Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Fino a che punto le sconfitte della vita possono giustificare la nostra resa?

Fino a che punto le sconfitte della vita possono giustificare la nostra resa?

di Francesco Lamendola - 01/05/2011




Bethany Hamilton era una bionda ragazzina americana nata a Kauai, nelle Isole Hawaii, nel 1990 e che fin dall’età di cinque anni aveva deciso di dedicare la propria vita al surf, sentito come una vera e propria missione religiosa: Dio le aveva assegnato il compito di cavalcare sulle onde e lei aveva risposto alla chiamata.
Il 31 ottobre 2003, mentre si stava allenando, uno squalo tigre di cinque metri e mezzo l’ha attaccata e le ha staccato di netto il braccio sinistro. È avvenuto terribilmente in fretta, in pratica senza il tempo per rendersi conto di quel che stava accadendo. Sentendosi un po’ stanca dopo aver affrontato per una buona mezz’ora le gigantesche onde del Pacifico, la tredicenne si era distesa sulla tavola da surf per riposare, lasciando il braccio penzoloni nell’acqua: a un tratto aveva sentito uno strappo e poi aveva visto il mare arrossato di sangue: il suo. Ne aveva perso, in pochi istanti, circa la metà di quello contenuto nel suo corpo e sarebbe certo morta dissanguata, se un amico di famiglia non avesse mostrato una grande presenza di spirito, utilizzando la cinghia che i surfisti usano legarsi alla caviglia per non perdere la tavola, come un laccio emostatico per fermare l’abbondantissima emorragia.
Trasportata di corsa all’ospedale, dove, per pura coincidenza, in quel momento si trovava ricoverato anche suo padre, i medici erano risusciti a scongiurare il peggio e a salvarla con abbondanti trasfusioni; ma il braccio, quello non era stato nemmeno pensabile di poterglielo riattaccare, perché ormai era rimasto nello stomaco dello squalo.
Chiunque altro si sarebbe dato per vinto: ci sono disgrazie troppo grandi perché si possa continuare tutto come prima; si rimane segnati per sempre, si rinuncia, ci si adatta alla sconfitta. Bethany, no: appena un mese dopo il terribile incidente, lei era già in acqua con la sua tavola da surf e riusciva ad issarvisi con le sue sole forze, usando l’unico braccio rimastole.
Ha ripreso gli allenamenti e ha vinto numerose gare, piazzandosi fra le migliori surfiste al mondo e sempre rifiutando qualunque trattamento preferenziale a causa della sua menomazione.
Ora ha compiuto vent’anni e ancora vola sulle onde alte parecchi metri, con una grazia e una destrezza impareggiabili, come se non fosse una creatura terrestre, ma uscita dalle profondità del mare. Non sappiamo quanto, nella sua vita privata e affettiva, abbia pesato o continui a pesare il dramma vissuto quel giorno di sette anni fa; ma intanto la sua battaglia per restare fedele alla propria vocazione, certamente l’ha vinta e a pieni voti.
Sembrerebbe la solita storia drammatica e commovente, così tipicamente americana, condita con quella spruzzatina di horror che piace tanto ai lettori del «Reader’s Digest»; una storia in cui la caparbia determinazione dell’individuo trionfa di tutte le avversità e sembra capace di piegare persino il destino. Hollywood, infatti, se n’è impossessata, sfornando l’immancabile film melodrammatico, intitolato «Soul surfer»; e, del resto, quando mai gli Americani hanno saputo resistere alla tentazione di trasformare in un film, cioè in dollari sonanti, un fatto impressionante di cronaca nera, sia pure a lieto fine?
Ma è, molto più semplicemente, una storia vera; una di quelle storie in cui la realtà sorpassa la fantasia di scrittori e registi cinematografici e ci lascia quasi intontiti davanti al coraggio e alla voglia di vivere di creature apparentemente poco attrezzate per simili battaglie, come può esserlo una comune adolescente che ancora non sa nulla della vita e del terribile mistero del dolore; ma che, invece, dimostra una forza morale e una volontà di superare qualsiasi ostacolo, quale difficilmente si potrebbe trovare in un adulto alquanto navigato.
È una di quelle storie che ci fanno sentire piccoli, perché ci fanno pensare, istintivamente, a tutte le volte in cui ci siamo commiserati e ci siamo arresi davanti a ostacoli decisamente modesti; a tutte le volte in cui abbiamo mendicato con noi stessi delle comode giustificazioni, per scusare la nostra inerzia, la nostra rassegnazione, la nostra vigliaccheria.
Se la perdita di un braccio non ha potuto fermare il sogno sportivo di Bethany Hamilton, come è possibile che una delusione, un abbandono, una sconfitta temporanea, abbiamo potuto incidere così a fondo nelle nostre vite, da tarpare le ali ai nostri sogni e da trasformarci, così spesso, in individui stanchi, rassegnati, che non credono più in se stessi, che non si vogliono più bene, che non si aspettano più niente di bello dalla vita?
Certo, non sempre ci si può battere in condizioni entusiasmanti, non sempre la sfida è avventurosa come quella che ha affrontato la giovane Bethany Hamilton; sappiamo bene che vi sono più sacrificio, più tenacia e silenzioso eroismo in una persona che lotta, per anni, su un letto d’ospedale, magari straziata da dolori atroci, oppure chiusa entro un polmone d’acciaio, senza mai potere, non diciamo annusare l’aroma di salmastro dell’oceano sconfinato, ma neppure quello emanato dai fiori del piccolo giardino sotto la finestra della propria stanza.
Eppure, quale che sia il terreno sul quale noi ci troviamo a raccogliere la sfida, quali che siano le condizioni in cui dovremo batterci per difendere la nostra fede nella vita, i nostri sogni e i nostri ideali, resta pur sempre il fatto che niente e nessuno ci chiederanno mai conto di essi, ma solo e unicamente del modo in cui avremo risposto alla sfida.
Per un uomo senza gambe, scalare una piccola collina è impresa più eroica che non la conquista della montagna più alta della Terra, da parte di chi possiede un fisico perfettamente integro e sano; e ciò vale anche nell’ambito spirituale.
Per un uomo (o una donna) senza appoggi, senza facilitazioni, senza mezzi o beni di fortuna, rimanere fedele a se stesso, portar avanti la buona battaglia e conservare la stima e il rispetto di se stesso, è cosa infinitamente più significativa che non per colui che ha sempre avuto la strada spianata dinanzi a sé; che ha potuto contare su numerosi aiuti; che le condizioni sociali hanno favorito e agevolato in cento modi.
Anche per invecchiare, spesso, ci vuole del coraggio: per accettare la perdita delle forze e, con essa, quella dell’autonomia; per saper dipendere sempre più dal buon volere altrui, senza tuttavia amareggiarsi; per adattarsi a veder sparire tutto il proprio mondo, esteriore ed affettivo, giorno dopo giorno, fino a trovarsi proiettati in una realtà aliena, ove nulla più ci parla dei ricordi e delle cose care, fino all’alienazione suprema di una nuda e fredda stanza d’ospedale, lontani da tutto ciò che abbiamo conosciuto e amato durante la vita.
Siete mai stati in una casa di riposo per anziani o in un reparto ospedaliero di lunga degenza? Se no, o solamente di sfuggita, allora non avete potuto guardare bene in faccia quanto vi è di più duro e scoraggiante nella vecchiaia: ben diverso dal lato fasullo che di essa ci mostrano il cinema e la pubblicità televisiva, le poche volte in cui ne parlano e che è popolato da vecchietti arzilli e pieni di ottimismo e da invidiabili vecchiette, ancora fresche e perfino sessualmente desiderabili.
Ebbene: saper invecchiare con dignità, con onestà, con rispetto di se stessi, è cosa che richiede autentica forza d’animo, autentica bellezza interiore, autentico amore per la vita, anche quando quest’ultima è più fragile, più debole, più minacciata.
E non è cosa che si possa improvvisare: è il punto d’arrivo di una vita bene spesa, vissuta con saggezza, con stupore, con gratitudine sempre rinnovati.
Certo, Bethany è stata coraggiosissima, è stata eroica: ma a tredici anni si può sempre ricominciare, anche senza un braccio: il tempo lavora per noi, il tempo medica le ferite e regala ancora tanto futuro, tanta speranza di futuro e di cose belle e buone.
Ma a una persona di ottant’anni, di novant’anni, che cosa può regalare ancora, il tempo? Quale speranza di un futuro migliore? E questo anche ammettendo il caso più favorevole, quello di una vecchiaia senza troppi acciacchi, senza troppe infermità, senza troppa impotenza; ma che dire di una vecchiaia contrassegnata dal dolore fisico, oltre che dalla perdita inevitabile, una ad una, delle cose più care, del compagno o della compagna di tutta la propria esistenza?
Quindi, la domanda che dovremmo essere capace di porci, onestamente e lealmente, è la seguente: fino a che punto le sconfitte che abbiamo subito nella vita, e che continuiamo a subire, possono giustificare la nostra resa, la decisione alzare bandiera bianca, di riporre nel cassetto i nostri sogni più belli e generosi?
Quante volte ci chiudiamo sulle nostre ferite, cercando in esse non lo stimolo ad approfondire il nostro percorso esistenziale, ma la giustificazione per essere diventati delle persone scoraggiate, rassegnate, perfino ciniche?
E quante volte ci priviamo, con le nostre stesse mani, di nuove e belle esperienze di vita, solo perché siamo talmente condizionati dal nostro passato, da non avere più il coraggio di vivere nell’accettazione del presente e nella speranza del futuro?
Chi non accetta il presente, infatti, è già sconfitto, è già alienato, è già perduto: è come se avesse chiuso i conti con la vita e girato le spalle alla propria vocazione.
Ma, attenzione: accettare il presente non vuol dire adorare l’esistente, così come esso è; vuol dire partire dal qui e ora per costruire qualcosa di nuovo, di dinamico, di gioioso, un momento dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro.
Comunque, bisognerebbe chiedersi che cosa sia una sconfitta, prima di lamentarsi che la vita ci riserva delle sconfitte dalle quali non sappiamo risollevarci.
La definizione che ci sembra più esatta è press’a poco la seguente: subisce una sconfitta chi viene costretto, sotto la pressione di circostanze più forti della sua volontà, a rinunciare ai propri progetti, ad accantonare i propri disegni, a rassegnarsi a subire, in via definitiva, uno stato di cose decisamente contrario all’insieme delle sue speranze.
Ora, come si vede, la sconfitta non è solo un mutamento determinato da cause esterne, ma anche, e soprattutto, un mutamento verificatosi nelle profondità della coscienza, a seguito del quale cambia radicalmente anche la percezione di se stessi e, in particolare, si ha una perdita o una grave diminuzione della fiducia in sé e della possibilità di realizzare le cose cui si aspirava, in cui si credeva e per le quali si era intenzionati ad impegnarsi.
Da ciò risulta chiaramente che l’essenza della sconfitta non risiede fuori di noi, in qualche evento o circostanza che sfuggono del tutto al nostro controllo; ma dentro di noi, nella parte più profonda del nostro essere: quella che sente, che crede, che spera.
La sconfitta è, dunque, una menomazione, temporanea o definitiva, di quella sfera più intima e, per così dire, sacra, della nostra anima.
Oggi si fa un gran parlare, a proposito e a sproposito, di persone “perdenti” e di persone “vincenti”, generalmente con riferimento ai parametri più in voga dell’efficientismo, del consumismo, del giovanilismo. Ma l’unico criterio per decidere chi sia “vincente” e chi sia “perdente” non consiste nel numero delle cose che si possiedono o nell’aspetto che si è in grado di sfoggiare, dopo una lunga e costosa serie di operazioni artificiali, bensì nella capacità di realizzare pienamente e fedelmente il proprio progetto di vita, ossia la propria risposta alla chiamata dell’Essere.
Può darsi che molte persone sostengano non essere necessario alcun progetto di vita, dal momento che la vita, secondo costoro, sarebbe puramente frutto del caso e, di conseguenza, ciascuno sarebbe pienamente libero di giocarsela alla giornata, secondo il capriccio del momento.
Questo, a nostro modo di vedere, è il segno della profonda ignoranza che avvolge le nostre esistenze, a partire da quell’oblio dell’Essere che ha scandito gli apparenti trionfi della modernità antropocentrica, materialista e razionalista.
Ma l’oblio dell’Essere è anche l’oblio degli enti, che dell’Essere sono la manifestazione sensibile, concettuale o spirituale; e, quindi, anche l’oblio di se stessi. Come ciechi che non solo abbiano smarrito la strada, ma anche la consapevolezza di sé, gli uomini e le donne moderni vagano a tentoni lungo le strade della vita, andando a sbattere qua e là, scambiando ogni rametto per una foresta e ogni pozzanghera, per un mare.
Forse è arrivato il tempo di aprire gli occhi e di rimettersi sulla strada giusta.
C’è ancora molta strada da fare, e ci sono parecchie ore di luce prima che scenda il crepuscolo.
Questo, e solo questo, significa vivere la vita da vincenti e non da perdenti, stanchi e rassegnati.