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Quel segreto indicibile che lega il giudice e lo attrae verso il criminale

di Francesco Lamendola - 21/04/2011




Pochi libri hanno saputo esplorare con tanta finezza il segreto indicibile che, talvolta, si instaura fra il giudice e il criminale e che attrae segretamente il primo verso il secondo, come «Il tenente del Diavolo» della scrittrice ungherese Maria Fagyas, nata a Budapest nel 1905 ed emigrata in Francia nel 1933 e poi, definitivamente, negli Stati Uniti, nel 1937, seguitando a comporre le sue opere in lingua inglese.
Più e meglio di un trattato di psicologia, questo romanzo, ispirato a un fatto realmente accaduto, il “caso Hofrichter” del 1909, scandaglia con impareggiabile maestria le gallerie ed i labirinti del cuore umano e mostra come le tenebre del criminale possano attirare le tenebre dell’inquisitore, il quale ultimo, più che un desiderio di giustizia, insegue talvolta i propri stessi fantasmi, i fantasmi dell’infanzia o di altre cose che giacciono nel fondo più oscuro del proprio passato e che egli si sforza di esorcizzare, combattendoli in qualcuno che è altro da sé.
Si tratta, in fondo, di un meccanismo piuttosto semplice: il giudice (o il poliziotto) sente una morbosa attrazione per qualcosa che è dentro di lui e cerca di liberarsene, o meglio di sbarazzarsi dei propri sensi di colpa, conducendo una personale battaglia contro il delinquente, che nasce dal suo bisogno di far trionfare una giustizia riparatrice non meno che da una attrazione, alquanto torbida e inconfessabile, di natura più o meno sottilmente sessuale.
Già sapevamo, da tutta una serie di studi, inchieste e saggi, che può instaurarsi una forte corrente erotica fra lo psichiatra e il suo paziente (o la sua paziente), della quale entrambi sono perfettamente consapevoli e che, talvolta, oltrepassa i limiti dell’etica professionale e sfocia in un vero e proprio approccio sessuale; così come sappiamo, ed esistono anche diversi film sull’argomento, che una attrazione erotica si crea abbastanza frequentemente fra l’avvocato difensore e l’imputato di cui egli patrocina la causa, così come - paradossalmente, ma nemmeno tanto - fra il rapitore ed il rapito (o la rapita) e perfino tra il carnefice e la vittima, come nel celebre film «Il portiere di notte» di Liliana Cavani, del 1974.
Mancava, però, a quel che sappiamo, una analogo studio circa i rapporti fra il giudice istruttore, specialmente il pubblico accusatore, e la persona dell’indiziato di reati più o meno gravi; anche se il tema è stato qua e là sfruttato da libri e film di un certo successo, ad esempio «La vedova nera» di Bof Rafelson, del 1987, interpretato da Theresa Russell e Debra Winger, in cui un agente federale donna si mette sulle tracce di una pericolosa assassina che, nel profondo di se stessa, ella ammira ed invidia e da cui si sente attratta (memorabile la scena, peraltro estremamente sobria, del bacio risolutivo fra le due antagoniste).
Anche il «La gemma della corona» di Paul Scott, del 1966 (romanzo da cui è stato tratto uno sceneggiato televisivo di notevole successo nei Paesi di lingua inglese) tratta il tema della relazione perversa che unisce il poliziotto e l’indiziato, ma in maniera assai più esplicita e brutale: perché l’ispettore di polizia Ronald Merrick è apertamente attratto dal giovane Hari Kumar, che odia e disprezza, ma da cui è sessualmente turbato, tanto più che a lui sono andate le preferenze della ragazza su cui aveva messo gli occhi, Daphne Manners.
Invece «Il tenente del Diavolo» mette spietatamente a nudo, ma, al tempo stesso, allude con stupefacente delicatezza, al segreto più inconfessabile che si annida nell’animo del giudice militare Emil Kunze: l’attrazione irresistibile, di natura inequivocabilmente erotica, che egli nutre per il sospettato numero uno di una inchiesta per omicidio, l’intelligente e sfrontato tenente Peter Dorfrichter: che, se non avesse trovato sulla sua strada un inquirente così testardamente deciso a inchiodarlo, molto probabilmente sarebbe riuscito a farla franca per insufficienza di prove, anche a motivo della simpatia che è in grado di destare in quasi tutti quelli che lo avvicinano.
Il romanzo - dal quale, nel 1983, è stato tratto un film televisivo per la regia di John Goldschmidt, interpretato da Ian Charleson, Helmut Griem e Barbara De Rossi (quest’ultima nel ruolo di Marianne Dorfrichter) - è costruito sul filo di una schermaglia implacabile fra i due uomini, entrambi consapevoli del segreto che li lega e tuttavia rigidamente ligi alle distanze gerarchiche e processuali che li dividono, che si concluderà solo con il verdetto della corte militare.
Kunze, da ragazzo, ha subito una violenza sessuale da parte di un compagno più grande e quel lontano e oscuro episodio, che egli ha cercato di dimenticare, relegandolo in fondo alla sua coscienza, riemerge dolorosamente nel momento in cui si trova a tu per tu con il tenente sospettato di assassinio, verso il quale concorrono tutti gli indizi di colpevolezza: intelligente, cinico, amorale, sovranamente egoista e spietatamente vendicativo, ma anche, in una strana e indefinibile maniera, straordinariamente carismatico.
In una delle scene più illuminanti del romanzo di Maria Fagyas, il giudice Kunze e l’imputato Dorfrichter si trovano faccia in un colloquio carico di sottintesi e di cose non dette, perché indicibili (da: «Il tenente del diavolo»; titolo originale «The Devil’s Lieutenent», M. Bush-Fekete, 1970; traduzione italiana di Francesco Saba Sardi, Milano, Rizzoli, 1973, pp. 409-11):

«Peter Dorfrichter era disteso sul letto, le mani dietro la nuca, gli occhi al soffitto. Probabilmente pensava che a entrare fosse stata la guardia, poiché volse la testa solo udendo la voce di Kunze, e allora sbatté due volte le palpebre, come per schiarirsi la vista.
“Ho qualcosa da dirle, Dorfrichter”.
Il tenente si levò a sedere, posando i piedi per terra.
“L’ultima volta che è venuto qui, signor capitano, è stato per dirmi che ero divenuto padre. E questa volta, che c’è? Una notizia altrettanto importante?”. Aveva parlato, come a solito, con tonico ironico, e come sempre Kunze si sentì salire la mosca al naso.
“Questo lo giudicherà lei. Sua moglie ha chiesto il divorzio.” Ecco, era fatta e non era stato difficile: di valido aiuto il sorriso ostile dipinto sul volto del detenuto.
“Ah, così?” commentò Dorfrichter, aggrottando la fronte. “Il divorzio? Posso anche non concederglielo. Perché dovrei farlo?”
“Lei può opporsi oppure chiederlo a sua volta per colpa della moglie. Non ho domandato all’avvocato della signora quale procedura intenda seguire,  ma penso che promuoverà azione per adulterio”.
Alle parole l’”avvocato della signora” il tenente aveva avuto un sobbalzo. “È sempre patrocinata da quel tale?”
“Per il momento sì. Ritengo però che, quando si arriverà al processo, sarà sostituito da un altro avocato. Già, si disse Kunze, sarebbe stato un po’ grottesco se il dottor Goldschmiedt avesse perseguito Dorfrichter per adulterio.
Il capitano prese una seggiola e si sedette. Dorfrichter se ne stava rannicchiato sulla sponda del letto, la testa tra le mani. La reazione violenta che Kunze s’era aspettata non si profilava; la notizia, lungi dal mandare in bestia il tenente, l’aveva invece come spento.
”Ma perché?”, chiese, guardando ansioso Kunze , e per la prima volta nei suoi occhi non c’era ostilità. “Perché? Che cosa le è accaduto? Non è degno di Marianne!”
Kunze si sentiva preso alla sprovvista dalla mancanza d’ira di Dorfrichter. “È lei che la conosce, non io”, si limitò a dire.
Con uno scatto che fece sobbalzare Kunze, Dorfrichter si levò in piedi. “Devo parlarle”, disse, con tono deciso. ”Non posso prendere una decisione senza averle parlato. Lo so benissimo che è contro i regolamenti ma io sono ancora suo marito e Marianne è mia moglie. Si tratta di una faccenda che riguarda solo noi due,, e che non può essere sistemata da intermediari o avvocati”.
“Ammetta che sua moglie non voglia vederla”.
“In tal caso mi opporrò al divorzio. Troverò il modo. Per le cause civili, posso farmi rappresentare da un avvocato civile,, esattamente come gli altri cittadini.”. Si avvicinò a Kunze sempre seduto, lo fissò dall’alto. “E lei provvederà in merito, vero? Mi procurerà l’incontro, voglio dire. Questo me lo deve.”
Il capitano si alzò. Ora erano vicinissimi, quasi si toccavano, e Kunze si sentiva penetrare dagli occhi scuri del tenente, da quello sguardo  così sagace. E fu colto da un acuto desiderio di stringerlo tra le braccia per constatare che uomo era quello, al di là delle menzogne, al di là delle paure. Mosse le braccia, poi le lasciò ricadere; a trattenerlo non era tanto la coscienza che quel gesto sarebbe bastato a distruggere tutto il suo futuro, quanto il fatto di sapere che l’altro se lo aspettava, che assaporava in anticipo il gusto della vittoria.
Kunze andò alla finestra, sottraendosi al cerchio magico di Dorfrichter.
“vedrò quel che si può fare”, disse, parlando solo quando fu certo di riuscire a controllare in misura sufficiente la propria voce.  “Non posso assicurarle niente. Posso solo dire di essere d’accordo nel ritenere che questo incontro è necessario”.
Poi, senza più guardare Dorfrichter, si avviò all’uscio. Si sentiva ancora tutto sottosopra, ma per lo meno, la mo che posò sulla maniglia non gli tremava più.
“Le farò sapere qualcosa disse.
Udì alle sue spalle il battere dei tacchi di Dorfrichter, lo sentì mormorare: “Grazie, capitano”.
E Kunze si sbatté l’uscio alle spalle, infilò rapido la chiave nella toppa.»

Strano a dirsi, Dorfrichter, che ha resistito per mesi a ogni interrogatorio e non si è mai indotto a confessare nulla, nonostante i gravissimi indizi che pesano su di lui, proprio il giorno in cui il capitano Kunze si sposa - per la verità, senza il minimo entusiasmo, con una donna che non ama -, decide di rendere una piena confessione della propria colpevolezza, guastando il giorno di festa del suo persecutore (ma glielo guasta davvero?).
Poi, però, ci ripensa e ritratta, anche perché sostenuto, dall’esterno, dal bellicoso erede al trono, Francesco Ferdinando, che in lui vede solo un promettente ufficiale di carriera e che si disinteressa completamente dell’aspetto morale della vicenda.
Ciò nonostante, alla fine Dorfrichter viene condannato a vent’anni di reclusione in un penitenziario militare, nonché degradato, e scampa alla forca solo perché mancano la prova evidente dell’omicidio, così come la sua spontanea confessione; mentre Kunze, nonostante l’ostilità dell’erede al trono, viene promosso maggiore.
In un ultimo, drammatico colloquio prima che l’ex tenente venga trasferito nel carcere ove dovrà scontare la sua lunghissima detenzione, per un momento, per un momento solo, i due giungono a sfiorare la sconvolgente verità del rapporto che li ha tenuti così a lungo avvinti l’uno all’altro, ben al di là delle circostanze di natura estrinseca (pp.  491-92):

«Dopo il verdetto, ebbe modo di incontrarsi con l’ex tenente una sola volta, e fu il giorno di giugno in cui fu trasferito al reclusorio di Mollersdorf.
Dorfrichter fu promosso nel suo ufficio al Tribunale militare. Dovendo compiere un viaggio, era vestito in borghese, con un abito grigio di cattivo taglio, un impermeabile e un cappello grigio con un pennacchi etto di pelo di camoscio.  I suoi familiari avrebbero dovuto venire a prendere congedo da lui e Kunze doveva essere presente all’incontro, come prescriveva il regolamento. Ma, o che i familiari  fossero in ritardo o che Dorfrichter fosse stato fatto uscire dalla propria cella con eccessivo anticipo, sta di fatto che  i due uomini dovettero trascorrere mezz’ora a quattr’occhi; e fu una mezz’ora di tensione: il detenuto dapprima replicò, ai tentativi di conversazione di Kunze, con  gelidi monosillabi, poi, all’improvviso,  si scagliò in un’amara filippica nei suoi confronti.
“Maggiore Kunze suona assai meglio di capitano Kunze, vero?  È per questo che manovrato in modo da farmi condannare?”
Per un istante, Kunze non seppe cosa rispondere.  Poi: “Cosa vuol dire con manovrare?” chiese. “Ma se è colpevole!”
“E questo che c’entra? Senza di lei, io sarei andato assolto, caro maggiore Kunze.”
“Andiamo, andiamo, Dorfrichter, sappiamo tutti e due che lei è colpevole. Certo, lei ha ritrattato la sua confessione, ma credo di sapere il come e il perché. E so anche che, per il fatto di non essermi piegato ai desideri di un certo alto personaggio, la promozione concessami può essere l’ultima della mia carriera… Perciò, non si lasci indurre in errore: lei non è la vittima delle mie ambizioni. Io non sono come lei, Peter Dorfrichter: l’ambizione non basterebbe a indurmi a uccidere un gatto, non dico un uomo!”
“Lei mi avrebbe fato condannare a morte, se io non avessi ritrattato.”
“Be’, credo di sì.”
“Dica un po’, e lei voleva che io fossi ucciso perché non poteva avermi in nessun altro modo, vero?”
Per poco, Kunze non si lasciò indurre a chiedere: “quale altro modo?”.
Disse invece: “I miei rapporti con lei erano semplicemente quelli del giudice con l’imputato, e nient’altro. E sono stati questi rapporti a determinare quello che io potevo o non potevo fare per lei!”».
“Questo suo moralismo mi rivolta lo stomaco!” insorse Dorfrichter.” Io sono un figlio di puttana, e va bene. Ma lei, che cos’è? Neppure uno Iago si sarebbe abbassato a servirsi dei trucchi cui ha fatto ricorso lei per mettermi in trappola.
“Adesso basta, Dorfrichter”, ma la sua indignazione non era molto sincera. “Indipendentemente dalla sua opinione nei miei confronti, devo dirle che sono molto spiacente per lei e che le auguro tutta la buona fortuna possibile date le circostanze…”.
“Il suo augurio può rivelarsi più vicino al vero di quanto lei stesso non creda. Io trascorrerò vent’anni a Mollersdorf, questo è certo. Sarò liberato il giorno in cui scoppierà la guerra!”
Dunque, quelli erano i patti! Non molto generosi, a dire il ero. La proposta dell’arciduca in cambio della ritrattazione era stata in carattere con l’uomo: meschina e abile insieme.
“Se le cose stanno così, non le auguro neppure buona fortuna”, replicò Kunze. “Come le è noto, io sono un deciso pacifista.”»

Infatti, quando scoppia la guerra, Dorfrichter, fidando nella promessa dell’arciduca, inoltra domanda di grazia, fingendosi pentito, per essere reintegrato nei ruoli e mandato al fronte; ma l’arciduca è stato assassinato a Sarajevo, e Kunze, cui spetta la parola decisiva in merito al suo inoltro, dopo un ultimo colloquio con il detenuto, decide di respingerla con fredda determinazione, quasi per liberarsi definitivamente dei propri fantasmi.
Dal brano che abbiamo qui sopra riportato emerge che, al momento della verità, il criminale appare moralmente più trasparente del giudice che lo ha fatto condannare: al moralismo di Kunze, che sostiene essere sempre rimasto nei limiti di un rapporto strettamente professionale con l’imputato (il che è vero, ma solo in senso formale), insorge con una osservazione lapidaria:  «Io sono un figlio di puttana, e va bene. Ma lei, che cos’è?».
Già, chi siamo noi; chi sono io? Questa è la domanda che ogni essere umano dovrebbe sapersi porre senza arrossire, specialmente se svolge una funzione pubblica rilevante, come quella del rappresentante o dell’interprete della legge.
Gira e rigira, si torna sempre, immancabilmente, al «Conosci te stesso» dell’oracolo di Delfi, pietra miliare di ogni relazione dell’io con se stesso, prima ancora che con il tu.
Finché crediamo di essere altro da quello che siamo; finché, ad esempio, vestiamo di nobili pretesti i nostri impulsi di ordine inferiore, non potremo mai porci in una relazione chiara e armoniosa con l’altro, dal momento che siamo in contraddizione con noi stessi.
Si potrebbe obiettare che, in fondo, non è importante che il gatto sia nero o rosso, purché sappia acchiappare i topi, ossia purché faccia degnamente il proprio mestiere.
Ma è proprio questo il punto: come è possibile svolgere degnamente la propria funzione, se si agisce sulla base di una insopportabile ipocrisia?
È una domanda sulla quale vale la pena di riflettere, perché da essa dipende non solo la capacità di svolgere bene il proprio ruolo in mezzo agli altri, ma anche - e soprattutto - la possibilità di pacificarsi con se stessi, liberandosi dalle maschere della finzione e della falsità.