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Cina: scricchiolii liberalcomunisti

di Ugo Gaudenzi - 21/04/2011

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Pechino è nervosa.
Non è soltanto una questione di “investimenti” alla liberalcomunista o di prestiti ad usura sui debiti pubblici degli altri Stati nazionali. E’ una questione interna, molto interna.
Le autorità sono in mezzo al guado. Temono un troppo brusco raffreddamento della crescita economica ma anche un rischioso laissez-faire.
Ma aumenta il pericolo di inflazione. La Banca centrale - “popolare” - ha stretto la liquidità disponibile per i mutui immobiliari. Gli stipendi sono ai minimi possibili e si hanno ovunque vertenze e scioperi per ottenere redditi più alti. Il commercio al minuto è incentivato ma bloccato dalla mancanza di tutele sociali e previdenziali. E così via. La “grande marcia” al pil (quasi 10% di aumento in un anno), costruita sul costo basso della manodopera, è a rischio. Le nuove imprese non vogliono seguire le direttive governative di una “crescita più graduale” e proseguono ad espandersi. E cresce il divario tra un’emergente oligarchia di capitalisti e la gran massa dei cittadini.
Nei palazzi di Pechino l’ansia su quel che può accadere - qui parliamo di una miscela esplosiva... - ha portato a un’erratica e - diciamolo pure - controproducente stretta sull’ordine pubblico che richiama i tempi appena seguenti al 1989 e ai moti di piazza Tienanmen.
Giornalisti, bloggers, artisti, fedeli e religiosi, vengono arrestati o scompaiono da un giorno all’altro. La paura di un’esplosione del dissenso - sulla falsariga di quanto accade nel mondo arabo-asiatico più a ovest - è palpabile.
Le casseforti piene di petrodollari o di sinodollari, in questi casi non servono a nulla.