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La Lega Nord spiegata agli altri Italiani

di Francesco Lamendola - 26/04/2011




Da quando, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, la Lega Nord è entrata prepotentemente alla ribalta della politica italiana, il peso da essa esercitato nelle vicende nazionali è andato sempre più crescendo, ma senza che, a nostro avviso, il fenomeno venisse correttamente inteso e rappresentato agli Italiani delle altre regioni e specialmente a quelli del Centro-Sud.
C’è un corto circuito dell’informazione, ma, prima ancora, della comprensione del fenomeno, per cui si sente dire di tutto in proposito, e anche il contrario di tutto, più sulla base di percezioni epidermiche o di pregiudizi ideologici, che su quella dei fatti.
A Sud degli Appennini, la parola “Lega” evoca una realtà enigmatica, incomprensibile, rispetto alla quale le reazioni sono generalmente di tipo emotivo; per un significativo paradosso, tanto i nemici della Lega quanto i suoi sostenitori sembrano alleati nel fare di tutto perché il cittadino medio, spassionato e pragmatico, non riesca a farsi un’idea realistica del fenomeno, delle sue origini, delle sue implicazioni.
E questo ci riporta a uno dei tanti nervi scoperti dell’Italia come Stato moderno: pur essendosi costituita, infatti, proprio nell’epoca della massima tensione nazionalista a livello mondiale, la sua classe dirigente non è mai stata capace di creare il presupposto minimo per la stabilità di uno Stato-nazione moderno: una ragionevole conoscenza reciproca fra gli abitanti delle diverse regioni che, sino a poco prima, erano stati sudditi di Stati diversi, basati non sul principio nazionale, ma su quello dinastico e non sull’idea della sovranità popolare, ma su quella della monarchia per diritto divino (quest’ultima appena attenuata dalle costituzioni concesse nel 1848 e subito dopo, per lo più, ritirate).
Scarsa conoscenza, scarsa simpatia, scarsa stima: questa è la dinamica interna di uno Stato moderno che, pur fondandosi sull’idea di nazione, ossia della coincidenza dello Stato con la nazione, non è in grado, o piuttosto non vuole, creare nemmeno la precondizione indispensabile alla propria sopravvivenza, ossia l’integrazione culturale, oltre che quella economica.
In breve, le classi dirigenti degli ex Stati dinastici esistenti prima del 1861 hanno continuato a vivere come prima, magari rinsaldando i rapporti finanziari e industriali con l’estero, ma curandosi ben poco di quelli interni; magari mandando a studiare i propri figli a Londra o a Parigi, ma senza preoccuparsi di far loro conoscere Palermo, se provenienti da Torino, oppure Napoli, se provenienti da Milano.
Lo stesso Cavour, il principale artefice di quel capolavoro alla rovescia che è stata l’unità d’Itali, ottenuta non facendo appello al popolo italiano (del quale aveva paura), ma ricorrendo all’alleanza con un monarca straniero, Napoleone III (che pensava di strumentalizzare a suo talento, per poi scaricarlo al momento opportuno), aveva soggiornato in Francia e in Inghilterra, ma non aveva mai viaggiato in Italia più a sud di Firenze; ed era lui, fra parentesi, che, pur non essendo mai stato a Roma e non avendola mai vista se non in cartolina, gettò tutto il proprio peso politico in Parlamento per indicare Roma e solamente Roma come la necessaria, inevitabile capitale d’Italia.
Ma, per non farla troppo lunga con la storia passata, veniamo direttamente a quel dicembre 1989 in cui la fusione tra la Liga Veneta, nata nel 1980, la Lega Lombarda, nata nel 1982, ed altri movimenti autonomisti settentrionali, diede vita alla Lega Nord, segnando un punto di svolta nel panorama politico nazionale.
Per prima cosa, i non settentrionali devono sapere che istanze autonomistiche erano già vive e operanti da parecchio tempo in varie regioni e province del profondo Nord, quasi sempre slegate l’una dall’altra, ignorandosi a vicenda e perseguendo ciascuna dei propri obiettivi, inizialmente alquanto modesti e limitati, più sul terreno delle rivendicazioni culturali: ad esempio, la difesa delle tradizioni locali e delle parlate dialettali.
Un caso abbastanza caratteristico è offerto dalle vicende del Movimento Friuli, una formazione autonomista sorta nel 1966 con obiettivi dichiaratamente di tipo culturale e scioltasi nel 1992, anche se non è mancato qualche tentativo, ma del tutto fallimentare, di richiamarla in vita dopo i trionfi della Lega negli ultimi vent’anni.
Il Friuli-Venezia Giulia è una regione a statuto speciale che già gode, oltre che di un tenore di vita superiore a quello di molte altre regioni italiane, di speciali agevolazioni amministrative e finanziarie (il prezzo della benzina, tanto per fare un esempio) ma che è nata da una operazione di ingegneria storico-geografica: dopo la perdita della quasi totalità della Venezia Giulia col Trattato di Parigi del 1947, per non lasciare a se stessa Trieste (riottenuta solo nel 1954), la sua provincia venne unita con quelle di Gorizia (ridotta a un decimo di quel che era nel 1919)  e di Udine (che, fino alla creazione di quella di Pordenone, nel 1968, era una delle più vaste d’Italia, così come lo era, nel 1300, lo Stato patriarcale di Aquileia), in un nuovo organismo regionale che non aveva alcuna omogeneità, né economica, né cultuale.
Comunque, la difesa della lingua friulana (perché il friulano non è un dialetto, ma una lingua) era uno degli obiettivi fondamentali del Movimento Friuli; e ciò negli ultimi anni del boom economico, quando, ad esempio, in una città come Udine, ove, ai primi del Novecento, praticamente tutti parlavano il friulano, classi dirigenti comprese, ormai gran parte della popolazione era passata all’uso dell’italiano o del dialetto veneto locale (importato dai dominatori veneziani dopo la conquista del Friuli nel 1420).
Il malessere culturale presente in varie realtà locali del Settentrione si è poi fuso con quello economico, dovuto alla percezione dello Stato nazionale come lontano, burocratico, corrotto e inefficiente (“Roma ladrona”), nonché sfruttatore e, in un certo senso, colonialista, ossia che ha permesso alle regioni del Sud di vivere a spese della produttività del Nord.
Come si vede, si è trattato di dinamiche abbastanza simili, anche se meno esasperate, a quelle che hanno portato, negli anni Novanta del Novecento, alla disgregazione della Jugoslavia (e, in forma assai meno drammatica, della Cecoslovacchia: le due maggiori creazioni artificiali del Trattato di Versailles del 1919): un Nord laborioso e produttivo non più disposto a foraggiare una classe di politici nazionali, ma in gran parte meridionali, intesi unicamente a perpetrare le loro logiche clientelari, mediante un uso a dir poco discutibile del gettito fiscale.
Quanto c’era - e c’è - di vero e quanto di esagerato, di pretestuoso, di falso, in questa immagine che molti cittadini del Nord hanno avuto e hanno di sé e dei propri rapporti con la capitale e con il resto della nazione?
E qui, probabilmente, cominceranno le sorprese, specialmente per l’Italiano del Centro-sud che voglia accostarsi a comprendere il fenomeno Lega con la mente sgombra da pregiudizi. Diciamo le sorprese, perché oltre un secolo di letteratura, di memorialistica e di storiografica meridionalista lo hanno abituato a una interpretazione completamente diversa da quella che ne danno le forze sociali del Nord: ossia a pensare che il Nord, fin dal 1861, ma specialmente negli anni del decollo industriale, nel 1950-60, abbia finanziato il proprio progresso economico a spese del Sud e che abbia sempre trattato quest’ultimo con distacco, se non con sovrano disprezzo, vedendovi un serbatoio di mano d’opera cui attingere, ma, per il resto, solo un peso da trascinarsi dietro.
Ebbene: la percezione della storia nazionale diffusa al Nord è diametralmente opposta: per gran parte delle persone, anche di quelle fornite di un grado d’istruzione superiore, è stato il Sud a sfruttare il Nord in ogni modo e a ritardarne lo sviluppo, mediante una classe politica in gran parte meridionale o meridionalizzata; il Nord sarebbe già più avanti della Francia, del Belgio e perfino della Germania, se non dovesse portarsi dietro il peso morto di un Sud parassitario e fannullone, che non vuole liberarsi dalla mafia e dalla camorra, perché ormai abituato a vivere all’interno di schemi culturali ed economici profondamente inquinati dalle logiche della malavita organizzata.
Non solo: moltissimi cittadini del Nord sono convinti che il benessere, giunto nelle loro regioni in anni abbastanza recenti (nel caso del Nord-est, da meno di due generazioni), sia stato conquistato esclusivamente con le loro forze e che lo Stato, semmai, abbia fatto del suo meglio per frenarlo, ritardarlo, ostacolarlo.
Il sistema stradale, per esempio: fino a pochi anni or sono, si trattava di un sistema stradale pre-industriale, assolutamente inadeguato alle esigenze di traffico delle merci in una società dinamica e attiva, proiettata verso l’Europa centrale.
Era una situazione evidente, che raggiungeva punte di insostenibilità degne di film allucinanti come «L’ingorgo»: eppure nessuno faceva nulla, né davanti alle quotidiane code chilometriche del traffico privato e di quello commerciale, né davanti al numero altissimo di incidenti e di morti sulle strade. Lo Stato, le regioni, le province, i comuni, tutti giocavano a scaricabarile e nessuno prendeva un’iniziativa; i cittadini sopportavano, ma sognavano la riscossa.
La riscossa è arrivata quando tutta una serie di amministrazioni locali sono andate alla Lega e qualcosa, finalmente, si è visto: costruzione di nuove strade, di circonvallazioni urbane, di rotatorie per snellire il traffico, evitando le code chilometriche ai semafori.
Innovazioni utili e necessarie si sono viste anche in altri settori della vita pubblica, anche se non in tutti: il sistema bancario, per esempio, è rimasto sostanzialmente quello di prima e di sempre, ossia un sistema finalizzato a prestare il denaro dei piccoli risparmiatori, che ricevono interessi da fame, a chi già ne possiede molto, mentre i piccoli imprenditori e i piccoli commercianti in cerca di finanziamenti si vedono chiedere delle garanzie che non possono dare o si vedono affibbiare degli interessi sui prestiti, da far loro preferire di rivolgersi direttamente agli usurai.
Comunque, se si vuole essere obiettivi, dei miglioramenti nella vita sociale si sono verificati; nel frattempo, però, sono accadute anche altre cose, di segno ben diverso: perché la medaglia ha almeno due facce (e forse molte di più).
Il predominio leghista in molti comuni, province e regioni del Nord, ha reintrodotto, dalla finestra, i mali che in un primo tempo sembravano eliminati o almeno limitati, primo fra tutti il clientelismo; e, più in generale, ha portato un modo di gestire la cosa pubblica e il rapporto con i cittadini che ha un qualcosa di sfrontato, di prepotente, di pazzamente demagogico. È un clima da Far West: sembra che tutto si possa fare se si è amici di quei signori, sia che si tratti di cose lecite, come ottenere un prestito dalle banche, o illecite, come farsi rilasciare un permesso per costruire la villa in una zona protetta da vincoli paesaggistici, così come farsi levare una multa per eccesso di velocità; mentre nulla si può fare se non si è nelle loro grazie.
Vi è una commistione nuova e smaccata di politica e affari: amministrazioni comunali e imprenditori di area politica leghista si muovono al’unisono e, spesso, cosa più sconcertante di tutte, formano una realtà unica, nel senso che sono proprio le stesse persone fisiche. Si riproduce la dinamica del governo nazionale di centro-destra, dove il ministro ai lavori pubblici, per esempio, è anche, guarda caso, il proprietario dell’azienda che riceve le relative commissioni; per non parlare del gigantesco conflitto d’interessi del capo del governo. E, come a livello nazionale, anche a livello locale si reagisce a ogni critica con le armi della demagogia aggressiva, delle sparate propagandistiche, come quel sindaco di Treviso che diceva di voler andare a caccia di stranieri come si va a caccia di leprotti, con la doppietta carica.
In realtà, il miracolo tanto atteso non si è verificato e, da quando la Lega Nord è diventata partito di governo, la sua base elettorale non può più nemmeno consolarsi con il solito slogan di “Roma ladrona”, perché a Roma ci sono Bossi, Maroni, Calderoli e tutti gli altri; ecco allora Castelli che si rammarica di non poter sparare sugli immigrati e Speroni che va oltre e dice perché no, in fondo anche loro mitragliano i nostri pescherecci, perché non ricambiare la cortesia?
E intanto, a proposito di favoritismi e nepotismi, il figlio di Bossi è sempre lì accanto al padre, pronto a raccoglierne lo scettro; anche se sono in molti a pensare che non ne abbia affatto i requisiti…
Una cosa devono sapere gli Italiani delle altre parti d’Italia: nella maggior parte dei casi, i fondatori e i sostenitori dei primi movimenti autonomistici non sono più quelli che militano oggi nella Lega Nord: Franco Rocchetta, il fondatore della Liga Veneta, è sparito e Antonio Serena, vicino alle tesi di Gianfranco Miglio, è uscito dalla Lega parecchi anni fa; lo stesso Miglio, il massimo teorico del federalismo, andandosene dalla Lega nel 1994, ebbe a dire di Bossi: «Per lui il federalismo è stato strumentale alla conquista e al mantenimento del potere.»
Vi è tuttora, quindi, un gap fra la monolitica immagina che la Lega, all’esterno, riesce ancora a offrire di se stessa, specie nei confronti delle regioni del Centro-Sud, e quel che sta accadendo nella pancia del profondo Nord, dove la diaspora dell’intellighenzia leghista è in atto ormai da tempo, anche se la base elettorale sembra ancora solida, a prezzo di una involuzione parolaia e demagogica sempre più spinta.
Per quanto riguarda l’antropologia leghista, se così possiamo esprimerci, gli Italiani che vivono a sud dell’Appennino devono sapere che l’archetipo  del leghista rozzo, ignorante, che pensa solo agli “schei” e sogna impossibili ritorni al passato celtico, è assolutamente falso e caricaturale. La base leghista é formata, in massima parte, da persone assolutamente normali, serie, laboriose, oneste; gente che si è fatta da sé, magari a prezzo di mille sacrifici, e che ha raggiunto un certo grado di benessere materiale con il sudore della fronte.
È vero che il passaggio da una società rurale e patriarcale ad una società post-industriale, basata sul consumo sfrenato, sull’inquinamento selvaggio e sullo spreco delle risorse, è stato tremendamente rapido e, senza dubbio, traumatico: nel caso del Nordest, non più di una ventina d’anni.
Le città sono cresciute senza avere il tempo di farsi belle, i capannoni industriali sono sorti come funghi, alla rinfusa, senza alcuna pianificazione territoriale.
Gli amministratori leghisti, quando sono criticati su questo punto, si difendono con il contrattacco e dicono che chi ha un minimo di sensibilità ecologica, evidentemente rimpiange i tempi dell’emigrazione (quella dei nostri nonni) e della miseria; e offrono, così, la migliore prova della loro miopia e piccineria culturale: perché basta essere stati in Baviera, in Alsazia, in Belgio, per sapere che una rigorosa tutela del patrimonio paesaggistico e boschivo non è affatto di ostacolo a uno sviluppo economico e industriale.
Basta saper fare le cose con un po’ di intelligenza e di buon senso e con un certo grado di rispetto della tradizione: proprio quella tradizione cui la cultura leghista dice di essere tanto affezionata, ma, spesso, soltanto a parole.
Bisogna pur dire che il “miracolo” del Nordest è stato fatto dai nostri nonni; mentre i loro figli, cioè molti dei componenti dell’attuale classe dirigente leghista, hanno ereditato le fabbriche e i conti in banca, qualche volta anche la capacità di sacrificarsi sul lavoro, ma raramente l’intelligenza, la sensibilità, i valori sociali, primo fra tutti quello della famiglia, per non parlare dei valori morali e religiosi, ormai quasi lettera morta.
È altrettanto vero che il profondo Nord non può e non deve essere giudicato sulla base delle chiacchiere da bar: qui esiste una diffusa cultura del bicchiere di vino, per cui, fra amici, si dicono tante cose, alcune anche rozze o francamente ciniche, per esempio sul problema degli immigrati; ma, poi, molte di quelle persone sarebbero pronte a farsi in quattro per dare una mano al prossimo in difficoltà.
Non si dimentichi che, se il Nord, e specialmente il Nordest, sono in testa alla triste classifica dei morti sul lavoro e dei morti sulle strade, lo sono anche nella classifica virtuosa del volontariato, in particolare di quello giovanile.
E anche questo è un fatto, un fatto che non si lascia ingabbiare nel solito cliché del settentrionale tutto lavoro e portafogli, che non sa godersi la vita e non ha cuore per i bisognosi.
Come andrà a finire tutto ciò, nessuno può dirlo.
Ma una cosa è certa: non basta “inventare” la Padania per diventare Celti; i cromosomi di una certa furbizia italica, nel senso peggiore del termine, non sono appannaggio dei politici romani, ma li abbiamo visti e li stiamo vedendo all’opera, anche all’ombra del Carroccio, a dispetto degli alti principi continuamente sbandierati di onestà, efficienza e trasparenza.
In altre parole: non c’è niente di male a voler essere efficienti come i Tedeschi e rispettosi delle regole come gli Svizzeri.
Il problema è che, per essere come i Tedeschi e come gli Svizzeri, non bastano qualche slogan demagogico e qualche sparata sull’indipendenza del Nord Italia dalla “servitù” sudista: ci vogliono una mentalità svizzera o tedesca, sia nel pretendere il rispetto dei propri diritti, sia nell’esercizio dei propri doveri, individuali e collettivi.