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Il piacere del caos. L'arte indonesiana fra tradizione e modernità

di Valerio Zecchini - 26/04/2011

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E’ evidente a chiunque che stiamo vivendo un’epoca ormai compiutamente globalizzata e multipolare; e’ altrettanto vero pero’ che il mercato culturale, in particolar modo della cultura pop, e’ ancora saldamente in mano occidentale e per lo piu’ anglosassone. Si parla tanto del nuovo cinema “di genere”  da Hong-Kong o dalla Corea del Sud, ma chi decide cosa deve circolare in Occidente sono I direttori dei festival di Venezia o di Cannes oppure Quentin Tarantino in persona (che peraltro e’ responsabile della riscoperta di tanto cinema italiano“di genere” di qualche decennio fa).  Allo stesso modo a Hollywood si confezionano I grandi  colossal pensando piu’ allo sterminato mercato asiatico che a quello interno o europeo. La musica pop americana, in special modo quella femminile, ha esteso il suo dominio planetario in maniera capillare: perfino in Malesia e in Indonesia, tra una preghiera cantata dal muezzin (qui hadjan) e l’altra, non si fa altro che sentire Katy Perry, Beyonce, Lady Gaga, Rihanna o Madonna. Stesso discorso vale per l’ hip-hop e il rap (in cui l’Italia conta la simpatica presenza di Fabri Fibra): anche in questo caso presenza planetaria capillare, e’ un genere che si declina in tutte le lingue – recentemente abbiamo visto un video di hip-hop somalo, con tanto di testi  anti al-quaeda. Ma lo scambio non e’ appunto reciproco, perche’ cio’ che che di musica etnica, o world music (che e’ un modo educato di definire la musica proveniente dai paesi del  terzo mondo o dall’Asia) puo’ circolare in occidente lo decidono riviste “autorevoli” come Songlines o Wire . E il medesimo meccanismo di circolazione funziona per tutte le altre discipline (teatro, letteratura, fumetto, danza).
L’arte contemporanea segue invece dinamiche piu’ complesse, anche se, beninteso, chi entra nel mercato e le sue quotazioni viene deciso a New York o a Londra, o tutt’ al piu’ a Zurigo. Come noto, da piu’ di due decenni gli artisti cinesi, turchi e indiani hanno fatto irruzione nel mercato globale e vi si sono ormai installati stabilmente. Piu’ recente(dalla fine degli anni novanta) e’ la presenza nelle varie fiere, biennali e triennali del pianeta dell’arte delle cosiddette “tigri asiatiche”, ovvero I paesi emergenti del sud-est asiatico. Prima galleria in Italia a organizzare una mostra organica di arte malese, indonesiana e filippina e’ stata la galleria Marella nel 2009 (Post-Tsunami Art, catalogo Damiani); l’anno scorso ha approfondito questo benemerito percorso pionieristico esponendo dieci artisti indonesiani (Pleasures Of  Chaos), a cui e’ seguita la pubblicazione dell’omonimo, eccellente libro/catalogo a cura di Jim Supangkat – decano della critica d’arte indonesiana. Supangkat acutamente esamina lo sviluppo dell’attuale scena dell’arcipelago attraverso questi dieci artisti che senz’altro ne incarnano lo spirit e l’energia.
Prima dell’avvento del mercato globale dell’arte contemporanea ci si riferiva a qualunque forma di arte non occidentale con la denominazione “etnico” – termine affatto neutrale  che definiva un dualismo tra storia dell’arte ed etnologia. Questa separazione era cruciale perche’ sanciva l’esistenza di una storia dell’arte vera, ufficiale, che stabilisce I canoni, e di un’arte indigena, nativa, che aveva una sua ragione d’essere solo in quanto espressione estetica di popoli piu’ o meno primitivi o arretrati. Tutto cio’ e’ cambiato in Asia grazie a due fattori decisivi: quando gli artisti hanno iniziato ad interrogarsi sulla propria  identita’ ed “etnicita’” usando le tecniche (installazione, performance, body art, ready made) e le tendenze (la pop art americana in primis) in voga a New York o in Europa – e nel contempo baloccandosi col facile rischio dell’esotismo che era sempre dietro l’angolo. Un esempio puo’ chiarire bene questo modus operandi: nel 2000 Michael Shaowanasi, artista multidisciplinare tailandese che predilige I giochi di ruolo e I piu’ impensati travestimenti, esibisce una sua opera, “Ritratto di un uomo in abiti talari, numero uno” in una mostra all’universita’ Chulalongkorn di Bangkok. E’ una foto digitale in cui Shaowanasi  si autoritrae vestito da monaco buddista, ma il suo volto sorridente e’ truccato da donna e tiene in mano un fazzoletto rosa: il lavoro vuole evidentemente suscitare una controversia sulla vexata quaestio della discriminazione all’interno delle istituzioni religiose (e militari), e infatti la censura interviene prontamente – e cosi’ l’opera automaticamente si guadagna l’attenzione della critica occidentale. Si tratta insomma di un complesso tema “etnico” e identitario (nella cultura orientale la maschera e’ piu’ importante del ritratto), ma sul quale si innesta un ribaltamento di senso che intende spiazzare lo spettatore,procedimento tipico dell’azione artistica occidentale odierna. L’altro fondamentale fattore di cui si diceva e’, molto piu’ prosaicamente, la presenza di una classe medio-alta che possa permettersi di investire in arte. E questo si puo’ verificare piu’ che altro alle aste. All’asta “Borobudur” (Singapore, 2007), prima asta di arte del  sud-est asiatico,  Yee-I-Lann – sicuramente l’artista malese piu’ prestigiosa del momento -  ha venduto la sua strepitosa opera  “Storie di Sulu: la pietra miliare”  alla cifra record di venticinquemila dollari. Cio’ dimostra in maniera eloquente che esiste in questa fetta di mondo una borghesia colta che vuole dire la sua nel mercato globale dell’arte.
Tuttavia, in questi paesi l’industrializzazione e la globalizzazione non hanno seguito un andamento graduale come era stato per il Giappone,  Taiwan, la Corea del Sud. Si ha anzi la sensazione che qui la modernita’ sia stata imposta a forza dall’alto e si sia poi stabilizzata come un ben strutturato ordine esterno, fatto di You tube e My space, dei voli low-cost di Air Asia, degli ipermercati Giant, di Sharon Cuneta la diva filippina delle soap operas, Tata Young la popstar tailandese, Aagym il predicatore evangelista indonesiano; nel discorso pubblico si appannano sempre di piu’ le line di separazione tra intrattenimento e proclami  edificanti, tra serieta’ e frivolezza e si procede a passo spedito verso il magma indistinto della postmodernita’;  il mercato di massa prende il sopravvento e il suo impatto su alcuni degli artisti piu’ orientati verso una sensibilita’ pop e’ evidente: lo si vede nei supereroi di plastica e nelle dive da discoteca ritratte dai filippini Louie Cordero e Kiko Escora, e nel lavoro degli indonesiani  Bunga Jeruk, con le sue semplici tele in stile manga, o Sudarna Putra, con I suoi minacciosi orsacchiotti di pelouche (entrambi presenti  in “Pleasures of chaos”). A questo ordine esterno senz’anima si  contrappone un ordine interno della tradizione comunitaria, che e’ non solo una tradizione, ma anche una strategia di sopravvivenza adottata dalla stragrande maggioranza delle genti  di questi paesi, afflitti da sovrappopolazione e ingiustizia sociale.
In Indonesia questo sistema si chiama Gotong – Royong, ed esiste praticamente da sempre; e’ un sistema in cui i confini tra privato/personale e pubblico/comunitario tendono continuamente a diventare indistinti. La comunita’ protegge e tutela, ma chiede in cambio la rinuncia alla propria individualita’. Nindityo Adipurnomo (anch’egli presente in mostra e nel libro) focalizza la sua opera sulle costrizioni e privazioni derivate da abitudini e costumi sociali ereditati (e anche lui gioca col potente simbolismo della maschera, in questo caso il “konde” giavanese), la tensione sgorga  da questa complessa lotta tra le aspirazioni individuali e il “dovere”  di appartenere a una comunita’ e la pressione delle sue gerarchie sociali; le sue usanze e l’insieme dei suoi valori annichiliscono le liberta’ personali a vantaggio dell’ordine sociale, esigendo alti livelli di sottomissione. La parola Islam significa proprio sottomissione, e da tutto cio’ capiamo come la fede musulmana abbia a suo tempo avuto gioco facile ad imporsi sui preesistenti culti animisti e induisti. Esistono quindi due mondi che faticano ad amalgamarsi, quello “esterno” dei consume e della modernizzazione sgargiante, e quello “interno”  fatto di una quotidianita’ semplice, modesta, rustica. L’arte indonesiana racconta soprattutto il conflitto tra queste due realta’, incontro/scontro che si alimenta, a corrente alterna, di attrazione e repulsione, generando un’atmosfera di disordine. E’ il caos a cui si riferisce appunto il titolo del libro, e gli artisti indonesiani celebrano questo caos con ottimismo, attraverso il piacere della creazione. Non immaginando nessun ordine alternativo, lasciano al disordine stesso il compito di ricomporsi in armonia – perfetta sintonia di fatalismo e sincretismo orientale.
Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che l’”individuo” e’ un’invenzione dell’occidente, cosi’ come l’arte “autonoma” (slegata cioe’ da ogni dogma religioso/politico/sociale) almeno da Goya in poi, e’ l’espressione dell’illimitata volonta’ di potenza creatrice di un individuo,  volonta’ che puo’ anche essere contro un’etica comunitaria di qualsiasi genere. L’arte occidentale di oggi e’ pero’ impegnata nella direzione opposta: e’ intenta piu’ che altro a mostrarci gli eccessi e le degenerazioni del nostro esasperato individualismo e tenta di sviscerarne le cause; essa  come un gatto goyesco scruta incessantemente  le tenebre della nostra solitudine. Ecco perche’ e’ importante valutare con attenzione  questa nuova arte proveniente dall’universo “comunitario” orientale e confrontarsi con essa: puo’ essere un utilissimo apporto nella ricerca del tanto anelato equilibrio tra individuo e comunita’, tra liberta’ personale e dovere patriottico. Va segnalato infine il nome di F. X. Harsono, le cui  due straordinarie opera (“Banchetto di farfalle” e “Madonna con bambino tra I grattacieli”) svettano in questo prezioso volume che sicuramente non manchera’ di interessare un pubblico ben piu’ vasto di quello degli appassionati di arte contemporanea.
 

NEW INDONESIAN ART: THE PLEASURES OF CHAOS
A CURA DI JIM SUPANGKAT (TESTO INGLESE/ITALIANO)
DAMIANI EDITORE – EURO 35