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Breve ricordo di Franco Volpi

di Giuliano Corà - 14/04/2011

 




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Il 14 aprile 2009 moriva nelle campagne del Vicentino, assurdamente investito da una macchina, Franco Volpi, intento ad una delle sue solite silenziose passeggiate in bicicletta. Certo uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo, Franco era soprattutto, per me, l’amico e il compagno di scuola, la persona buona e gentile che nonostante tutto ciò che ci divideva –in termini di impegni e soprattutto di portata culturale– amavo ogni tanto ritrovare. A due anni di distanza, desidero semplicemente ricordarlo con queste poche parole, pubblicate in quei giorni, scritte allora sull’onda della commozione. Il tempo è passato, ma il dolore è ancora lo stesso. Addio, Franco. (G. C.)

Uno dei tanti riti inutili celebrati dalla nostra società –tanto povera di radici quanto disperatamente bisognosa di valori che diano un senso sia pur effimero al suo convulso esistere– è quello della gita ‘fuori porta’ di Pasquetta. Un tempo rito ‘pagano’ e popolare volto a celebrare il ritorno della Primavera, si è ridotto oggi all’ennesima, frenetica corsa ad un consumo eccessivo e senza senso, che nell’accumulo crede di trovare una giustificazione all’esistere. Chi, anche solo per necessità, sia uscito in macchina in quei giorni, respirava per le strade non gioia e desiderio di rinascita e rinnovamento, quanto una febbrile volontà di presenza e di affermazione, il cui simbolo massimo era quella lunga teoria di automobili lucide, rombanti e vagamente minacciose, per molti l’unico modo di testimoniare il proprio essere.
In quello spasmodico agitarsi, certo non poteva esservi molta attenzione per un ciclista, questa strana specie che percorre silenziosa le strade ascoltando profumi, rumori e silenzi. Forse meno ancora poteva essercene per quell’omino smilzo, un po’ pelato, che pedalava per la campagna senza nemmeno un pezzo di carta in tasca a dire chi fosse. Eppure, qualcuno era. Così, da una di quelle automobili, lunedì pomeriggio è stato ucciso l’amico Franco Volpi, e non ci sono parole, davvero, per piangerlo. Io non so come sia successo. Distrazione? Velocità eccessiva? Fretta di raggiungere qualche meta ‘speciale’? Non lo so, ripeto e forse, a questo punto, nemmeno m’interessa: non spetta a me indagare, e tanto meno giudicare, dico nelle coscienze. Ma so che è bastato un attimo, e l’amico gentile non c’era più, e tutti noi che l’abbiamo conosciuto ed amato ora siamo qui a chiederci –assurdamente, come sempre si fa– perché, e un perché non c’è.
Altri, infinitamente meglio di quanto non potrei fare io, scriveranno di lui, nei prossimi giorni: della sua intelligenza, della sua scienza, dei suoi libri e dei suoi studi, e delle grandi Università nel mondo che oggi hanno deposto una corona sulla sua sedia vuota. Io, invece, ricordo solo il compagno di classe, sui banchi del Liceo Pigafetta. Ricordo l’allievo prediletto del Professor Giuseppe Faggin, ricordo lo studente già allora eccezionale e acuto, eppure anche allora semplice e modesto, un ragazzo per cui filosofare era uno splendido gioco per interpretare il mondo, ma che mai trasformava questo suo dono in cattedra dall’alto della quale dominare. De mortuis nihil nisi bonum, dice Diogene Laerzio, ma potremmo forse dir qualcos’altro di Franco, noi che in tutti questi anni l’abbiamo frequentato e gli siamo stati amici? Noi che ad ogni incontro ritrovavamo la sua bellissima intelligenza, ma soprattutto la sua calda umanità, la sua verissima simpatia, la sua umanissima ironia? Così dunque lo ricordiamo, con affetto e tenerezza, così lo piangiamo, storditi e feriti, grati alla vita per avercelo dato come amico, adirati con un destino insensato che l’ha tolto alla famiglia, ai sodali, alla cultura cui aveva dato doni tanto copiosi e tanto alti. Ti abbracciamo, Francesco, ti abbracciamo per l’ultima volta, e credi che, per quanto ancora ci sarà dato di vita, non potremo dimenticarti, e smettere di amarti.
Tibi, Magister, ave atque vale.