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"L'italiano di Tangeri" di Mazzantini, romanzo di un "reietto" stregato dalla libertà

di Mario Bernardi Guardi - 26/04/2011



Per prima parla lei, Margaret, la figlia. Bell'impasto celtico-italico. Attrice di teatro e di cinema, scrittrice. Una che ama la parola, che sa quanto conta. E che quindi sa quel che va detto del padre: l'indomito e indimenticabile Carlo. Noi stiamo ad ascoltarla: e pensiamo a lui, il "repubblichino", l'unica volta in cui lo abbiamo incontrato, in occasione della presentazione di un suo libro, in Garfagnana; pensiamo a lui che ci parlava di Margaret. Anzi, a parlarcene erano lui e la moglie, la pittrice irlandese Onia. 

Margaret e le altre figlie. Lei, "di diamante", "Moira d'oro", "Giselda di seta", "Cristina di nuvole". E poi c'erano i nipoti, ovviamente amatissimi dai nonni.
Carlo raccontava con lo stile del grande affabulatore, ora lo riascolto raccontare attraverso Margaret, che al libro postumo del babbo (Carlo Mazzantini, L'italiano di Tangeri, pp. 250, euro 18) e soprattutto a lui dedica una prefazione così innamorata e di complice grazia piena, da trapassarti con brividi di dolcezza. Lo vediamo il babbo avventuroso. In Spagna, in Marocco, a Parigi, in Irlanda, con accanto lei, Onia, di nobile stirpe celtica, curiosa di vita, meravigliosa, stravagante. Stregata da quel ragazzo che ha combattuto "dalla parte sbagliata". Lei, bellissima, stregata e "stregante", che lui adora, dedicandole poesie d'amore, e apparendo come svuotato se non l'ha accanto.
Carlo, «bello, alto, massiccio (…), ingenuo, nobile, indifeso, goffo (…), il pazzo, il visionario, l'orco», che maschilmente la incatena «ai suoi bisogni, ai suoi tormenti». Perché «ha la sua missione, restituire dignità al lebbrosario dei reietti. Ci mette quarant'anni a scrivere il suo libro sgarbato. A cercar la bella morte. Quella prematura, eroica e stolta, quella dei prescelti». Carlo che racconterà «la parte sconcia della Storia». Tante storie. «Ognuno ha tanta storia», cantava Gabriella Ferri, e le parole erano di un altro repubblichino, Mario Castellacci. Ognuno ha tanta storia è anche un libro di Carlo Mazzantini, uscito nel 2000, sempre per Marsilio.
Marsilio, che ha festeggiato qualche mese fa i cinquant'anni, "è" Cesare De Michelis. Non stiamo qui a intonare il peana per la sua casa editrice. Lo abbiamo già fatto e proprio sul Secolo. Diciamo solo che qui parla per ultimo, ma non ultimo per densità di affetti. In una nota che coglie nel segno della simpatia/stima a prima vista, di quell'intendersi che sboccia immediatamente e che ha in orrore ogni fraintendimento, di quella capacità di ascolto reciproco che fonda e fa espandere un'amicizia. De Michelis conosce Mazzantini alla prima presentazione del Catino di zinco di Margaret. È il 1994 e Carlo ha pubblicato otto anni prima da Mondadori A cercar la bella morte, che però non ha raccolto l'attenzione sperata. Perché non riprovarci?
Leggiamo: «L'edizione Marsilio di A cercar la bella morte fu un successo, ristampata quattro volte suscitò rinnovato interesse per il suo autore, per la sua scrittura accesa da emozioni e sentimenti ancora vivi e coinvolgenti, per le sue idee spregiudicatamente imprevedibili e inattese, che riuscivano a rappresentare quell'esperienza terribile vissuta dai perdenti come parte della storia di tutti, senza autarchica autoreferenzialità, senza rimpianti o nostalgie, senza pregiudizi. La patria era caduta nell'inferno di una sconfitta umiliante e la gioventù di allora dovette immaginarne il riscatto mettendo in gioco la propria vita. Dice Carlo che è stato più importante il coraggio morale di una scelta che il risultato che ne è seguito, che quel che è contato non è stato scegliere la parte giusta, ma affrontare generosamente perfino la morte per non accettare di soccombere travolti dai vinti o dai vincitori. Ci capimmo al volo, senza tante parole, guardandoci fisso negli occhi e stringendo un patto che non abbiamo più violato: da quella sera diventai il suo editore e lui il mio amatissimo autore. Libro dopo libro imparammo a conoscerci e io scoprii la ricchezza di un cuore grande, di una intelligenza aperta, di una passione inarrendevole, di un entusiasmo infinito».
È l'entusiasmo di un cuore avventuroso e "ingenuo", un aggettivo molto azzeccato che Margaret sceglie per il babbo e che precede, come abbiamo visto, "nobile", "indifeso", "goffo". Non viene fatto di pensare all'albatros di Baudelaire che, catturato dalla ciurma di una nave, è costretto a subìre scherzi crudeli e non riesce più ad alzarsi in volo con le sue grandi ali bianche? Eppure, nonostante tutto, il Poeta vola. Vola Mazzantini, "venturiero senza ventura". Così lo chiama Orsino Nardelli, uno strambo irregolare di genio che Carlo "esule" incontra a Tangeri, dopo essere stato buttato fuori dalla Spagna, insieme alla sua donna che porta con fierezza un gran pancione. Si erano incontrati a Parigi, e lì si erano abbandonati all'onda ebbra dell'innamoramento. Poi, la Spagna. Una inattesa, fascinosa e barbarica Sangrilà dove giungono attraverso un intrico di terra e di mare, tra contrade selvagge e spiagge solitarie, con un mulo carico di valigie. Approdati in un luogo senza tempo, calati in una sostanza epica che ha il profumo delle origini, vivono una sorta di rêverie, una vera e propria «immersione in un mondo mitico». La scena è frastagliata: il sole, il mare, i boschi, la solitudine, lei con il suo cavalletto e i suoi colori, lui con i libri e con i sogni, e cavalli selvaggi, branchi di maiali neri come cinghiali, mentre «istoriato dalle frange di scorie lasciate dalle maree, conchiglie, alghe, molluschi, che disegnavano archi sull'arena, il refolo dell'onda si spegneva sfrigolando e tornava incessante».
Troppa grazia. Cacciati dalla Guardia Civil come ospiti indesiderati, li accoglie Tangeri.
Un microcosmo policromo: «Un agglomerato di case che non è nemmeno una città, un posto dove non c'è una autorità, uno stato con i suoi divieti, i timbri, i suoi pregiudizi culturali», dove «si parlano quattro lingue, o un miscuglio di tutte», e ci sono «tre giorni di festa alla settimana: il venerdì i figli del Profeta, il sabato il popolo eletto, la domenica i cristianacci». Un "bazar umano" pieno di reietti, relitti e proscritti di tutti i generi: «Anarchici spagnoli scampati alle varie mattanze rosse e nere, guardie bianche russe, Ss fuggiaschi che chissà quali crimini nascondono in fondo a quegli occhi di acqua gelida (…), tutti arenati qui, chissà dopo quali vicissitudini, con i loro ricordi, le loro colpe segrete, le loro delusioni».
Il posto ideale per guardare con distacco, da lontano, la "mamma marcia", per rifarne la storia, «magari un po' diversa da quella ufficiale. La storia dei vinti, dei travolti».
E lui ha proprio quel compito da assolvere: scrivere storie vere «per rientrare in qualche modo nella Storia». Ma intanto bisogna sopravvivere. Lui e la sua dolce principessa celta Oona Ni' Donhail. L'alloggio non è un avito, eletto maniero tra il verde d'Irlanda, ma una pensioncina per giramondo squattrinati. In fondo a dedali di viuzze, tra «pesticchiare di ciabatte», «richiami di venditori d'acqua con i loro fiasconi di rame sgocciolanti sulla groppa», «grida di monelli seminudi sotto il sole», «ronzii di nugoli di mosche dal ventre violetto, che pascolano indisturbate su mucchietti di sterco d'asino», in una stordente confusione di rumori e odori forti di fritture, comino, cannella, origano, marijuana… Eppure la dolce principessa col pancione non è apparsa per nulla turbata. Intorno a loro c'è un mondo, lei ha un mondo dentro di sé, lui ha da raccontare un mondo.