Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Musica, Natura e Silenzio

Musica, Natura e Silenzio

di Giuseppe Gorlani - 18/04/2011

http://www.auditorium.com/images/images/2105322/la-mente-e-la-musica.jpg


L'argomento vasto, complesso e profondo che il titolo ci dispiega dinnanzi può essere affrontato utilizzando due diverse modalità: eruditiva-accademica e di semplice testimonianza fondata sull'esperienza diretta.
Personalmente sono costretto ad utilizzare la seconda – pur avvalendomi di una certa conoscenza nozionistica – non essendo un erudito, ma un semplice ascoltatore dell'Indicibile, intuito come Supremo Bene e Pneuma, contemporaneamente immanente e trascendente, di tutta la manifestazione-creazione.
Dice Marius Schneider in Il significato della musica : «[...] in tutte le religioni e in ogni epoca esistono uomini (non esclusi gli scienziati e i ricercatori) i quali sono mossi unicamente dall'idea utilitaristica, come ne esistono altri che si entusiasmano spontaneamente per un significato superiore della vita».2 Spero sinceramente d'appartenere agli entusiasti ed è in tale veste che mi accingo ad affrontare il tema in questione.
Prima di prendere in esame quel che lega tra loro musica, natura e silenzio, ci soffermeremo singolarmente su ciascun termine.
Il primo deriva dal greco mousiké : «arte (tékhnê) delle Muse». Nella mitologia greca le
nove Muse sono figlie di Zeus e Mnemosyne – personificazione divina della memoria – e fungono da protettrici della musica, del canto e della danza, ma più in generale delle svariate manifestazioni della creatività e del pensiero umani. Perseguire con devozione ed impegno una qualunque arte, in primis la musica, significa dunque ricordarsi di Dio, tornare, come dice una stupenda laminetta orfica, a bere alla «[...] fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosyne».3
Proseguendo nella nostra disamina etimologica, scopriamo che il tema indo-europeo deiwo, da cui deriva Dio, è collegato con la nozione di luce. I Deva dell'Hinduismo sono, infatti, divinità luminose. Marius Schneider, nell'opera già citata, nota: «Poiché in sanscrito “suono” si dice svara e “luce” svar, suono e luce sono sostanzialmente uniti in base alla loro affinità fonetica (cioè essenziale)». E più avanti soggiunge: «Il suono creatore è come il farsi luce che apre la strada al conoscere, come l'aurora, come quella “luce uditiva” che nasce dall'unione del principio lunare con quello solare».4
Da quanto sopra detto si inferisce che ricordarsi di Dio equivale a tornare alla Luce-Suono originari, il cui simbolo più perfetto, nella tradizione hindu, è la sillaba sacra OM, il pranava.5
Il termine “natura” è, invece, assai più impegnativo da penetrare del precedente, a causa della sua estrema ambiguità: nel corso dei millenni numerose spiegazioni ne sono state date e molteplici concetti si sono stratificati su di esso, talvolta affini, ma più spesso discordanti
e tutti, o quasi, con una variabile dose di credibilità. Per farsi un'idea più precisa della complessità e dell'ambiguità alle quali ci riferiamo, basta consultare un qualsiasi dizionario di filosofia. Del resto non bisogna stupirsene: confrontarsi con le infinite possibilità del pensiero è come inoltrarsi in un labirinto, fuori dal quale solo il filo d'Arianna, equivalente alla buddhi, o mente sovraindividuale, sintetica, è in grado di condurci. Aggiungiamo che un'altra possibile definizione di buddhi è “intelligenza del cuore”, giacché è nell'anahata-chakra, o centro sottile del cuore, che risiede la consapevolezza di Sé; la buddhi fa da ponte tra l'esprimibile e l'inesprimibile ed è il classico rametto incandescente che svanisce nel fuoco da esso stesso acceso.
“Natura” può significare “essenza”, ma anche l'insieme dei fenomeni e quindi relatività, apparenza e impermanenza. Vi sono, secondo gli scolastici, una natura naturans, cioè Dio, e una natura naturata, la creazione. Secondo la tradizione orfico-platonica, la natura è la tomba in cui la Divinità s'è obliata di se stessa. Si può considerare la natura come velo celante il divino o come vestigio che a lui conduce, la tenebra che lo nasconde o la luce che lo rivela. Goethe, al quale si attribuisce una concezione dinamico-vitalistica e panteistica della natura, riteneva che essa fosse «veste vivente della divinità».
Noi, eredi d'una cultura cattolica che ha sempre insistito – e giustamente per molti versi – a distinguere il Creatore dal creato, abbiamo
la tendenza a colorare di negatività il termine “panteismo”, il cui significato Letterale (“tutto è Dio”, Vibrazione-Luce-Suono) potrebbe indurre nell'errore di identificare il fenomeno con Dio. A mio modesto avviso, invece, questo termine, se ben inteso, non fa che sottolineare l'aspetto immanente della Verità.
Ammesso che l'Assoluto, come molti mistici e saggi sia d'Occidente che d'Oriente hanno in ogni tempo affermato, non può che essere espresso negativamente, allora nemmeno la concezione di un Creatore distinto dal creato va ritenuta del tutto soddisfacente. Chi aspiri alla realizzazione del Supremo Bene trascende la dimensione religiosa, pur senza negarla, e sfugge ad ogni definizione.
Un'altro possibile modo di riferirsi all'Assoluto è il paradosso (etim.: para-doksa, “oltre l’opinione), celante in sé l'ermetica coincidentia oppositorum. Qui, però, conviene che la mente dicotomica ceda il passo alla buddhi (l'Intelletto dantesco), la cui esistenza, oggi, molti nemmeno sospettano.
Frastornati dalle miriadi di sfaccettature del pensiero – e non abbiamo neppure sfiorato il mare magnum di concezioni sulla natura-maya-shakti-prakriti dell'Hinduismo –, abbeveriamoci alla saggezza del grande Nagarjuna: «Che cos'è uguale? Che cos'è differente? Che cos'è eterno? Cos'è non eterno e eterno? Cosa non è né non eterno né eterno?»; «Tu sei presente in tutto e, insieme, non ti si trova in nulla».6
In fondo il saggio non fa che invitarci a immergerci nel silenzio e a realizzare in prima
persona la natura della realtà, o il sapore della mela, che il coltello – in quanto irriducibile alterità – non saprà mai.
Un giorno, mentre me ne stavo tranquillamente seduto in un prato a gustare la gradevole musica della primavera, una farfalla si posò sull'alluce d'uno dei miei piedi nudi. La guardai distrattamente, ma ad un tratto, stupito, m'accorsi che essa esprimeva consapevole intelligenza. Divenni attentissimo e udii la farfalla “dire”: «Finché non saprai vedere la Totalità dentro di me così completamente come dentro di te, invano busserai alle porte del “Regno dei Cieli”». Detto ciò, si levò, mi girò intorno al capo e scomparve. Fu una salutare lezione per l'homo sapiens, convinto di muoversi in uno scenario di cose inanimate, da utilizzare esclusivamente per soddisfare i propri desideri.
Ora so che Dio è in una farfalla, in una rosa, in un soffio di vento, nel peggior criminale, poiché egli non è l'oggetto di una disperata e inutile ricerca, ma la Presenza indefinibile e onnicomprensiva alla quale occorre restituire la propria illusoria presunzione di entità separate.
Abbiamo già iniziato, nelle riflessioni precedenti, a dare indicazioni su che cosa sia il silenzio e di come esso rappresenti il fondamento degli altri due termini. Tenteremo ora – cosa paradossale – di approfondire questo tema.
Un devoto chiese un giorno al grande Liberato in vita Shri Ramana Maharshi se nei primi anni trascorsi ai piedi del sacro colle Arunacala avesse fatto voto di silenzio, dato che, benché interrogato, non rispondeva mai: «No – rispose il
Saggio – semplicemente non mi sentivo portato a parlare». Con questa risposta sembra che Shri Ramana abbia voluto insegnarci che si può comunicare restando in silenzio e viceversa. Le parole e i silenzi di un Realizzato hanno valore proprio perché sgorgano dal grande silenzio che sta alle radici della vita manifesta.
Il silenzio a cui qui si allude non è dunque la mera assenza di parole o suoni, ma la sparizione della dualità inerente lo sfregamento principiale tra il pieno e il vuoto, il lingam e la yoni, purusha e prakriti, il soffio e la canna vuota, quello sfregamento – detto anche maya o avidya, l'ignoranza metafisica – da cui scaturisce la musica del mondo.
Ma allora c'è da chiedersi: il mondo nella sua triplicità (sfera causale, sottile e grossolana: sonno profondo senza sogni, sonno con sogni, veglia) germina dall'ignoranza o dall'amore? Sia che si risponda in un mondo o nell'altro, o negando entrambe le possibilità, tutte le proposizioni emergenti sono vere, dipende solo da quale prospettiva si adotti per esaminare la questione. Come già detto in precedenza, la musica-natura può essere il velo che nasconde o rivela, il rumore che ottunde o l'inno che eleva, o, infine, l'Ineffabile non diverso da se stesso.
Intesa come mezzo di liberazione, la musica ci addita la via della Bellezza, via sattvica per eccelenza.7 Nel notevole libro di Raphael La Triplice Via del Fuoco, il secondo capitolo, «Fuoco onnipervadente o la Realizzazione secondo l'Amore del Bello», è interamente dedicato a tale via. Ne cito un brano: «La musica di cui ti parlo non è quella creata dalle individualità
sensoriali, ma quella creata dagli Dei. Comunque, quella degli uomini, che scende dall'alto, esercita un potente stimolo per evocare in te l'Armonia delle sfere. È questa la sua funzione, o dovrebbe esserlo. Se una musica – una pittura, ecc. – non t'innalza e non ti trasfigura non è musica che risponde all'Accordo. Abbandonala, non è per te. Nel mondo degli uomini c'è musica e Musica».8
Qualsiasi ente o forma di vita, organica e inorganica, emette la nota corrispondente allo stato di coscienza in cui si trova, e cioè alla sua minore o maggiore capacità di comprendere o riflettere l'Assoluto.9 Perciò tutto è trasparente davanti a chi abbia il “terzo occhio” (ajna-chakra o occhio di Shiva) aperto.
L'ipocrita che ammanta i suoi propositi egoistici di belle parole può ingannare l'ottenebrato, ma non lo svegliato. Oggi il mondo pullula di ipocriti che parlano bene e operano male. Se si sapesse riconoscere la loro nota dominante, oltre le apparenze, diverrebbero impotenti.
Nella celebre saga del Signore degli Anelli, un grande ipocrita è Saruman, il cui potere consiste nella capacità di incantare con parole e concetti suadenti e apparentemente positivi. Molti cadono nella sua rete, ma non Gandalf, lo svegliato, il maestro che, benché si vesta di grigio per meglio mimetizzarsi con le ombre di un mondo in guerra, all'interno splende di pura luce chiara.
Non è dunque tanto importante il significato letterale di quello che si ode, quanto la nota di
fondo che sintetizza la posizione gerarchica dell'ente in rapporto al Suono-Luce originari o, addirittura, la sua sostanziale identità con la Fonte.
Chi, come l'eroe Sigfrido, ha sconfitto il drago del desiderio-paura, bevendone il sangue – e cioè assumendone il potere – comprende il linguaggio della natura e ritorna allo stato edenico, primordiale. Il miste che, affascinato dal richiamo della Bellezza o dell'Amore o della sublime Gnosi, decida di affrontare il viaggio che conduce alle radici di sé, dove risiede il Conoscitore della mente, lo potrà verificare. Nonostante si viva in pieno Kali-yuga,10 la strada è sempre aperta.
Il musicista-etnologo Walter Maioli, nella sua opera Il suono e la musica, mette in risalto la connessione tra musica e natura : «L'uomo primitivo viveva in comunione profonda con la natura e le sue percezioni sensoriali erano molto più sviluppate di quelle dell'uomo d'oggi. Per poter sentire le voci della natura, bisogna rallentare il ritmo affannoso di vita che conduciamo nelle grandi città e riabituare l'orecchio ai suoni più deboli, ascoltando il gioco degli armonici, ed entrare nello scorrere del tempo solare, come fanno gli uccelli, il cui canto raggiunge la massima intensità a mezzogiorno, quando il sole è alto nel cielo».11 E Giovanni Pinna, nella prefazione all'opera, dice esplicitamente: «L'essenza della musica non è altro che la natura stessa».
«Sentire le voci della natura» non significa però limitarsi ad ascoltare suoni esterni, ma entrare in risonanza con essi, unificarsi alla
musica del respiro universale dal quale scaturiscono il canto degli uccelli, il sibilo del vento, il mormorio ininterrotto del mare e il nostro stesso respiro.
Spero che il lettore mi perdoni se, in proposito, cito la mia modesta e frammentaria esperienza personale. Da qualche anno, sul finire dell'estate, vado a trascorrere un mese o due da solo in una capanna isolata, senza luce né acqua, immersa in una pineta silenziosa, in riva al mare, ed ogni volta si rinnova in me la comprensione di cose che so da sempre: innanzitutto il valore – dal punto di vista ascetico – della solitudine, del silenzio e della contemplazione della bellezza il più possibile incontaminata dai segni caratterizzanti la “civiltà”: rifiuti, luci, rumori, fumi tossici, etc. So che non è la solitudine fisica di per sé – come del resto nessun altro mezzo – che può svelarci la nostra identità sostanziale con la Realtà, eppure, come la cerva anelante ai rivi d'acqua, che il Salmista paragona all'anima che ha sete di Dio,12 mi ritrovo spesso a cercare la solitudine e la bellezza ristoratrice della natura; condizioni, queste, dalle quali l'uomo non è escluso, purché redento dalla distruttività nichilista che oggi sembra imperare, e quindi bello, nel senso plotiniano di specchio in cui si rifletta l'Intelligenza (Noûs) divina.
Nella solitudine, ammesso che se ne abbia la predisposizione, tutte le proprie facoltà si focalizzano sull'ascolto dell'Inudibile – lo sfondo sul quale trasmigrano i pensieri –, sino a che la domanda «Chi pensa?», divorati tutti gli
altri pensieri, diventa un imperativo al quale non ci si può sottrarre.
Spesso, nel silenzio profondo del crepuscolo, o tra l'alba e l'aurora, seduto di fronte al mare, in attesa del sole,13 mi rendevo conto che tutti i suoni, compreso il battito del cuore o il rumoreggiare del sangue nelle vene e nelle arterie, si risolvevano in una vibrazione unitaria (spanda) – ad un tempo suono e colore –, trascendente la distinzione interno-esterno, e che quella vibrazione era ananda, la beatitudine del Tao (Dao) autoaffermantesi senza sforzo. Comprendevo, altresì, che la realizzazione dello Yoga, in quanto svelamento e trascendimento dell'Unità ontologica, segna la fine dell'alienazione e dell'esilio; finalmente l'innamorato di Sophía, fuggito all'identificazione con il limite, comunica, sta all'interno: non più turista dello spirito, ma indigeno (etim.: «che genera dentro»); non più dilaniato dal conflitto, ma pervaso di pace, gioia e compiutezza.
Mentre esperivo tali stati di assorbimento, gli animaletti selvatici – lepri, uccelli, bisce, rospi –, attratti probabilmente dall'armonia scaturente dallo stato di Unità, cautamente si avvicinavano. Un leprotto e un uccello, in particolare, mi divennero amici e spesso, durante il giorno, me li trovavo accanto, quasi volessero anch'essi consapevolmente immergersi nella contemplazione in cui s'assapora il gusto (rasa) sublime del Senza Nome.
Eliphas Levi, non ricordo più in quale sua opera, giustamente osservò che il progresso del Mago è segnato dalla sua capacità di influire
sugli animali e sui bambini. Questi, infatti, nella loro innocenza, sanno sempre cogliere la nota essenziale di quel che li circonda, al di là di qualsiasi apparenza.
Non bisogna però dimenticare che «alla natura si comanda solo obbedendole».14 Il verbo “comandare” ha, in questo caso, un certo non so che di sinistro e risulta sgradevole ad uno spirito taoista, ma è sostanzialmente corretto. Potremmo parafrasare il pensiero di Francis Bacon nel modo che segue: «Alla natura si parla ascoltandola».
L'agiografia delle varie tradizioni rigurgita di esempi di santi, saggi, iniziati o, più modestamente, di semplici sadhaka come lo scrivente, ai quali, in conseguenza della loro più o meno perfetta realizzazione spirituale, s'aprono le porte del linguaggio universale. Mi limiterò a ricordare Orfeo, l'archetipo degli artisti e degli iniziati, che col suo canto immobilizzava animali, uomini, demoni e Dei.
Alan Watts, il metafisico hippie, in La gioia di vivere, scrive: «Non rispettiamo il nostro ambiente; lo distruggiamo. Ma, sapete, sfruttare e distruggere l'ambiente, inquinare l'acqua e l'aria e ogni cosa, è proprio come distruggere il nostro stesso corpo. L'ambiente è il nostro corpo. Ma noi ci comportiamo in questo modo folle perché abbiamo una concezione del tutto errata di chi siamo».15
L'uomo unificato al Vero si riconosce anche dall'ambiente in cui vive. Chi è bello e pulito dentro lo è anche fuori: non dissemina le spiagge di milioni di filtri di sigarette, non trasforma
i boschi in pattumiere, né l'aria in qualcosa di irrespirabile. In lui natura, musica e silenzio concorrono a celebrare l'Inesprimibile contenente tutto in Sé, pur non essendo da nulla contenuto.
Riassumendo: “Musica” è la Musa, la buddhi, la facoltà di volgere la mente alla Fonte, persuadendola e incantandola con la bellezza; “Natura” è Mnemosyne, la Shakti, la forza creativa e neutra per mezzo della quale l'illimitato Brahman-Atman sembra assumere contorni e differenziarsi; “Silenzio” è Zeus, il Principio fecondatore, il Purusha, la Causa causarum ; ma tutti e tre non sono che sovrapposizioni all'Ineffabile (Brahman nirguna, Tao, Buddhata, Assoluto inqualificato), in cui siamo immersi, qui ed ora.
Che ognuno realizzi, se può o vuole, «il suono di una mano sola» ed allora tutto gli sarà chiaro.

Note
1) Da: G. Gorlani, Uomo e Natura, La Finestra Editrice, Lavis (Tn) 2006.
2) Marius Schneider, Il significato della musica, Rusconi, Mi 1987, p. 263.
3) Inni Orfici, a c. di Giuseppe Faggin, Asram Vidya, Roma 1986, 41, II, 9.
4) Marius Schneider, op. cit., p. 35.
5) «La sillaba Om è l'essenza di tutti i Veda: essa svela la Realtà suprema», Sri Samkaracharya, Pancikarana-Varttika, 1, in Opere minori, vol. 1°, Asram Vidya, Roma 1990.
6) Nagarjuna, Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamika karika), Boringhieri, To 1968, XXV, 23 e II, 12.
7) Ci si riferisce qui alla dottrina dei tre guna, le tre qualità fondamentali per mezzo delle quali il Principio primo (Brahman saguna) si manifesta. Essi sono: sattva-guna (esprime intelligenza, purezza, luminosità), rajo-guna (esprime energia, attività, passione), tamo-guna (esprime inerzia, oscurità, pigrizia). Queste tre qualità fondamentali dell'Essere manifesto sostanziano anche la musica; avremo dunque una musica sattvica, rajasica o tamasica a seconda del guna preponderante in essa. Con la musica ci si può elevare, energizzare od ottenebrare; ciascuno ne tragga le debite conseguenze.
8) Raphael, La Triplice Via del Fuoco, ediz. Asram Vidya, Roma 1986, II, 65.
9) Dante scrisse: «La gloria di colui che tutto move / per l'universo penetra e risplende / in una parte più e meno altrove» (Paradiso, I , 1-
3). Anche per il sommo Poeta, dunque, la gerarchia tra gli esseri è determinata dal penetrare e risplendere più o meno intensamente del Divinum Lumen nelle varie parti o regni della creazione-manifestazione.
10) Il Kali-yuga è l'attuale era oscura, iniziata, secondo la cronologia tradizionale hindu, il 18 febbraio del 3102 a.C.
11) Walter Maioli, Il suono e la musica, Jaca Book ediz., Mi 1991, p. 9; il libro è corredato da pregevoli illustrazioni di M. R. Machiavelli. Dello stesso Autore è stato recentemente pubblicato il CD Art of primitive sound (“Hic sunt leones”, Mi). Inoltre, agli inizi degli anni '70, egli registrò con il gruppo musicale Actuala tre LP, nei quali musica etnica e musica rock, nell'accezione più ampia, si fondevano armoniosamente.
12) Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum: / ita desiderat anima mea. / Sitibit anima mea ad Deum fontem Vivum: / quando veniam et apparebo ante faciem Dei? (Salmo 42: 2 - 3)
13) Marius Schneider parla di un «suono luminoso» che «sta fra giorno e notte, fra lucentezza e tenebra, fra fuoco e acqua. Il murmere corrisponde alla notte, l'urlo al chiaro giorno, la nota del creatore alla penombra dell'alba» (op. cit., p. 24).
14) Cit. nell'Enciclopedia Garzanti di Filosofia, alla voce “Natura”.
15) Alan Watts, La gioia di vivere, M.E.B., To 1980, p. 26.