich, Ettore Sottsass, Gillo Dorfles, le personali sulla scultura di Marcello Mascheroni e la pittura di Casorati e Lénor Fini, le due rassegne spiegano insomma meglio di un libro di storia l’italianità particolare di Trieste, così carica di aspirazioni a lungo represse, infine raggiunte, di nuovo compresse e/o negate, regolamenti di conti, questioni identitarie e di confine. Del resto lì il primo ’900 si consuma proprio in una sorta di corto circuito dove cozzano individualità acerbe ed esacerbate, meticciati culturali fecondi e pericolosi, inquietudini politiche, intellettuali, sentimentali... Come scriverà Scipio Slataper, «Trieste è un posto di transizione, cioè di lotta. Ogni cosa è duplice o triplice, cominciando dalla flora e finendo con l’etnicità». E non è un caso che fra il Borgo Teresiano d’impronta settecentesca, palazzo Gopcevich e lo skyline inconfondibile delle Rive, edifici e piazze, spazi prospicienti (i moli) e rientranti (il Canale grande e i bacini) la città si configuri come una quinta architettonica e insieme scenografica, luogo di rappresentazione e di invenzioni, inganni e delusioni.
È lo spazio in cui si muovono i protagonisti del saggio di Giampiero Mughini, In una città atta agli eroi e ai suicidi (Bompiani, pagg. 160, euro 15), che ha per sottotitolo Trieste e il «caso Svevo», ma è in realtà un concentrato, commosso e furioso, di italianità voluta e insieme negata, intellettuale eppure carnale, bastarda e a suo modo incontaminata. Intorno al destino di Ettore Schmitz, l’Italo Svevo che da Una vita a Senilità anticipa di mezzo secolo la modernità novecentesca in letteratura, Mughini fa ruotare i fratelli Stuparich e il già citato Slataper, Michelstaedter e Saba, eroismi da medaglia d’oro della Grande guerra e suicidi metafisici, fascismo e antifascismo, ebraicità, persecuzioni, campi di concentramento e foibe...
Costruito come un itinerario intellettuale che non concede alcunché al colore e al reportage (Mughini a Trieste è stato di rado e sempre di sfuggita), il saggio è anche un vagabondare fra prime edizioni e passioni da bibliofilo, ritratto di uno scrittore «dilettante» e insieme apologia «del più straziante insuccesso letterario» di tutti i tempi, non a caso tenuto a battesimo lì dove il destino di frontiera complica le vite e altera le prospettive. Ben scritto, come sono sempre i libri di Mughini, che ha uno stile proprio, riconoscibile già al primo giro di frase, il libro è per l’argomento scelto anche coraggioso, «in un’epoca in cui è smodata la venerazione sempre e comunque dei successi quantitativi e di vendite e Trieste occupa nell’immaginario collettivo nazionale un posto ben più piccolo che non Rimini e i suoi bagnini e le sue eventuali turiste assatanate». Un’occasione, insomma, propizia «per cacciarmi nei guai, e se uno che scrive non si caccia nei guai che razza di scrittore è?». Una risposta ce l’avrei, ma tanto a che serve?