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L’impronta ecologica

di Eduardo Zarelli - 28/04/2011

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Il Global Footprint Network é la rete internazionale più autorevole che si occupa di diffondere, standardizzare ed applicare il metodo dell'impronta ecologica come indicatore di sostenibilità: l'utilizzo pro capite di risorse derivanti dalle capacità bioproduttive dei sistemi naturali che rientri nella biocapacità nazionale. Funziona così: i mari sono capaci di produrre un certo numero di pesci all’anno, le foreste ci mettono un certo tempo a ricrescere, gli animali possono essere allevati non oltre un certo tasso di riproduzione e così via. Si mettono insieme tutti i parametri e si calcola la biocapacità della Terra, ovvero le potenzialità di cui il nostro pianeta dispone per produrre risorse nella finestra convenzionale di 12 mesi. A questa capacità viene associato il valore simbolico di "1 pianeta". A livello mondiale, nel 1961 di pianeti ne consumavamo appena mezzo. Nella seconda metà degli anni '80 abbiamo raggiunto il pareggio e oggi dissipiamo un pianeta e mezzo all’anno. Secondo le previsioni più ottimistiche, entro il 2050 i nostri consumi supereranno abbondantemente la biocapacità terrestre di oltre due volte. Nel 2007, a fronte di una biocapacità di 1,1, l’Italia aveva già un’impronta ecologica di 5,0, con un deficit secco di 3,9, in larga parte dovuto all’emissione di gas serra. A pari merito, in Europa, si classificano Spagna, Svizzera e Grecia, mentre peggio di noi solo l’Olanda e il Belgio. Come termine di paragone, il Canada, con le sue sconfinate distese di natura selvaggia, presenta un saldo positivo di ben 7,9, così come l’Australia, mentre agli antipodi non potevano esserci che gli Emirati Arabi Uniti, con un deficit di 9,8 punti, il Qatar (8,0) e tutti quei posti come Dubai, costruiti su terre aride e improduttive, che per mantenere i loro sontuosi stili di vita devono poggiarsi esclusivamente sulla biocapacità del resto del mondo. Una strada certamente non sostenibile, visto che - sia pure con grande sperequazioni tra dissipatori ricchi e morigerati poverissimi - consumiamo le risorse naturali più rapidamente di quanto gli ecosistemi possano rigenerare, ed emettiamo più megatonnellate di gas serra di quanti ne possano assorbire: i 31 Paesi industrializzati dell`Ocse rappresentano da soli il 37% dell`impronta ecologica dell`umanità; i 10 Paesi del Sud-Est asiatico e i 53 Stati dell`Africa, insieme, sommano solo il 12% del totale. Ma ingiustizia e squilibrio emerge anche dall`esame dell`altro grande indicatore considerato nel rapporto: l`«indice pianeta vivente», che riflette lo stato di salute degli ecosistemi seguendo l`evoluzione delle popolazioni di alcune specie di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi (per la precisione, 7.953 popolazioni di 2.544 specie). Ebbene, rispetto al 1970, lo stato di salute della vita animale su scala globale è peggiorato del 30 per cento. Ma se esaminiamo più da vicino questo dato, ci accorgiamo che la vita del pianeta ha subito colpi più duri - un calo di oltre il 60%, e addirittura del 70% se si considerano le sole specie che vivono in acqua dolce - nelle fasce tropicali del pianeta, dove si concentra la parte più povera e debole dell`umanità, e allo stesso dove si concentra il grosso della riserva di biodiversità del pianeta. Al contrario, nella zona temperata - dove sono situati i Paesi industrializzati e più ricchi - questo indicatore registra un miglioramento del 29% rispetto al 1970. Che si spiega da un lato con le misure di difesa dell`ambiente intraprese, ma anche con il fatto che i danni più gravi e drammatici erano già stati compiuti nell`esplosione industriale del secondo dopoguerra. Ancora, la «perdita di biodiversità - si legge nell'ultimo rapporto del Global Footprint Network - è sintomo e sinonimo del cattivo stato di salute degli ecosistemi e implica un peggioramento dei servizi ecosistemici che sono proprio alla base della nostra vita e del nostro benessere». Che significa cibo, materie prime, farmaci, regolazione del clima, depurazione di acqua e aria, rigenerazione del suolo, impollinazione delle piante, protezione da inondazioni e le malattie. Tutte cose fondamentali per la nostra vita. Tutte cose che non hanno prezzo, non hanno costo e dunque non hanno valore, fino a che non cambierà il significato stesso che la nostra cultura assegna all'"economico".
Il criterio dell'impronta ecologica potrebbe essere usato dalle imprese, nonché dai singoli individui per stimare le conseguenze che una propria scelta può comportare ma ovviamente soprattutto dai governi nelle loro politiche ambientali. In tal senso c'è un interessante esempio che viene da oltre oceano. La recente costituzione dell'Ecuador approvata il 28 settembre 2008 e curata dall'Assemblea Nazionale Costituente, riconosce i diritti della natura: si tratta del primo Stato ad aver approvato un riconoscimento formale di questo tipo. I diritti della natura dovranno essere rafforzati dalle leggi e il dispositivo legislativo ricorda l'obiettivo di ottenere il benessere (el buen vivir) in armonia con la natura, come obiettivo fondamentale della società. Per il Global Footprint Network l'Ecuador è diventata la prima nazione a dotarsi di un concreto obiettivo relativo all'impronta ecologica. Nelle ultime cinque decadi l'Ecuador ha visto annullare il suo vasto surplus ecologico che, nel 1961, era più elevato di quattro volte rispetto all'impronta ecologica pro capite. Attualmente l'impronta ecologica di un cittadino ecuadoregno (che è di 2,2 ettari globali pro capite) è molto vicina a quella della biocapacità pro capite (che è di 2,1 ettari globali pro capite) e potrebbe essere rapidamente sorpassata se i trend attuali di consumo dovessero persistere. Per questo motivo l'obiettivo che il governo ecuadoregno si è dato è proprio quello di assicurare alla popolazione del proprio paese di non passare alla fase cosiddetta di Overshoot (di sorpasso) rispetto alla biocapacità nazionale. Questa decisione dell'Ecuador costituisce un segnale concreto che va nella direzione delle riflessioni che, ormai in tutto il mondo, si stanno facendo sui limiti dei nostri modelli di sviluppo socio-economici basati sulla crescita economica illimitata, materiale e quantitativa, che ci ha condotto ad un crescente e ormai ingente deficit ecologico. Il mettere finalmente "in conto" questo debito e il considerare nuovi indicatori di benessere, come elementi fondamentali per l'azione politica sta diventando un impegno imprescindibile di fronte alla crisi finanziaria ed economica del modello occidentale. La New Economic Foundation ha realizzato un breve e semplice cartone animato che dimostra come in natura non esiste una crescita senza limiti, prendendo come spunto un noto e simpaticissimo roditore, spesso utilizzato anche come animale da compagnia, il criceto. Un giovane criceto raddoppia il suo peso ogni settimana che trascorre dalla sua nascita al periodo della pubertà, ma se continuasse paradossalmente a crescere, come avviene dal suo giorno di nascita, giungerebbe a divorare in un giorno l'intera produzione mondiale annuale di granturco. Ovviamente esistono molti motivi per cui il criceto non può crescere indefinitamente, motivi che costituiscono la base dei meccanismi omeostatici della vita che governano i sistemi naturali del pianeta. È proprio a questi equilibri che deve rifarsi l'economia, che non può continuare a estraniarsi dal contesto in cui opera, rendendosi ostacolo alla impellente necessità di ricomporre il rapporto tra cultura e natura.