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Le intifada arabe, il dio della Mano Invisibile e altre mistificazioni

di Miguel Martinez - 01/05/2011



inviman

Uno dei blog che seguo con più interesse è Salamelik di Sherif el-Sebaie, un giovane egiziano che abita a Torino. Il blog è una fonte importante per capire le grandi questioni delle migrazioni dei nostri tempi, e anche per cogliere certi aspetti del Medio Oriente.

A giorni alterni, mi trovo molto d’accordo e molto in disaccordo con quanto Sherif scrive – comunque i suoi articoli non lasciano mai indifferenti.

Quella di Sherif è una delle poche voci critiche sull’entusiasmo con cui un certo Occidente accoglie le grandi (e diversissime) intifada in corso nel mondo arabo.

Semplificando, direi che il nostro dissenso fondamentale consiste in questo.

Lui nota che per ora le intifada stanno soltanto aggravando le condizioni di una parte del mondo che è già messa assai male; io penso che solo se le intifada si pongono una prospettiva più grande, potranno liberare il mondo arabo proprio dallo stato di sudditanza che lo ha ridotto così male.

Da questa sudditanza, si potrà uscire unicamente attraverso una grande alleanza, e una grande area di scambio, come quella che Hugo Chávez sta cercando di costruire in America Latina. Qualcosa che unisca, ad esempio, i tanti abitanti dell’Egitto al tanto petrolio della Libia.

Solo allora si potrebbero affrontare con dignità le interferenze statunitensi, israeliane o europee.

Una simile alleanza potrebbe ricalcare qualche linea storica – tra paesi islamici; o tra paesi arabofoni; oppure tra paesi ottomani. Non lo so, chiaramente la storia la faranno, nel bene o nel male, gli stessi popoli e non qualche grillo parlante occidentale come me.

Ma questa alleanza potrà nascere solo se prima cadono i vari regimi attuali, in primis quello saudita.

Però io non sono arabo, e Sherif lo è. E quindi è difficile dargli torto, quando lui critica chi vorrebbe giocare a fare la rivoluzione “con il culo al caldo”, a spese dei suoi parenti, amici e connazionali.

Il grande merito di Sherif consiste nel fare una diagnosi di ciò che avviene nei paesi arabi, e in particolare in Egitto, che va oltre i sintomi esteriori. Certo che il Medio Oriente è pieno di dittatori; ma è pieno di dittatori, perché ci sono problemi giganteschi, che i dittatori cercano di tenere sotto controllo, ma che non hanno creato.

Dove sono d’accordo con Sherif, e dove mi separo decisamente dagli entusiasti occidentali, è che non trovo nulla di sacro nel fatto che le folle scendano in piazza.

Nel 1969, la squadra di calcio dell’Honduras battè quella di El Salvador; e subito dopo, una ragazza salvadoregna si suicidò per disperazione, diventando una martire nazionale; quando poi El Salvador vinse contro Honduras, le opposte tifoserie si scontrarono violentemente. Il popolo del Salvador insorse, e l’esercito salvadoregno invase l’Honduras: nella breve guerra che ne seguì, morirono oltre 3.000 persone, per la maggior parte civili, e ci furono 300.000 profughi.

Fu una guerra cretina, brutta e molto popolare.

Altre volte, le sommosse popolari possono essere positive: pensiamo alle folle che riportarono al governo Hugo Chávez dopo il golpe di Pedro Carmona nel 2002. Ma non è nemmeno necessario che siano le masse ad agire: ricordiamo il colpo di stato militare del 1974 che rovesciò il regime portoghese.

Ciò che conta, insomma, è dove porta una rivolta, non la rivolta in sé. E le rivolte arabe sono un calderone, in cui si agita di tutto.

Invece, molti in Occidente guardano alle rivolte arabe in chiave estetica. E il segreto di questa estetica l’abbiamo vista proprio ieri, su questo blog, in una frase di Carlo Formenti, che riguarda un contesto nemmeno troppo diverso, quello del cosiddetto Web 2.0, il Libro dei Ceffi e dei Cinguettatori insomma:[1]

“I profeti del Web 2.0 [...] hanno costruito il mito della democratizzazione sfruttando tre ingredienti ideologici: l’antiautoritarismo delle controculture degli anni Sessanta, il liberismo economico degli anni Ottanta e le infatuazioni tecnomistiche degli anni Novanta.”

L’antiautoritarismo insiste sui cosiddetti diritti individuali.

E’ un discorso in apparenza ineccepibile: sei favorevole o contrario a un poliziotto che picchia la gente a un posto di blocco per rubare i loro orologi? Avanti, dimmi?

Ma i discorsi ovvi spesso nascondono insidie.

Il problema infatti è come collegare i “diritti individuali” alla totalità della nostra vita.

Ora, le discussioni sulla “vera natura umana” somigliano molto a quelle sul tema, l’uovo-o-la-gallina?

Però una cosa dovrebbe essere ovvia: che i diritti individuali li esercitiamo usando una lingua che abbiamo imparato da altri, le esperienze che abbiamo vissuto con altri. E aggiungerei con tutto il mondo nel suo complesso, non solo con gli altri esseri umani. Società ed ecosistema sono inseparabili.

Quando esercitiamo il nostro diritto individuale di viaggiare, dipendiamo dal lavoro di chi ha costruito le strade, da una terra che ci ha regalato la benzina e da un’aria in cui possiamo lasciar andare i nostri gas di scarico.

E ancora di più nelle lunghe fasi di aperta dipendenza, che si tratti dell’infanzia, della malattia o della vecchiaia.

Ora, la cultura che afferma solo i diritti individuali, ignora totalmente la sfera sociale ed ecologica. Tale cultura è enormemente agevolata dal fatto di vivere sempre di più in una bolla di immagini senza contesto, dove le cose non hanno più cause, ma sono solo traumi e miracoli.

Il problema però è che la sfera eco-sociale in realtà non può essere ignorata: può solo essere solo delegata.

E qui arriviamo al secondo punto del “mito della democratizzazione”: il liberismo economico. Cioè la credenza che la parte extra-individuale di noi stessi sia qualcosa di diverso da noi. Certo, dicono, l’individuo che è in noi può prendere dal mondo ciò che vuole, pagando secondo contratto; ma per il resto, il mondo si autoregola, perché non dobbiamo pensarlo in maniera sociale o ecologica.

Ma questo meccanismo che si autoregola, in cui tutto va per il meglio, in cui i nostri problemi sono solo colpa della nostra mancanza di intraprendenza, è un meccanismo teologico. Si chiama, Culto del Dio della Mano Invisibile. Con questo ente misterioso, l’unico rapporto consiste nel rito contrattuale: se il contratto tra due individui è tecnicamente in regola, cioè rispetta alcuni diritti individuali, non si può avere nulla da eccepire – da qui la mistica del Diritto, intesa come legge impersonale; dei Trattati eternamente vincolanti; delle Direttive Europee, o delle Sovrane Decisioni della Comunità Internazionale. L’ONU ha parlato.

In realtà, non si delega ad alcun dio dalla Mano Invisibile. Si delega, semplicemente, a chi ha la forza di imporre gli ineccepibili contratti che vuole lui. Tutta la sfera della nostra vita socio-ecologica è così esclusa dalla “politica”, cioè dalle cose per cui dobbiamo allearci, lottare e combattere.

Ecco che l’affermazione, che pare così rivoluzionaria, dei diritti umani, diventa il proprio contrario: un’accettazione supina, senza precedenti, del nostro isolamento e della nostra impotenza.

Siccome intuiamo che c’è un’enorme menzogna in tutto ciò, ecco che subentra il terzo elemento: “l’infatuazione tecnomistica“. Cioè l’idea che in qualche modo i problemi sociali ed ecologici saranno risolti dallo “sviluppo” e dalla “inventiva”, che invece di conflitti tra esseri umani, ci sia semplicemente una “mancanza di progresso” che spiegherebbe tutto.

Ora, questi tre punti – diritti individuali, liberismo e tecnomistica – costituiscono una potente ideologia, che ha anche un suo fascino.

Gioca flessibilmente (avverbio assai adatto ai tempi) sulla doppia identificazione che abbiamo tutti, come vittime e come imprenditori/protagonisti. E ci dice che l’unico problema di un mondo meraviglioso è costituito da alcuni matti che violano i diritti individuali altrui per sadismo: la mancanza di ogni contesto e di ogni riflessione storica lascia il male senza altra spiegazione. Possiamo quindi amare l’umanità tutta, mentre sognamo la meritata punizione di coloro che hanno scelto di essere malvagi. Ed ecco la ferocia con cui questa ideologia si esprime nei fatti, combinando demonizzazioni mediatiche e bombardamenti fisici.

Questa ideologia – costruita nei laboratori dei neocon – oggi costituisce un’àncora di salvezza per molti che si ritengono di sinistra. Non per tutta la sinistra. Però chi ha gli anticorpi, sapendo che un certo Karl Marx aveva smascherato tante mistificazioni un secolo e mezzo fa, è di solito talmente attaccato a vecchie forme da risultare incapace di comunicare con il mondo attuale.

Molti di sinistra evitano di pensare le cose logicamente: non si vantano di trascurare le ricadute sociali o la storia, semplicemente fanno come se non ci fossero.

E c0sì, quando parlano di Medio Oriente, cadono con estrema facilità in una maniera esaltata e confusionaria di guardare le cose.

Non esistono cause, non esiste uno scambio ineguale, non esiste imperialismo.

Non esiste l’immensa varietà di motivi concreti che induce persone di ogni sorta a ribellarsi, trovandosi casualmente vicine a persone con cui litigheranno un attimo dopo (ma qualche rivoluzione vera, questi qui, l’hanno mai studiata?).

Interi popoli vengono rappresentati da un eccentrico frequentatore di un Internet Point, che conosce a memoria i nomi di tutti i rockstar di moda negli Stati Uniti. Uno come noi, insomma: come mi disse tanti anni fa un tale a proposito di un cane, “gli manca solo la parola, per essere un cristiano”.

E contro l’Internettaro Individuale, c’è solo il Dittatore che nasconde i soldi sotto il materasso. Quindi, una volta che il cattivo è stato mandato via dal popolo anglofono della Facebook universale, regnerà la felicità promessa dal dio della Mano Invisibile.

Il tutto, tecnomisticamente, incarnato dai Nuovi Mezzi di Comunicazione – i rozzi trattori dei sovietici non vanno più di moda.

 

Note:

[1] Facebook e Twitter.