Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Le origini salgariane dell’antimperialismo

Le origini salgariane dell’antimperialismo

di Claudio Asciuti - 01/05/2011

http://www.rinascita.eu/mktumb640a.php?image=1304096781.jpg

Strano paese, l’Italia. In grado di pubblicare qualunque stupidaggine e di nascondere nei cassetti buoni romanzi; di onorare scrittori mediocri al posto di quelli bravi, o anche i non autori, basta che siano passati una volta in tv... Tanto strano che ci vuole uno spagnolo trapiantato in Messico, nella persona di Paco Ignacio Taibo Mahojo, detto Taibo II, a parlarci dell’italianissimo Emilio Salgari di cui il 25 aprile (data funesta per più di un motivo, quindi) è ricorso il centenario della morte, avvenuta per suicidio. Proprio così; lo scrittore messicano (conosciuto sopratutto per il toccante Senza perdere la tenerezza, dedicato al Comandante Che Guevara, più che per la sua produzione letteraria), è un salgariano di ferro.
Al punto di aver scritto una “sua” versione dell’epopea, Ritornano le tigri della Malesia (Tropea, pag.351, euro 16,90) con il sottotitolo fra parentesi, più antimperialiste che mai. Paco Ignacio Taibo II, e in aggiunta, come recita la copertina “Con l’involontaria collaborazione di Emilio Salgari”. Incredibile. Eppure basti leggere l’ottima intervista, a opera di Fabio Zucchella, apparsa sul numero 90 (marzo-aprile 2011) di Pulp Libri, per trovarsi dinnanzi il sorridente autore che ci racconta, dal suo punto di vista di rivoluzionario non pentito, le virtù (e non i vizi) del grande Salgari, “il padre degli eroi”: e la storia di un romanzo che racconta di come Sandokan e Yanez de Gomera ritornino in scena contro il dotor Moriarty (il nemico ufficiale dello Sherlock Holmes di Conan Doyle) e del suo vasto complotto per creare in Borneo un impero: un romanzo sullo stile di Philip Farmer, un incrocio di genti e popolazioni unite contro il grande capitale. D’altronde Taibo II è un uomo che ama l’Italia e la cultura italiana, e dopo l’intervista, addirittura ci racconta in un articolo la sua fascinazione: pressoché impensabile per uno scrittore nostrano, se non a ridosso del centenario. Noi salgariani ci rende edotti su come non fosse solo Giovanni Arpino a considerare Salgari il fondatore di una sorta di confraternita; ma la visione dell’autore messicano scende politicamente molto più in profondità: cominciando a parlare del Che Guevara, grande lettore a sua volta: L’origine salgariana dell’antiimperialismo del Che è evidente, e questo aspetto lo trovo meraviglioso. La differenza fra “Verniani” e “Salgariani” la si nota maggiormente nella sinistra del nostro continente e infatti i “Verniani” sono gli intellettuali che scrivono documentati testi contraddistinti da abbondanti dosi di un razionalismo marxista “neanderthaliano” mentre i “Salgariani” sono un’orda di avventurieri, ma avventurieri dotati di una colonna vertebrale d’acciaio, per i quali l’avventura ha un senso etico. Paco Ignacio Taibo II si allinea, paradossalmente, con la visione pedagogista della letteratura salgariana, che fece storcere il naso a tanti intellettuali (di destra e sinistra...)
Emilio Salgari, giova ricordarlo, nacque a Verona nel 1878 e morì a Torino suicida nel 1911, mentre la moglie era oramai sprofondata nella follia, e gli editori lucravano sul suo lavoro pagandolo poco e nulla. Scrisse un numero enorme di romanzi, dal ciclo dei Pirati della Malesia a quello dei Corsari, da quello del West a quello dell’Africa, da quello delle Filippine a quello della guerra turco-europea, un’infinità di articoli e raconti e un romanzo di fantascienza, Le meraviglie del 2000 (1907) e uno “scapigliato”, La Bohemè italiana (1909) ispirato al romando di Henri Murger e da cui Giacomo Puccini trasse la sua opera più famosa.
Il suo successo gli assegnò un posto di straordinaria importanza nella letteratura che ora potremmo chiamare “di genere”, aprendo subito un contenzioso durante il Ventennio, fra salgariani e antisalgariani; fra i primi ci furono Italo Balbo e Lucio De Ambra, Berto Bertù con il suo Sàlgari (1928), e la rivista romana “Il raduno degli artisti di tutte le arti” del sindacato degli artisti e scrittori; dall’altro Ezio Maria Gray e Giuseppe Bottai e un altro numero di intellettuali; per gli uni Salgari era l’esempio classico del narratore che è anche un pedagogista, che incarna lo spirito nazionale e quello imperiale, una specie di terzomondista antiinglese; per i secondi era un pericoloso esempio non educativo e neanche bravo come scrittore. Alla fine vinsero i Salgariani, e il Nostro se non divenne un’icona per il fascismo poco ci mancò, e non lo divenne non perché troppo anarchico o socialisteggiante, come sostengono i critici “democratici”, ma piuttosto perché i tempi non erano adatti a creare miti letterari e l’industria editoriale italiana ancora incapace di trasformarsi in industria di massa (in senso moderno) e di sedimentarsi, tant’è vero che i due autori che maggiormente lavorarono in quella direzione, Gabriele d’Annunzio e Curzio Malaparte, di fatto furono due outsider: entrambi fondatori di uno stile e di una poetica, osannato il primo, ammirato con una punta di sospetto il secondo.
Finita la guerra le danze si riaprirono immediatamente, e ancora una volta la critica si spaccò in due: da una parte quelli che lo consideravano razzista, colonialista, “fascista”, per via del “politicamente scorretto” con cui parlava delle altre etnie; dall’altro quelli che lo consideravano uno scrittore libertario, un internazionalista dalle simpatie socialiste o anarchiche, benché di fede sabauda. I suoi libri vennero ristampati da diverse case editrici, e sono oggetto di ricerca e collezione da parte dei Salgariani: le vecchie Edizioni dell’Orso in edizione tascabile, quelle con la copertina cartonato e pitonata de Il Carroccio dei tardi anni Sessanta e le illustrazioni un po’ pop, la lunga serie delle edizioni da edicola della Fratelli Fabbri, le varie edizioni Mursia, le prime annotate (e curate da Mario Spagnol) per la Mondadori, quelle raffinate della Viglongo.
Due biografie, Vita, tempeste, sciagure di Salgari, il padre degli eroi (Rizzoli, 1982) di Giovanni Arpino e Roberto Antonetto, e Emilio Salgari. Demoni, amori, tragedie di un “capitano” che navigò solo con la fantasia (Neri Pozza, 1995) di Silvino Gonzato ci raccontano tutto sulla sua vita; nel mentre che la critica cominciava ad occuparsi con più serieta del caso: da Piero Citati a Claudio Magris, da Ann Lawson Lucas a Bruno Traversetti, autore de Introduzione a Salgari (Laterza, 1989) che compie una grande ricognizione sull’opera, da convegni e dibattiti e raccolte di saggi, il corpus critico su Salgari e sulla sua opera si è andato via via raffinando e condensando, con tutti i distinguo del caso, operati in questo senso di chi Salgari lo ha letto fin da bambino e guarda sempre con sospetto a questi tentativi di (indebita) appropriazione. Con il centenario sono comparsi a iosa nuovi testi che fanno il punto sulla situazione, da una nuova biografia scritta da Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi, La macchina dei sogni (BUR, pag. 488, euro 12,00) che attraverso nuove testimonianze studia soprattutto il rapporto con la moglie e il suo internamento, ad una seconda sempre di Gonzato, La tempestosa vita di capitan Salgari (neri Pozza, pag. 256, euro 16), fino al romanzo biografico di Ernesto Ferrero, Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari (pag. 187, euro 19,50, Einaudi), che pur ricostruendo, a metà fra la cronaca e la finzione, gli ultimi giorni dello scrittore in maniera documentatissima, non riesce ad esimersi da un vezzo a metà fra il pettegolezzo e la cronaca spicciola, quello dell’abbassamento forzato, dello smontaggio coatto: il Salgari che ne è esce ha poche virtù e tanta iella, è un Salgari in sedicesimo, un meschino che si arrabbatta fra mitomania e povertà fino alla morte; qualcosa di cui insomma proprio non si sentiva il bisogno.
Ma è proprio su queste piccole miserie, poi, che si costruiscono biografie e spesso critica. O forse è vero il contrario. I Grandi Uomini (con le iniziali maiuscole), di cui ognuno ha ben chiara la definizione, sono così vasti che ognuno riesce a trovarci qualcosa di buono o di cattivo, a seconda del suo sguardo. Alcuni ci vedono la miseria e la povertà e la disperazione, Taibo II quando afferma che nessuno che si sia formato leggendo Salgari, da grande diventa un razzista, e che la sua etica-estetica contempla il senso della fedeltà ai principi e quello dell’amicizia, il senso tragico della vittoria e della sconfitta, non è molto lontano dal senso, vede qualcos’altro...
Così in questo altalenarsi finiamo con una certezza e un dubbio. La certezza è che, a dispetto di molti critici, Salgari fu un grande scrittore, fu l’inventore di un genere “eroico” che si ritrova nella narrativa odierna (basti pensare al ciclo dei corsari di Valerio Evangelisti, a quello di Madburgo di Alan D. Altieri, a certi lavori di Stefano Di Marino) e che influenza perfino la musica (l’ultimo lavoro di Van Des Sfroos, il cantautore del laghese, non a caso si chiama Yanez); fu un uomo dalle mille sventure che infine la vinsero su di lui, e che alla fine della sua vita si suicidò tagliandosi la gola con un rasoio, dopo aver tentato una prima volta, come gli antichi romani, di uccidersi con una spada scagliandosi contro di essa. Il suo suicidio come sempre venne spiegato con le teorie più strane (avvenne con Ernst Hemingway, Yukio Mishima, Cesare Pavese), ma è il caso di rileggersi quello che lui scrisse contro i suoi editori, e che pochi dei pennivendoli attuali, se mai avessero il coraggio di suicidarsi, avebbero comunque l’onore di scrivere. Fu a suo modo, un pedagogista, perché dai suoi libri generazioni di individui hanno imparato qualcosa. Fu il padre degli eroi, e lo sanno gli Dèi se l’Italia non ha bisogno di eroi in questo momento, in cui fra veline, tronisti, politici di destra e sinistra, trans e prostitute, baciapile, pennivendoli e ruffiani in servizio attivo stiamo giungendo a un livello impensabile nella storia nazionale.
E poi il dubbio. Non è forse che tutti (o quasi tutti) questi giovani che vivono una costante e generale disaffezione alla politica, alla lettura e alla realtà sociale... che considerano come (in)imitabili esempi i calciatori e le veline... sono tali perchè sono stati tirati su a cartoni animati giapponesi o a filmetti americani, senza mai un buon esempio, neanche surrogatizio, di un’estetica (e di un’etica) del coraggio e dell’onestà... anziché a Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e il Corsaro Nero, Iolanda e Kammamuri?
Chiudiamo con le parole da cui siamo partiti, quelle di Taibo II: ecco perché noi tutti ci sentiamo salgariani e siamo orgogliosi di esserlo. Quanti italiani affermerebbero la stessa cosa?